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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Dunque il principe Bülow, gran cancelliere dell’impero, ha fatto visita al pontefice con una pompa magna e un cerimoniale che chiaramente rivelavano le intenzioni dimostrative. Infatti. Il cancelliere Bernardo pare abbia trovato di suo gusto il vecchio gioco del suo predecessore quando anche questi si trovava in conflitto col partito cattolico. È storica la frase di Bismarck, il quale in pieno parlamento ebbe a dire: vedete, io sono più amico del papa che non i signori del centro. Bülow non ha ancora avuto opportunità di parlare alla Camera, ma fa parlare i suoi giornali. E il Leit-motiv è questo: Nonostante il contegno del Centro, le relazioni tra il Vaticano e Berlino sono ottime, amichevoli, anzi cordiali. E gli ufficiosi accordandosi con questi ricamano i loro ampi e generosi commenti sulla visita affettuosa, nella quale non si sarebbe parlato né di questione polacca, né di tanti altri argomenti spinosi, ma unicamente il papa avrebbe fatto vedere al cancelliere di Guglielmone che gli voleva tutto il bene possibile, quantunque quei caparbi di cattolici tedeschi se la siano presa così calda contro di lui. Nonostante il contegno del Centro. Come si può facilmente immaginare questo sfruttamento tendenzioso della visita – tanto più ora che c’è chi vuol aver notato nel blocco qualche sintomo di velleità per un nuovo Kulturkampf – ha incontrato le più vive proteste da parte del Centro. I cattolici di Germania non vogliono in alcun modo essere trattati come rompiscatole politici che si tollerano ma non si approvano. Essi, accentuando la loro indipendenza politica e l’autonomia del partito, riconosciuta del resto apertamente, oltre che nella recente lettera di Pio X al card. Fischer, anche in quest’ultima occasione non vogliono lasciar credere che il loro avversario maggiore, dal quale sono stati trattati come ormai a tutti è noto, abbia ottenuto dal papa una tacita dichiarazione contro di loro. Perciò tutti gli organi del centro prendono decisamente posizione contro la nuova mossa del cancelliere. E la «Kölnische Volkszeitung» rileva espressamente che le è noto come il pontefice né ha favorita né tantomeno desiderata la spiegazione partigiana del significato della visita, spiegazione che è – dice il giornale di Colonia – offensiva per il papa e per i cattolici. Il giornale allude evidentemente a informazioni ufficiose le quali del resto non erano punto necessarie per chi non si limiti a attingere le proprie idee sugli avvenimenti internazionali dai comunicati delle agenzie stipendiate. È naturale che il pontefice, per quanto possa desiderare di rimanere in buona armonia colla Germania non butterà mai a mare un grande partito cattolico semplicemente per far piacere ad un ministro che domani potrebbe non esservi più, e chi conosca un po’ quali siano i centri direttivi del centro germanico, i quali altra volta si manifestarono in una questione ben più importante – quella del settenato –non può dubitare che esso non si sarebbe lasciato fare il tiro meschino che forse Bülow aveva ideato, se si vuol prestar fede agli accenni di qualche giornale. Ma probabilmente il cancelliere è più intelligente dei suoi pagati incensatori. Egli mira più lontano. Già da molto tempo gli si rimprovera di simpatizzare un po’ troppo con certe idee dei suoi nuovi amici di marca bismarckiana; idee che non sono del tutto conformi a quei principi di libertà e di parità per tutte le confessioni di cui egli ama di tanto in tanto farsi bello. E questo non gli aggrada. Ebbene la «cordialità» del papa viene in buon punto per persuadere i più ingenui che Bülow non è poi una «bestia nera», e che si può vivere tranquilli e pacifici sotto il suo governo, senza preoccupazioni di sorta. Dopo tanti grattacapi Bernardo I ha ora veramente bisogno di un po’ di tregua di Dio. Tanto più che non sono lontane le elezioni prussiane e che si va dicendo di una progettata legislazione scolastica che verrebbe a contrastare con gli interessi religiosi, sia dei cattolici che dei protestanti. Una battaglia elettorale sulla base del Kulturkampf. Non ci mancherebbe altro per il povero Bernardo! Percui il buonuomo non ha tutti i torti, dal suo punto di vista, se cerca di premunirsene, magari pure con una benedizione papale.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Sarà soltanto il 3 giugno prossimo che gli elettori di primo grado del regno di Prussia nomineranno gli elettori di secondo grado incaricati alla loro volta di nominare i membri della nuova Camera dei deputati . La campagna elettorale è tuttavia ormai nel suo pieno fervore, e tutti ne attendono ansiosamente il risultato. Poche volte infatti le elezioni prussiane hanno avuto il grande interesse. Dopo la legge antipolacca, di cui è stata grande la ripercussione dovunque; dopo l’interpellanza sulla riforma elettorale, che ha condotto il cancelliere imperiale e primo ministro di Prussia alla tribuna e l’ha obbligato ad esporre su tale questione il punto di vista governativo, c’è invero da aspettarsi che l’attività del nuovo corpo legislativo non abbia a svolgersi tranquilla come per il passato. Il cancelliere, come i lettori ricorderanno, respinse energicamente l’introduzione in Prussia del sistema presentemente in uso nell’impero per le elezioni del Reichstag; annunziò, è vero, delle riforme al sistema prussiano attuale; ora queste riforme non sarebbero conformi ai voti dei partiti di sinistra, e del resto esse sono state rinviate ad un’epoca indeterminata, e quasi alle calende greche. Per tal modo il principe di Bülow, ha scontentato gravemente i liberali e i freisinnige. Poco è mancato che questo atteggiamento preso da lui alla Dieta di Prussia, non agisse sfavorevolemente per il Governo sopra il Reichstag; il Blocco è stato sul punto di disgregarsi, in segno di protesta contro la politica del cancelliere, e se momentaneamente si è rafforzato, non può dirsi che ciò presenti un carattere definitivo. Vi è motivo di credere ad ogni modo che il malumore manifesto dei liberali avanzati, o dei radicali prussiani abbia a manifestarsi nelle elezioni del giugno prossimo. La camera attuale dei deputati in Prussia si compone di 143 conservatori e 59 del centro; mentre i partiti di sinistra dispongono di 28 seggi soltanto, e i socialisti non hanno in questa assemblea nessun rappresentante. I giornali rossi conducono molto rumorosamente e violentemente la presente campagna elettorale; ma sembra assai dubbio che i loro sforzi abbiano un brillante successo. Ora di fronte al tentativo che vogliono effettuare per le prossime elezioni i socialisti prussiani, è utile fermarsi ad osservare quale sarà il terreno della vera battaglia elettorale tra i partiti dominanti. Questa si riassume in due parole: i liberali vogliono ad ogni costo discacciare dal loro seggio dominante i conservatori o per lo meno impedire loro di disporre della maggioranza appoggiandosi in questa o quella questione ai deputati del centro. I giornali liberali non ne fanno mistero: la Freisinnige Zeitung, la Deutschtageszeitung, la Vossische Zeitung dichiarano con differenti parole «che ufficio della borghesia liberale deve essere quello di rafforzare talmente il liberalismo da fargli guadagnare un’influenza decisiva sulla legislazione». Nello stesso senso si esprimeva il proclama dei liberali divulgato a migliaia di copie circa un mese addietro. Non reca perciò meraviglia, se l’organo massimo dei conservatori, la Keutzeitung abbia veduto o riconosciuto in tutte queste manifestazioni liberali, una vera e formale dichiarazione di guerra contro i conservatori. E questo punto rende interessanti le elezioni attuali, perché in questo non si tratterà della conquista di un seggio piuttosto che dell’altro, ma di una vera manifestazione liberale diretta a mandare in frantumi, se sarà possibile, l’organismo del partito conservatore. Ma qui incominciano le dolenti note perché i liberali da soli ed anche coll’aiuto di altri partiti minori non sono in grado se non di far perdere ai conservatori se non pochissimi seggi ed allora dai condottieri del liberalismo si è montato subito il cavallo del blocco. Si è scritto su tutti i tomi, che ove in Prussia si lasci la possibilità ai conservatori di andar d’accordo in molte questioni col Centro e così determinare una maggioranza a proprio favore, non tarderà molto che questo fenomeno si ripeta anche al Reichstag; e il giorno in cui i conservatori torneranno anche in questa assemblea a far causa comune col Centro, al blocco con tanto amore costituito dal Cancelliere, verrà suonata l’ultima ora. La parola d’ordine è quindi questa: guerra ai conservatori, direttamente combattendola, guerra ancor più accanita contro di loro indirettamente creando dei punti di discordia col Centro. La Germania commentando osserva: «non può negarsi che i liberali camminino per la loro strada con la piena visione dello scopo che vogliono raggiungere, quale si è quello di mettere al muro i conservatori. Ed a tal fine, dipingere a colori vivaci i supposti pericoli del blocco nell’Impero prussiano di guadagnare a loro favore l’aiuto del cancelliere e quello del governo nella campagna elettorale. Invece presso i conservatori non si ha affatto una visione egualmente chiara dello scopo che pure devono proporsi di fronte a simile attacco dei liberali. Però si può ritenere come certo, che i conservatori non vorranno compiere su loro stessi in silenzio e senza difendersi l’arachiri che da loro pretendono i liberali». Il Centro ha pubblicato il programma elettorale, chiaro, energico, preciso. In esso non solo i principi fondamentali del partito sono fortemente accentuati, ma è anche presa posizione netta di fronte a tutte le questioni più attuali. La riforma elettorale è assolutamente necessaria – dicono quei cattolici del nord nel grido di battaglia – noi abbiamo sempre combattuto il sistema delle classi e lo combatteremo ancora con tutte le forze. Anche nella questione polacca non hanno cambiato d’un sol punto. «Noi riteniamo i mezzi usati dal governo non solo ingiusti, ma non pratici, ma atti a peggiorare la situazione, ognuno ha diritto al suo pezzo di terra, la proprietà individuale è inviolabile». Il manifesto si occupa poi della questione scolastica, che come noto, è stata nell’ultima legislatura provvisoriamente sciolta con una legge speciale, reclama l’abolizione degli ultimi rimasugli di leggi provenienti dall’infausto periodo del Kulturkampf, e chiude fortemente affermando che i cattolici non si riposeranno fino a raggiunto quello che è il loro ideale, la libertà della chiesa, e la pace ed eguaglianza tra le varie confessioni.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Le Neue Tiroler Stimmen di oggi scrivono: «Nell’ultima giunta il referato di tutti gli istituti provinciali spettava al barone Sternbach. Ora invece come ci assicura, i partiti di maggioranza nella Dieta, cioè i cristiano-sociali e gli italiani si sono accordati d’introdurre in questo punto un cambiamento. Si vuol far le cose in modo che gli istituti provinciali vengano tolti al bar. Sternbach e vengano divisi secondo la pertinenza nazionale, e precisamente verrebbero assegnati gli istituti a nord di Salorno al deputato Schraffel, gli altri a sud al d.r Conci. Di tale attuazione senza rumori di un pezzo di autonomia nei circoli del Tirolo tedesco si è poco edificati. Considerazioni politiche e non meno economiche devono provocare l’opposizione contro tale procedimento. Si pensi solo che con ciò l’importante, dove l’irredentismo già s’aggira per le teste, verrebbe ridotto tutto sotto direzione italiana e sotto influsso italiano. Tutto il rispetto per la persona del signor d.r Conci in tutti i riguardi, ma l’istituto di S. Michele i tirolesi del sud non vogliono affidarlo a nessun italiano. Una tale misura incontrerebbe la più decisa opposizione dei circoli interessati del possesso fondiario tirolese meridionale, e non a torto; gli è pur facile dimostrare che è mantenuto in gran parte con denari tedeschi e che i contadini tedeschi del Tirolo meridionale sono interessati nell’istituto non meno degli italiani. Se l’istituto viene a cadere sotto comando italiano chi ci garantisce che esso continuerà a tener conto in modo corrispondente degli interessi economici dei tirolesi tedeschi? Certo che con tale divisione si soddisferebbe un grande desiderio degli italiani e si ascenderebbe un nuovo gradino della scala autonomistica. Ma vorremmo vedere i partiti tedeschi, che darebbero il loro assenso a questo piano che strazia l’unità provinciale!». Abbiamo riportato per intero l’articolo del giornale conservativo, affinché tutti gli onesti si possano fare un’idea della sua perfidia. Evidentemente l’articolo è diretto anzitutto contro i cristiano-sociali. Le Stimmen, come hanno fatto in altra occasione, in un modo indegno di un giornale cattolico, aizzano contro i cristiano-sociali i radicali e i liberali tedeschi, accusando i cristiano-sociali di tradimento nazionale. E in questo caso a vantaggio di chi? In favore del barone Sternbach, di un liberale della più bell’acqua, di un uomo che nell’amministrazione provinciale rappresenta non solo lo spirito tedesco nazionale ma anche quel grande possesso che appoggia il Wahrmund. Non importa, il giornale del cattolicismo genuino, vescovile, patentato, vuole azzeccarne una ai cristiano-sociali e quindi lancia la bomba. E di questa approfitteranno certamente gli altri giornali tedeschi, dando l’attacco violento contro gli italiani, facendo loro sentire fino al midollo delle ossa che sono in minoranza, provocandoli a sangue... Così avremo la pace, la concordia, il lavoro, l’unità della provincia, che tanto sta a cuore alle Stimmen. Denunziamo fin d’ora alla pubblica opinione questo contegno della stampa conservativa. Noi non ci siamo mai immischiati nella lotta fratricida fra cristiano-sociali e conservatori ma quando questa lotta si voglia continuare a nostre spese dobbiamo levare la voce. In quanto alla cosa in sé, siamo in grado di smentire che fra italiani e cristiano-sociali sia avvenuto un accordo per una divisione nazionale degli istituti provinciali. Ciò non toglie che le ragioni che portano le Stimmen in favore dell’amministrazione del bar. Sternbach siano senza fondamento. La mira politica è troppo palese, perché le Stimmen possano parlare di riguardi economici i quali tutti determinerebbero che l’amministrazione di S. Michele sia in mano di un italiano il quale ha per lo meno la qualifica che può avere un tedesco. Noi non intendiamo però oggi di discutere; ci limitiamo a segnalare l’articolo delle Stimmen e a mettere a nudo questo nuovo tentativo di attaccare i cristiano-sociali, a costo anche d’inasprire il conflitto tra le due nazioni della provincia. Il clero e i contadini devono prenderne nota.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Tocchiamo l’argomento non senza ripugnanza e disgusto. Quando si tratta di un ideale o di un interesse comune è così naturale l’appello alla concordia, appare così doveroso il sorpassare sulle proprie riserve, ché il farne è considerato facilmente come una deficienza d’entusiasmo e addirittura una prova di malvolere rispetto alla meta che pur si vuole raggiunta. E tuttavia sentiamo oggi l’obbligo imperioso di levare la nostra voce e di dire francamente il nostro monito. Si è oramai constatato che a quasi tutte le dimostrazioni per la difesa nazionale e linguistica s’attacca una coda di carattere radicalmente politico. La dimostrazione e la festa hanno lo scopo di rinforzare l’elemento italiano là dove minaccia d’indebolirsi, di risvegliare la coscienza del proprio carattere nazionale là ove è assopita e anzitutto di combattere il triste fenomeno del volksbundismo, la tendenza cioè di germanizzare o di lasciarsi germanizzare. Benché tali feste non debbano essere intese che come uno (e non fra i più efficaci) dei tanti mezzi che giovano allo scopo sopra detto, è certo ch’esse hanno il loro valore, specialmente se appariscono quali giornate di pacifica propaganda del sentimento nazionale. Tale valore viene loro dato in genere dalla parte ufficiale e seria della festa, ove agiscono le persone che sentono la responsabilità del momento e vogliono con tutte le forze che la festa rinvigorisca l’elemento italiano e possibilmente concili alla nobile causa gli animi degli avversari. Quasi sempre però s’aggiunge alla parte ufficiale, anche non voluta, anzi quasi sempre combattuta dai promotori della festa, una parte più chiassosa, dopo l’accademia viene la piazza. E benché nelle relazioni della stampa e di fronte ai promotori della festa, valga più la prima che la seconda, rimane però inconfutabile che di fronte alla popolazione del luogo e più specialmente a quella parte che si vuole guadagnare, la piazza appare come la parte più importante, essenziale e vera della dimostrazione. Ne viene di conseguenza che coloro che ne agiscono dovrebbero considerarsi non come squadra che volteggia divertendosi e si sfoga a suo talento, ma come persone conscie della grave responsabilità ch’esse hanno. Purtroppo ciò non è sempre il caso. Dimentichi che la dimostrazione ha da essere perfettamente apolitica, fautori per inconsideratezza e adulata baldanza di un nazionalismo sport e frasaiuolo, essi si comportano a piacer loro. Che giova che la Lega nazionale, o meglio la sua direzione centrale, predichi incessantemente che è un pregiudizio quello di confondere l’opera sua con tendenze di politica radicale o irredentiste, che giova l’accentuare nei discorsi che la difesa nazionale si svolge su un terreno perfettamente legale e in armonia allo spirito della costituzione austriaca quando degli «evviva» e degli «abbasso» costituiscono per la popolazione una prova in contrario? Forse taluno, ideologo più che idealista, avvezzo all’ambiente cittadino, penserà che qui noi esageriamo. No, davvero, e ce ne possono far testimonianza persone di qualunque tendenza politica che vivano in mezzo alla popolazione rurale. Non è qui il luogo né abbiamo alcuna intenzione di discutere l’irredentismo; ma questo ci basti considerare, che la grande maggioranza del popolo nostro a tale politica è radicalmente avversa. Non solo, ma è in tale avversione che molti trovano pretesto di affiliarsi al Volksbund; è di tale equivoco che si valgono i germanizzatori per contestare le loro tristi imprese. Ebbene, chi non vede che il mantenere tale confusione è opera antitrentina, chi non vede che tale nazionalismo è deleterio allo spirito e al possesso nazionale? Quasi sempre del resto segue l’antidimostrazione, nella quale elementi torbidi sfruttano l’equivoco, trascinando alla reazione molti che pure non condividono le loro mire. E se in qualche caso la reazione venne scongiurata fu merito di coloro, che tenutisi prima in disparte s’addimostrarono poi riserve preziose della difesa nazionale. Codesta squadra d’irresponsabili, la quale agisce come in campo proprio sulla piazza o nel chiasso delle dimostrazioni, ma che qualche volta trafuga anche il suo pensiero nella stampa e nei proclami è d’ostacolo primo, per cui in certe occasioni una gran parte di buoni trentini e coscienti italiani si tengono in disparte, rinunziando al lustro della comparsa e all’applauso, seguendo l’impulso che dà la conoscenza della realtà e una concezione democratica della questione nazionale. È giunto il tempo che le persone autorevoli d’ogni partito, ma specialmente quelle che più vi devono avere influsso, levino la voce contro codesti irresponsabili e contro la loro tattica deleteria o rinuncino in tali occasioni alla loro cooperazione. Noi non possiamo che constatare e biasimare. D’altro canto sentiamo però il dovere di rinnovare fervidamente l’appello agli amici nostri di dedicarsi con lena all’educazione nazionale del popolo. Non manchino le società nostre d’istruire i popolani circa la posizione nazionale nostra, circa i nostri diritti costituzionali, circa i doveri ed i diritti di un buon trentino. Questa educazione preventiva e positiva renderà inutile l’azione negativa contro il Volksbund, azione che è sempre più difficile e più faticosa. Educhiamoli a sentire italianamente, ad essere positivamente italiani prima che sorga il pericolo di dover concentrare tutte le forze per non lasciarli diventare viceversa. Quest’opera di penetrazione nazionale se associata ai progressi della democrazia e al lavoro per il risorgimento economico ci darà quel Trentino forte e cosciente che sta in cima alle nostre aspirazioni.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Per un caso provvidenziale ci siamo impossessati di una circolare segretissima della redazione del Volksbund diretta ai suoi amici più fidati. La pubblichiamo integralmente richiamandovi tutta l’attenzione dei lettori. Ecco il testo preciso, compresi gli errori di lingua e di stile. Tiroler Volksbund «Tirol den Tirolern» Da parte competente si ha l’intenzione di scendere nella parte meridionale della provincia nei luoghi nei quali finora non esistono bersaglieri comunali e di aggregare alle compagnie di bersaglieri tiratori a segno (Standesschützen-kompanie) come ne esistono già da lungo tempo nel Tirolo settentrionale. Le compagnie di bersaglieri tiratori dovrebbero formarsi in certo modo un punto di cristallizzazione per la popolazione leale all’Imperatore di quel paese ed avrebbero in caso di guerra lo scopo, di aver se necessario la cura per l’ordine pubblico quale retroguardia delle truppe operanti, e di sopprimere elementi con intenzioni ostili e finalmente di sorvegliare stazioni telegrafiche e telefoniche già esistenti e da erigersi e simili. Queste compagnie di bersaglieri tiratori le quali sono una istituzione puramente civile e si eleggono da se i propri ufficiali devono dunque consistere in uomini fedeli al nostro Augusto Sovrano sui quali si può avere piena fiducia. Ma dove si potrebbe trovare simili uomini se non nelle file del Tiroler Volksbund? Per questo motivo la direzione della Lega popolare Tirolese ritiene di dover richiamare l’attenzione di codesta rispettabile direzione del gruppo su questa popolazione da formarsi (con l’appoggio anche delle i.r. autorità austriache) e di consigliarlo urgentemente di procedere con tutti i mezzi alla formazione di una tale compagnia di bersaglieri tiratori in codesto distretto cosicchè questa compagnia se mai possibile consista di membri del Tiroler Volksbund e di elementi amici dello stesso. Con ciò si guadagna: 1) nuovi punti di appoggio per la tendenza della nostra Lega e per l’unità della nostra patria Tirolese. 2) nuovi punti di appoggio per il mantenimento rispettivamente ristabilimento della popolazione tedesca o ladina permanente, perché se la compagnia consiste di membri della nostra Lega e di elementi della stessa parte se essi nella compagnia formano la maggioranza questi possono anche pretendere di poter far uso della lingua di comando tedesca nella corrispondenza di esercizio. 3) di denominare in lingua tedesca la compagnia di bersaglieri tiratori a segno p. e. Landesschützen-kompanie in Pedemonte. 4) di poter far uso del timbro tedesco e presentare all’i.r. Casino di Bersaglio l’iscrizione tedesca. 5) di poter condurre nella bandiera della compagnia da procacciarsi col tempo, secondo l’antico uso Tirolese, la gloriosa aquila Tirolese. Compito della compagnia di bersaglieri tiratori a segno in tempo di pace sarebbe: la attivazione del sentimento patriottico, la collezione del tiro a segno, il prendere parte alle festività in onore del nostro amatissimo imperatore e ad altre festività patriottiche e di prendere parte alle sepolture di altri camerati morti e di altri personaggi distinti del comune. Alla compagnia di bersaglieri tiratori potrebbero prendere parte gli obbligati a militare ma dovendo questi nel caso d’una chiamata entrare naturalmente nei loro corpi militari si dovrebbe aver cura già da principio che ad onta di ciò restino presso la compagnia abbastanza uomini non più soggetti ad obblighi militari. Una compagnia che procede con energia alla prossima meta potrebbe perciò, come si può desumere da queste indicazioni, conseguire col tempo moltissimo; giacché ora sembra del tutto impossibile. Ad ognuno deve essere chiaro che in questo modo viene un punto d’appoggio essenziale che dovrebbe essere rispettato da tutti i fattori delle ii. rr. Autorità austriache, che noi faressimo un passo avanti per la consolidazione della nostra posizione nel Tirolo meridionale. Di più non si deve dimenticare che si ha bisogno degli elementi fedeli al nostro Augusto Sovrano e colui del quale si ha bisogno, può anche pretendere qualcosa e verrà esaudito. Sarà bene quindi di dare subito principio a questo piano confidenzialmente e senza far chiasso come buon accorgimento. Spese d’importanza non ne deriveranno, giacché l’amministrazione militare fornisce i fucili e l’armamento nonché la montura che ogni compagnia può farsi secondo il proprio gusto e a ciò vengono forniti i mezzi in denaro. Obblighi pesanti non ne vengono richiesti. Se vengono desiderate ulteriori informazioni le stesse verranno fornite con piacere. Anche scritturazioni non occorrono molte, giacché la direzione della Lega popolare tirolese si assumerà tale incombenza, appena questo gruppo riferirà, che codesto gruppo d’accordo alla società patriottica è in grado di formare una compagnia di bersaglieri tiratori a segno. Per intanto sarebbe soltanto da riferire alla direzione del Tiroler Volksbund: 1. Se il gruppo della nostra Lega Tirolese popolare fosse in grado di formare d’accordo con la società veterani una compagnia di bersaglieri tiratori a segno. 2. Quale forza tale compagnia avrebbe in tempo di pace e quale in tempo di guerra. Se si potesse formare una lista di quelle persone, che fra Volksbundisti e loro amici fossero disposti di far parte di questa compagnia, sarebbe cosa assai grata. Aspettando una risposta appena possibile. La direzione della Lega popolare Tirolese». Non è necessario commentare a lungo, né del resto avremmo nell’ora che stringe il tempo conveniente. La circolare rivela un piano astutissimo e ben meditato. Il Volksbund ha incontrato sotto la sua bandiera l’energica opposizione di tutti i trentini. Il nostro popolo, quando gli vennero spiegati i veri scopi della società germanizzatrice, non fu più facile preda degli agitarori teutonici. Ebbene ora il Volksbund tenta di passare di contrabbando, coll’eventuale appoggio delle autorità politiche e più ancora del militare. Il Volksbund vuole diffondersi e piantarsi nel nostro paese a spese del ministero della guerra ossia coi danari dei contribuenti. Il Volksbund, visto che si sono smascherati i suoi intenti pangermanici, tenta di penetrare nelle nostre file sotto la bandiera della fedeltà all’Imperatore. Ma i suoi veri scopi sono palesati anche in questa circolare. Il Volksbund vuole sfruttare le autorità militari e il patriottismo delle nostre popolazioni per ottenere «nuovi punti di appoggio per il mantenimento rispettivamente ristabilimento della popolazione tedesca e ladina» ossia per intedeschizzare e germanizzare paesi italiani. Il Volksbund tenta di porci di fronte a una situazione equivoca, e di aver mezzo di accusarci poi facilmente di irredentismo perché combattiamo la germanizzazione. Ma il giuoco non riuscirà, l’ipocrita tattica dei germanizzatori è smascherata a tempo. Noi ci opporremmo con tutte le forze alla novella forma d’invasione. Speriamo anzi siamo certi che le autorità governative comprese le militari, saranno avverse e s’opporranno a codeste mene infernali. Il nostro popolo avrebbe ben triste premio della sua fedeltà, se in nome del patriottismo si tentasse di snaturarlo nella lingua e nella cultura.
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1,908
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11906-1910
Brevi parole per dire che oggi ricordiamo con riconoscenza e con esultanza la grande enciclica del sommo Maestro . Poche parole per riaffermare il nostro proposito fermissimo di seguirne gli ammaestramenti. E se oggi gli elogi dell’enciclica o le commemorazioni non sono così verbose né tanto frequenti come nei primi anni, no, non è l’entusiasmo ch’è venuto meno, né illanguidisce la fede nella democrazia cristiana. È il fervido lavoro al quale tu ci hai chiamato, o Leone, è l’opera faticosa e senza tregua a cui noi, cattolici trentini, come tanti d’altri paesi, dedichiamo tutte l’energie che impedisce il volo al pensiero e il lieto ritorno delle memorie. Tuttavia oggi per un momento, levate la testa, o voi che vi affaticate nel nostro campo, e ricordate ascoltando. Bevete dell’acqua pura nelle sue scaturigini, e poi rincurvatevi al lavoro. Alla tregua breve seguiranno le energie tenaci e lunghe. Guardate all’ideale! Che importa la fatica? Noi dobbiamo raggiungerlo. Ascoltate la dottrina vecchia e sempre nuova. La combattono a destra e a sinistra. Che monta? Il nostro pensiero sociale viene dettato da Lui e confermato autorevolmente. Avanti! La nostra via è la via diritta. «Che ciascuno faccia la parte che gli conviene; e non s’indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più malagevole la cura di un male già tanto grave». (Rerum Novarum).
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1,908
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11906-1910
Il femminismo, ossia la partecipazione della donna ad attività pubbliche e a professioni che sono fuori della cerchia famigliare è oramai anche nel Trentino non solo una parte della questione sociale, ma è anzitutto un fatto sociale. E noi oggi, inaugurando questa rubrica adempiamo prima d’ogni altra cosa una funzionalità della cronaca, la quale deve tener conto dei fatti sociali, come degli altri avvenimenti privati. Noi ci poniamo quindi fermamente sul terreno della realtà, col saldo proposito di rimanervi, senza uscire in esagerazioni e deviare in sentimentalismi o in vacue disquisizioni. La «Pagina femminile» dovrà divenire conseguentemente una rubrica di fatti. Ma perché il fatto sociale del femminismo ha generato il problema femminista, ossia la questione della donna nella vita pubblica, il giornale verrà naturalmente occupandosi della questione femminile. E anche qui la nostra Pagina dovrà essere più che mai positiva. Tener conto del movimento femminista in tutto il mondo ed in ispecie nella nostra nazione, seguirlo con occhio attento ed interessato, ma accettare e far suo solo quello che è risultato certo ecco il nostro metodo. La Pagina femminile si dirige però anche alla donna nella famiglia. Accompagnarla nei primi passi, quand’esce da questo santuario nella pericolosa atmosfera delle pubbliche attività non come persona che agisce indipendentemente, ma quale coefficiente del marito; più ancora rifondere nelle nostre madri ed educatrici quelle cognizioni e quei sensi che sono loro indispensabili per formare bravi cittadini ed integri cristiani della nostra età, ecco il compito altissimo, al quale vuole dedicarsi questa parte del giornale. Di fronte a che, quello che oggi offriamo parrà ben poco, ma l’accolgano le signore come una promessa per l’avvenire. La Pagina è affidata ad un comitato di signore della sezione femminile del «Giovane Trentino» , le quali intendono così di esplicare anche giornalisticamente un’attività corrispondente al programma di «donne cristiane, italiane e democratiche» che la sezione femminile ha fatto suo. E con geniale pensiero hanno voluto incominciare oggi, a mezzo il mese consacrato alla Donna più ideale e celeste, e all’anniversario della celebre enciclica in cui Leone XIII affrontava i problemi molteplici delle cose nuove e dettava sentenza, ammonendo, ma soprattutto incoraggiando. «il Trentino».
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11906-1910
Benedetti i giovani che dicono la verità! Gli infingimenti della politica e gli opportunismi del tempo e del luogo, delle «circostanze» e dell’«ambiente» non li hanno guasti ancora. Più tardi, fatti medici in condotta, divenuti avvocati o giudici di un popolo credente, si rivestono di quell’abito incolore che li rende buoni a tutti gli uffici e accetti a tutti i clienti, dando sfogo ai loro sensi, che potrebbero dispiacere ai più, solo in un crocchio di consenzienti fidati al caffè, o in una corrispondenza al giornale liberale, contrassegnata da una sigla poco trasparente. Ma costoro sono di già invecchiati; i giovani, eh i giovani amano le concezioni radicali e la loro franca e rude espressione. Così ora essi hanno dichiarato che il cattolicismo, naturalmente non quello che i pusilli si tengono dentro la chiostra dei denti, ma quello che si manifesta nella vita sociale, è il loro nemico comune. E sia! Codesti guizzi di lampi che fendono il cielo bigio devono rischiarare la nostra gran via. Guai se non cogliamo l’attimo in cui la luce, rapida ridona l’aspetto sincero alle cose. Si convincano anche i miopi. La divisione degli spiriti permane inesorabilmente, malgrado tutto. La ferocia di un nemico di razza può sopire, allenire il contrasto; ma esso sussiste e tratto tratto si manifesta in tutta la sua ampiezza. La religione e la chiesa dei loro padri, la religione avita è loro nemica; noi che vogliamo i progressi di oggi ma incardinati alla salda base di ieri siamo il nemico. E un nemico comune a tutti loro, italiani, tedeschi, slavi e quant’altri le competizioni nazionali in tale riguardo dividono. Hanno dunque ragione i cattolici, quando propugnano un’organizzazione propria e battono propria bandiera; la loro posizione decisa, intransigente, battagliera è un postulato della prudenza e della logica. È vero, sono i giovani che l’hanno detto, ma, badate, i vecchi lo pensano. Nel giorno della debolezza tutti ci saranno addosso. È nostro dovere quindi di rafforzare la propaganda del pensiero nostro e di disciplinare le nostre file. Perché rechiamo noi in atto tanto sforzo nella vita pubblica? Forse per il miserabile «frammento» di potere politico? No, noi lavoriamo per il trionfo della nostra idea in tutto il Trentino. Gli è in essa che si riflette il nostro programma integrale. Siamo d’una parte cattolici per il cattolicismo e dall’altra italiani per il nazionalismo, infine democratici per la democrazia! No, siamo cattolici perché vogliamo essere buoni trentini e siamo nazionali perché vogliamo essere bravi cristiani; lo spirito democratico emana da tutti e due e in entrambi si trasfonde. Quest’armonia, questa fusione, quest’integralismo, come s’usa dire, è la nostra ragione d’essere. Per questo chiediamo che si diffondano e ravvivino anzitutto le nostre società di cultura, ove il sentimento religioso irradia quello nazionale e d’ambedue si propagano per il veicolo della democrazia. Fuori di loro c’è del bene ancora? E chi ne dubita? E alleamoci pure, ove occorra, anche con dissenzienti per ottenerlo; ma soltanto, là dove il programma integrale non ne patisca, e solo in modo che l’alleanza non implichi contraddizione. E soprattutto, poichè si tratta di lui, guardiamo al popolo, teniamo conto della sua psiche, della sua logica. Tra noi e il popolo non si voglia porre in mezzo l’accademia delle frasi fatte o una terminologia idealistica; chi ripeterà tale giuoco, finirà con delusioni amare e un giorno, meravigliando, si troverà isolato in mezzo a stranieri che s’illudeva amici. Allora del Trentino sarà sfatto anche quel poco che si teneva su a forza di puntelli. Orsù, amici, ricordatevi del vostro dovere di creare un popolo di fratelli non solo di sangue o di nazione, com’è e come deve rimanere, ma fratelli di cuore e di mente e di fede soprattutto: quest’è il compito primo. A tale lavoro vi ecciti nuovamente il triste richiamo d’oltrebrennero. Il «comune nemico» dev’essere sempre in armi ed accettar battaglia quando che sia.
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11906-1910
Da un amico del nostro giornale riceviamo questa lettera aperta e la pubblichiamo perché «i molti» a nome dei quali egli scrive sono, possiamo ben dire, tutti i trentini. Signor Luogotenente , Ho letto sui giornali tedeschi che, quando gli studenti cattolici invocarono l’aiuto dei gendarmi contro le violenze della teppa liberale, Vostra Eccellenza, o chi per Lei, non si diedero per intesi ai ripetuti inviti e lasciarono che desse chi dava e pigliassse chi pigliava. Ottimo consiglio! Laissez faire, laissez passer! Peccato che né i conservatori né i cristiano-sociali sappiano elevarsi a queste altezze vertigginose della politica e Le intimino che, alla prossima occasione, avranno da dirle una paroletta, da aggiustare certi conti... Gente pretenziosa e senza cervello, la quale non capisce che Innsbruck, nella sua maggioranza è liberale e che perciò i cattolici devono star zitti o rassegnarsi a pigliarle; ma non potranno mai e poi mai pretendere che l’autorità vada in rotta coi «signori padroni» e si esponga a gravi imbarazzi per una misera questione di eguaglianza accademica o per altre quisquiglie di tal fatta. Intanto ecco una spina per l’Eccellenza Vostra, che ama tanto la pace e che, con tutta probabilità manderebbe volentieri a quel paese Wahrmund, berrette, fasce, fioretti società accademiche e il diavolo che se le porti. Ma a farlo apposta, Eccellenza, nel Tirolo non vi è solo un Wahrmund e una lotta fra cattolici e liberali; vi è anche un Volksbund e una lotta fra tedeschi e italiani. Anche qui Vostra Eccellenza, se non venisse disturbato, se la caverebbe molto bene. Ella lascerebbe moltiplicare pacificamente i gruppi del Volksbund e aprire dappertutto asili e scuole tedesche; Ella lascierebbe scorrazzare per la provincia sacra ed una del Tirolo agitatori berlinesi e luterani, senza torcere loro un capello; accontenterebbe gli italiani con poche ma belle parole, deplorando nei segreti ambulacri della sua residenza le mene volksbundiste e assicurando che le vede volentieri come il fumo negli occhi; metterebbe del resto ad acta le proteste e si riserverebbe di salassare «in sede politica» i perturbatori... trentini della pace. Non potrebbe così l’Eccellenza Vostra uscirne liscia ed intatta? Signori, no: v’è chi le rompe le uova nel paniere e pretende che il Meyer stia fuor dei piedi, che il Trentino non si possa intedescare e che l’autorità usi ugual peso e ugual misura con ambo le nazioni. Robe da chiodi! O che sognano questi cenciosi di italiani? Di essere pari ai tedeschi e di godere i medesimi diritti? Buono che ad Innsbruck c’è il prof. Wackernell, che veglia e ne rintuzza la caparbia. Narrano le Innsbrucker Nachtrichten che venerdì 22 maggio 1908, che egli nell’adunanza del gruppo maschile enipontano del Volksbund, pesati gli italiani e trovatili pezzenti rammentò loro che non possono pretendere né più deputati, né più impiegati, né il diritto di essere padroni in casa propria, né quello di avere una maggiore partecipazione al governo della provincia, finché vi faranno parte. Non voglio oggi, signor Luogotenente, questionare col signor Wackernell, sull’esattezza e sul valore delle sue cifre. Solo, col permesso dell’Eccellenza Vostra, rammenterò a questo professore accademico, che gli uomini non si valutano semplicemente a peso, come gli animali; che il criterio esclusivo del censo è fallito presso i popoli più colti e nel 1907 crollò finalmente anche a Vienna; che uno strappo, almeno uno strappo, a questo esoso e ingiusto sistema, verrà dato senza dubbio anche ad Innsbruck; che in cenciosi hanno diritto di amministrare da sé i loro cenci, e se vengono constretti a tener casa comune coi gran signori, possono e devono domandare di stare in casa come comproprietari, non come ricoverati. Ma, vedi mo’! Io mi sono perduto a parlare col Wackernell, mentre voleva scrivere a Lei, signor Luogotenente! Scusi, torno tosto in carreggiata. Com’Ella saprà, dopo l’applaudita concione del su non lodato professore, si venne a eleggere la nuova direzione, e qui, al primo posto, trovo subito un impiegato, l’ufficiale superiore delle poste Heidegger. Orrore, signor Luogotenente, orrore! Io non vado più avanti, non mi curo di vedere se ve ne siano altri, mi contento di quest’uno e divido con Vostra Eccellenza tutto il raccapriccio e lo sdegno alla vista d’impiegati che fanno parte, anzi stanno a capo, d’una società che è diventata il segnacolo della discordia nella Provincia, il fomite delle lotte più acri, l’impedimento della stesa attività dietale! Ma che? Vostra Eccellenza mi guarda meravigliato e sorride. Oh, adesso capisco! Gli impiegati che non possono partecipare a società molto più innocenti del Volksbund e nient’affatto politiche; gli impiegati che, se ardissero darvi il nome o manifestare la loro simpatia e il loro plauso per esse, tosto verrebbero ammoniti e minacciati di pene; quest’impiegati sono gli italiani. I tedeschi sono di un’altra specie, della specie privilegiata. Essi sono i soli che sanno e che fanno; essi i soli che «nella parte tedesca e nella parte italiana della Provincia» possono salire ad altri uffizi; essi i soli che possono aiutare colla parola, coll’opera, col denaro il Volksbund, senza che nessuno osi toccarli. Ha ragione il Wackernell, Eccellenza, ha ragione! Ed io voleva criticarlo! Ma no! Non può essere così! Non si dice che la legge è eguale per tutti? E allora, signor Luogotenente, come la va con queste eccezioni che si fanno per gli impiegati tedechi e per il Volksbund? Creda pure: noi siamo stanchi di vedere gli italiani posposti ai tedeschi negli avanzamenti, nei diritti, in tutto. Siamo stanchi di vedere tanta disparità di trattamento fra le due nazioni della Provincia. Sappiamo ch’Ella udì più volte dai nostri deputati i lagni per quest’intollerabile oppressione. Ora leviamo pubblicamente la voce. Vogliamo giustizia ed eguaglianza, piaccia o non piaccia ai prepotenti del Volksbund, di qualsiasi partito e colore. Non tolleriamo più oltre che l’autorità ci bistratti e ci lasci bistrattare a questo modo. Vogliamo sapere se noi siamo o no equiparati ai tedeschi, o se questi e lo strumento della loro prepotenza godono speciali favori. Naturalmente, di parole non sappiamo che farne. Ci vogliono i fatti. E noi attenderemo di portare a notizia del pubblico che agli impiegati fu proibito di far parte del Volksbund; che il Volksbund non può più piantare gruppi all’estero, come non potrebbero piantarne società nazionali non tedesche; che il Volksbund non può più invadere terre italiane; ch’esso non può, per mezzo di certi suoi membri, sobbillare le popolazioni anche contro le autorità ecclesiastiche; che gli italiani sono equiparati ai tedeschi; che, al pari di questi, possano mettersi tranquilli e fiduciosi al servizio dello Stato... Posso cominciare, signor Luogotenente, a dare al pubblico queste informazioni? Poiché se dovessimo attenderle troppo credo che ai conti da regolare coi cristiano-sociali potrebbero a suo tempo aggiungersi quelli degli italiani. Come le piace, Eccellenza! Uno per molti
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11906-1910
I socialisti cantano a gran voce vittoria ma non sappiamo perché. Hanno guadagnato tre mandati, è vero, ma tutta la loro vittoria è qui. I loro soci nella battaglia, coloro coi quali dovevano dividere il bottino, i liberali se ne sono invece usciti con perdita. In conclusione le posizioni dei cattolici sono rimaste quasi inalterate, una piccola perdita alla Camera, un piccolo guadagno al Senato. La maggioranza ancora per essi in tutte due le assemblee legislative. Ecco i numeri: uscivano 39 cattolici, 22 liberali, 19 socialisti, 1 daensista; vennero eletti invece 37 cattolici, 21 liberali, 22 socialisti, 1 daensista. Al Senato la maggioranza cattolica è salita da 14 voti a 18. Queste cifre, sta bene però esaminarle un po’ da vicino. I due mandati furono perduti dai cattolici e caddero in mano dei liberali a Liegi e a Tongern. Com’è noto nel Belgio v’è il voto proporzionale. Nell’ultima elezione i cattolici a Liegi avevano avuto 48.617 voti e quindi quattro deputati, i socialisti 64.703 e quindi sei deputati, i liberali tre con 39.402 voti. Ma Liegi è la cittadella del conservatorismo cattolico. I vecchi non hanno mai saputo in fondo al loro cuore adattarsi alle mosse più franche e più moderne dei loro commilitoni. Questa differenza di vedute nel campo cattolico, che si manifesta, più o meno, in tutti i paesi, e che fu spesso rovinosa alla causa del bene, parecchie volte si acutizzò anche nel regno di Leopoldo, e anzi si può dire l’unico punto debole della maggioranza governativa. Ma per l’opera prudente dei più autorevoli uomini delle due parti si è sempre riuscito a evitare che si venisse ad aperta rottura offrendo il fianco all’avversario ch’è sempre concorde nell’assalire. Anche in quest’occasione in tutto il paese conservatori e democratici cristiani andarono compatti alle urne, non però a Liegi, dove le ire pare siano implacabili, e la conseguenza fu che uno dei candidati cattolici cadde... perché non era conservatore. Forse il monito sarà salutare e convincerà quelli che non l’hanno ancora compreso, come al di sopra di ogni ambizione personale o di scuola, o di chiesuola o di tradizione, o di abitudine di tenere il mestolo in mano ha da dominare sempre l’amore alla causa per la quale tutti hanno il medesimo entusiasmo e lo stesso buon volere di dedicarvi le energie del loro lavoro, per quanto i metodi siano diversi. E le belle battaglie che i cattolici belgi hanno vinto furono fino adesso il frutto di una concordia fatta di reciproca condiscendenza e di reciproci sacrifici, nelle cose che sono discutibili e che anche nel nostro campo vengono diversamente giudicate. Più strana, almeno fino a che non si abbiano notizie maggiormente precise, sembra l’elezione di Tongern. Qui i tre candidati cattolici si ritenevano sicuri, l’ultima volta avevano avuto 48.405 voti e solo 10850 i liberali, dunque una maggioranza schiacciante. È quindi inesplicabile la perdita d’un mandato. Si dice che vi siano stati degli errori nella numerazione delle schede, sarà bene comunque attendere i risultati ufficiali. Ma più caratteristica è stata l’elezione di Huy. I voti dei liberali, sommati a quelli dei socialisti, superavano qui quelli dei cattolici, i galantuomini fecero però il piano di togliere a questi due mandati. Erode e Pilato? Precisamente. State a sentire. Tutti ricordano le scene selvagge della rivoluzione socialista di sei anni or sono. Allora i rossi incendiavano, saccheggiavano, terrorizzavano. Abbiamo avuto recentemente occasione di fare una breve statistica delle loro gesta gloriose. I grassi borghesi tremavano. In quei giorni una banda organizzata di socialisti percorse le rive del Hoyoux lungo il quale sono allineate numerosissime fabbriche, e la memoria dell’opera vandalica di quelli ossessionati è ancora viva in tutti. Anche gli opifici di un grosso industriale, Bracconier, non furono risparmiati. Ebbene la scorsa settimana Bracconier, il ricco borghese, girava il collegio dando pranzi e cene; egli era candidato liberale... e alla medesima lista che portava il suo nome – combinata dal blocco – v’era pure il nome del socialista Hubin, il capo della banda devastatrice! Non basta: quella lista portava un terzo nome: il borgomastro di Huy, Chainay, anch’egli grande industriale e presidente della società Cocherill. Ora egli appunto nel suo paese è in continua lotta e combatte d’oltranza la maggioranza consigliare socialista che ha per loro capo... Hubin. Ma per combattere i cattolici: Facti sunt amici in illa die. Ma poco loro ha giovato: i cattolici hanno ancora in mano il governo e possono tenerlo perché lo sostiene una maggioranza importante e uniforme. Se può reggersi Bülow in Germania con una maggioranza fittizia, tanto più il gabinetto belga che la ha reale. E i «sozi»... dei grassi industriali possono per intanto attaccare la voglia ad un chiodo. Piange il «Popolo» di ieri: «Senza l’apatia e le disserzioni forcaiole nel campo della borghesia liberale dal Belgio sarebbe stata ancor ieri scopata la tirannia dei neri» . Ma non ostante i lai dei signori socialisti, il Belgio non è ancora la Francia, e vedete caso, proprio in seguito alla tirannia dei neri. Dura da venticinque anni questa tirannia e il popolo la vuole ancora: Sì, perché ci si trova bene. Il Belgio, dopo 24 anni di governo cattolico, è lo stato più prospero del mondo. La cifra del suo commercio per ogni abitante è di L.714, mentre per le altre nazioni la graduatoria è assai inferiore: così in Inghilterra L.555 per ogni abitante; Germania L.244; Francia L.230; Stati Uniti L.105; Austria-Ungheria F.88; Russia L.44; Giappone L.31. Mercè la legge sulle case operaie e la faconda iniziativa dei cattolici nelle sue applicazioni, 155.000 operai sono stati fatti proprietari di una abitazione nuova, igienica e comoda. Più di cinque milioni di sussidi sono andati ad arricchire le società di mutuo soccorso. Quando nel 1884, i liberali furono sbalzati dal potere, le spese annue per l’istruzione pubblica erano di lire 19,548,170. Nel 1904 sotto il regime cattolico, erano di 24,001,170 lire. Sotto i liberali nel 1883 tra i soldati di leva vi erano il 20,05 per cento analfabeti. Sotto i cattolici, nel 1904, erano soltanto l’11,56 per cento. Durante sei anni del governo liberale (1879-1884) il complesso dei «deficit» dei bilanci era di 50 milioni. Durante 17 anni del governo cattolico (1886-1903) non vi fu più nessun «deficit»; ma ogni anno vi furono avanzi il cui complesso ascende a 160 milioni. Il governo liberale aveva aumentato le tasse indirette cioè quelle che si ripercuotono sul consumo. Il governo cattolico ha aumentato una sola tassa di consumo: quella dell’alcool. Il risultato ottenuto è stato la diminuzione di quasi la metà del consumo di questo veleno popolare. Le imposte sul consumo utile sono state diminuite dai cattolici. Quella sullo zucchero è stata ridotta da L.51.13 a L.20 al quintale. Quelle sul cacao, sul the, sul caffè sono state soppresse. Quelle sul vino ordinario sono state diminuite. Nel complesso le tasse sul consumo furono ribassate dai cattolici di 7 per cento per ogni abitante. Le abitazioni operaie sono state sgravate da ogni imposta personale. La patente dei batellieri è stata diminuita, quella dei piccoli impiegati è stata soppressa. Le tasse di trasferimento sulle piccole proprietà sono state o ridotte o soppresse. Ogni tassa doganale sopra le materie prime destinate all’edilizia è stata abolita. Sono state ridotte le tariffe di trasporto dei prodotti agricoli e del trasporto degli operai. E nel campo politico non v’è governo d’Europa che lasci maggior libertà ai partiti avversari del governo cattolico del Belgio. Questi sono fatti, signori socialisti, questo è un programma sociale, di cui voi vi fate belli nei comizi e sulle piazze ma che è ancora di là da venire come il vostro fatidico sole, ma che invece i cattolici hanno già da molti anni attuato. Ma pur di abbattere questi cattolici fate anche voi le vostre opere grandi, sì, turlupinatori, vi alleate coi grandi industriali borghesi e liberali, con coloro che voi, quando vi converrà, chiamerete i dissanguatori, gli oppressori, gli sfruttatori... gli alleati dei preti. Oh sì a voi sta sul gozzo il bene del popolo e la... tirannia dei neri!
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Finalmente si annunzia che mercoledì saranno in Fiemme i delegati della Giunta e della Luogotenenza per trattare con le rappresentanze comunali la soluzione dell’eterna questione. Per la Luogotenenza si avrà un patriota, il d.r Corradini, che ha studiata la questione a fondo e s’industria di trovare fra la linea segnata rigorosamente dalle leggi e dalle decisioni tribunalizie e i postulati della popolazione una via di mezzo che soddisfi in certa misura quest’ultima, senza contraddire alle prime; per la Giunta lo accompagna il cons. prov. Rapp, già noto in Fiemme. La commissione sarà composta dai due delegati e dal capitano distrettuale di Cavalese. Le rappresentanze sono convocate ai 4 a Tesero e a Panchià, ai 5 a Ziano e a Predazzo, ai 6 a Moena, ai 10 a Varena e Daiano, agli 11 a Castello e a Cavalese. In una conferenza, di cui fu pubblicato a suo tempo, i rappresentanti del partito vicinale hanno potuto desumere dalla bocca del loro deputato come e fino a quando si potrebbe provvedere ad una soluzione. C’è da sperare che i delegati d’Innsbruck si muovano su queste basi. Il momento è decisivo e solenne. Una questione vecchia, risuscitata improvvisamente ha gittato la valle in una crisi che ha conseguenze terribili. La questione della comunità ha causato un forte stagnamento economico, e mentre le altre vallate si sviluppano ai progressi dei mezzi di comunicazione, dell’industria dei forestieri e della produzione in genere, Fiemme che è pure così ricca e feconda d’ingegni ha scarse le iniziative e rimane da alcun tempo indietro. Ora è il tempo di decidersi. L’amministrazione provvisoria di un patrimonio sì cospicuo è per una valle di tali e tante tradizioni (senza voler toccare le persone) un attestato di povertà morale, che i fiemmesi non devono tollerare più a lungo. D’altro canto non è neppur lontano il pericolo che, se non si riesce a costituire un’amministrazione autonoma, si provveda più lungamente ad un’amministrazione ufficiosa. Ad Innsbruck c’è chi godrebbe assai se i tentativi di un accomodamento abortissero, poichè allora sarebbe facile a chi ha il potere della maggioranza di piantarsi stabilmente nella valle, e tenendo in mano l’amministrazione di sfruttare la valle per scopi politico-nazionali contrari agli interessi e ai sentimenti dei fiemmesi. Queste considerazioni facciano nell’ora che corre tutti coloro che possono da una parte o dall’altra influire sugli animi per preparare il terreno al compromesso. E anche i più radicali devono concludere che è meglio un uovo oggi che la gallina domani col pericolo di non avere né uovo né gallina. Tutte le conquiste si fanno del resto per gradi; è impossibile dar la scalata di colpo al potere. Intanto sarebbe oramai una bella vittoria della costanza e della tenacia del popolo di Fiemme, se all’oligarchia incontrollata, all’amministrazione arbitraria di pochi venisse con forza legale sostituita un’amministrazione, la quale mediatamente o immediatamente dipendesse dal suffragio popolare e costituisse una partecipazione più larga del popolo all’amministrazione del patrimonio comune. Sarebbe anche un notevole miglioramento se si ottenesse un controllo di delegati eletti a rivedere scrupolosamente le operazioni del consiglio d’amministrazione stesso. E noi, che abbiamo seguito dai suoi inizi fino all’ultimo la campagna vicinale, che abbiamo aperte le nostre colonne alla sincera espressione d’ogni opinione, ma soprattutto alle voci energiche e rudi che venivano dal popolo, perché erano voci oneste e desiderose del bene, accompagnamo i delegati col caldo augurio che l’opera loro riesca, affinché Fiemme, cessate le lotte intestine, riprenda il suo posto sulla via del progresso morale ed economico.
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Il sospiro delle genti trentine è la centrale sul Sarca. Le nuove abitazioni le case più belle, più arieggiate mancano della luce, perché la fonte antica è esaurita. Con quanto desiderio si aspetta la fonte nuova che riversi le sue sfolgoranti energie là dove fuma ancora modesta la lampada ad olio o domina la lucerna a petrolio! Qualcuno nell’aspettazione lunga impazientisce, ascende le scale municipali e tenta i favori degli assessori giuntali, dei signori consiglieri, del podestà, perché in nome di Dio e del progresso, struggano ancora dalle macchine sfinite quella stilla di luce, quelle poche candele che fanno per lui. E il podestá, pover’uomo, risponde ai sollecitatori: Impossibile, non se l’è potuta dare nemmeno a me, nella mia abitazione nuova; bisogna aspettare, pazientare, sperare... In autunno avremo la centrale sul Sarca. Signor podestà; non è vero! Lei s’inganna, Lei è stato ingannato. Luce ce n’è da regalare! Così almeno i censiti della città di Trento hanno dovuto concludere dopo la seduta municipale di ieri sera. L’aula stranissima cosa – era occupata da ascoltatori; erano operai della Camera del Lavoro con in mezzo il loro segretario Luigi Tonet e via, al banco della stampa, sedeva con un tono di «ci son qua» il dr. Cesare Battisti. Si doveva discutere la proposta di «sussidiare» la Camera del Lavoro, e i socialisti eran venuti a controllare i «borghesi» del Municipio. Due campi l’un contro l’altro armati! Ecco qua i «rappresentanti di quell’inetto liberalismo nazionale che fino a ieri ritenevasi il dispotico padrone della capitale del Trentino» pensavano i socialisti in platea. E qualche rosso, considerando i padri della patria che lentamente si raccoglievano entro il sacro recinto, pensò con un ironico sorriso per il presente, all’auspicato avvenire, profetizzato dal giornale della Camera del Lavoro, dall’Avvenire del Lavoratore (n. 49), quando rispondendo all’Alto Adige, a proposito delle ultime elezioni comunali, scriveva: «Ah! signori dell’Alto Adige, decisamente i trentini disobbediscono alle vostre encicliche e cominciano a trovare che gli interessi collettivi si difendono solo seguendo le idee internazionaliste della Camera del Lavoro e certo domani quando ci fosse il suffragio universale saprebbero anche in base a tali idee darvi il ben servito dal Comune, come internazionalmente l’hanno fornito lo scorso 14 maggio al vostro candidato politico». E quanto volentieri vi daremmo il benservito! Ma oggi intanto hanno ancora il mestolo loro, quei cani di borghesi! Ebbene, presentiamo loro una supplica, chiediamo l’obolo municipale... Se ce lo danno, non olet. Ma se non ce lo danno... e oggi ancora riappariva nel loro viso l’aria di minaccia con cui al 1 maggio, dopo aver cantato: Gema, ne la sua rocca inespugnata L’empio figlio de l’oro... (vedi Avvenire del Lavoratore, 1 maggio) avevano deciso di presentarsi al podestà a chiedergli un sussidio per la loro Camera. I signori consiglieri siedono quieti, un po’ astratti. Gerloni si interessa del busto a Carducci, il poeta del filo della schiena. Facciamogli un monumento, sicuro, sorga a testimonio che il telegramma di Todeschini alla Verona del Popolo dopo le elezioni del maggio, è una calunnia. Quel bel tomo, ha avuto la mutria di telegrafare: «L’irredentismo è sepolto. L’offa per i succhioni è infranta. Evviva l’internazionale». Vieni, o Giosuè, col tuo viaggio oscuro, a protestare contro il deputato di Trento , il rinnegato che ebbe l’infame coraggio di dichiarare in pieno Parlamento viennese: «Die Signori, die Bügerlichen sind im Durchschnitt zu faul um staatsgefährlich zu werden.» I signori, i borghesi, noi poltroni in patriottismo... ah! Cani della Camera del Lavoro, aspettate, che v’acconceremo noi... E, guardando il trombato delle ultime elezioni e tutto il codazzo internazionalista che stava in platea: ci starete per un pezzo, pensava più d’uno dei consiglieri... «Nessun trentino potrà mai dar quartiere alle idee sindacaliste ed internazionaliste». Bisogna «far comprendere che non è degna di fare appello agli elettori di Trento un’istituzione, che si apparta ostentativamente, quando si tratta di combattere i nemici della nostra patria e qualifica come “gazzarra” una nobile lotta ingaggiata nel nome del principio altissimo di nazionalità». Quand’ecco risuona l’energica voce del podestà . Si discute l’affare della sovvenzione alla Camera del Lavoro: il podestà propone di fornire alla Camera 400 corone di luce gratis. La Giunta ha trovato che la Camera provvede alla coltura della classe operaia, la quale, fatte poche eccezioni, aderisce tutta alla Camera, ha trovato che c’è un Municipio da imitare, quello di Leoben, Comune francato dal giogo clericale, ha trovato insomma che l’opera della Camera del Lavoro è commendevole di pubblica utilità, tanto da meritare sovvenzioni dai fondi pubblici. Piano, piano, sta per balbettare qualche consigliere. «Coltura» va bene; ma si sa che razza di coltura si infonde agli operai in quei luoghi: si predica l’odio contro di noi, si medita di dare il benservito ai patriotti e, quel che è più, si tratta di un’istituzione perfettamente internazionale, anzi antinazionale, come ha scritto l’Alto Adige. Ottocento soci ehm! borbottava un altro, supposto che ci siano – e non ci sono – non rappresentano che una piccola parte degli operai di Trento; come possiamo giustificare questo regalo di denari pubblici? Che dirà la gente? che abbiamo luce da regalare proprio adesso che viene la magra... «Domando la parola!» stava per scappargli di bocca, quando gli venne fatto di alzare gli occhi, incrociandoli con quelli del dr. Cesare... e tacque. Il podestà era così insinuante, Luigi Tonet tra i suoi pretoriani così sicuro... Chi domanda la parola? Nessuno fiata, nemmeno chi protestava contro l’esonero delle tasse ai frati. Approvato! Ed ora vai, o luce elettrica, ad illuminare la Camera; sfolgora, quando gli internazionali urleranno contro la borghesia dominatrice e ladra e rifletti copioso il tuo chiarore sulle facce impresse d’odio di classe: splendi, quando Todeschini, Gasparini, Flor, Pitacco e Angelica bestemmiano la patria e la coscienza cristiana dei cittadini. Piovi benefica, o luce del progresso e dell’avvenire, sul partito rosso che congiura la caduta della borghesia liberale in città e conduce guerra spietata ai credenti di tutto il paese. Splendi gratis! La corrente non pare consentanea, si direbbe mortifera per chi la induce. Splendi gratis, o luce elettrica, a te è affidata una «funzione anticlericale».
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11906-1910
I lettori ne trovano ampia cronaca in altra parte del giornale ; ma è bene che vi aggiungiamo alcune brevi considerazioni. A Sacco domenica viene celebrata la forza, il fiore e lo spirito della più grande organizzazione professionale del Trentino. I lavoratori e le lavoratrici della Fabbrica tabacchi nella loro maggioranza hanno abbracciata la causa della vera democrazia e della riforma sociale cristiana. Lo constatino con piacere tutti quei cattolici che pensavano ormai doversi la nostra democrazia ritirarsi entro le fortissime posizioni rurali, lo vedano con gioia quelli che sempre e tenacemente affermarono essere invece imperioso dovere dell’ora che corre il chiamare a raccolta gli elementi sani in mezzo alle grandi turbe degli avversari nostri o degli indifferenti. Queste posizioni deboli non bisogna lasciarle per nessuna ragione; e chi sta fuori e meglio deve prestar mano e soccorso a quei pochi che hanno da superare tutti gli ostacoli che sa opporre la malafede avversaria o la corruzione dei grandi centri. Il pensiero della riforma sociale cristiana deve non solo dominare nelle classi agricole, ma ha da penetrare e farsi largo nelle classi operaie dell’industria. La penetrazione è difficile ma non è impossibile. A Sacco, Rovereto e dintorni è riuscito all’infaticabile costanza di un nostro collega e allo zelo dei suoi collaboratori di costituire un’Unione professionale di 800 soci. Non è un fatto questo che smentisce tante dubbiezze? Tentare e ritentare, ecco il segreto, e soprattutto aver fede nelle propria causa. Quanti blaterarono di democrazia cristiana e non vi credettero? E quanti ancora tuttavia sorridono scetticamente sugli entusiasmi passati, quasi li ritenessero fosforescenza d’illusioni passeggere? Soprattutto ci pare che talvolta manchi alla nostra azione cattolica il grande palpito dell’anima de’ giovani. Giovani sacerdoti, giovani studenti, giovani operai, rimettetevi in prima fila. Voi non dovete disperare mai e sacrificarvi sempre. Ricordatevi che il clero ed il laicato trentino acquistarono entro il mondo cattolico sociale un nome onorato che conviene conservare. Due sono i precetti dell’azione sociale: il popolo deve venire organizzato, e secondo, questa ricostituzione in associazioni deve avvenire nello spirito del cristianesimo. Tali precetti non sono cosa di ieri; giammai ci sentiamo figli più devoti della Chiesa, più convinti seguaci del Cristianesimo quanto allora che prestando l’opera nostra alla cristiana democrazia, continuiamo il grande lavoro di carità e giustizia sociale compiuto dal Cristianesimo attraverso i secoli. Ma anche quelli, a cui mancasse questa visione positiva delle cose, non si illudano: il socialismo, codesta organizzazione dell’irreligione, codesta popolarizzazione del materialismo, s’allarga e fa stragi. Oscilla, è vero, dal successo all’insuccesso, il valore reale politico ed economico del partito socialista, ma il suo spirito di negazione sfibbra e corrompe continuamente il corpo sociale. Non è tempo d’illudersi quindi; è tempo di scuotere di dosso le vecchie abitudini e di rinnovare le energie ai compiti nuovi. In campagna mantenere le società cattoliche di coltura; farsi iniziatori di cicli di conferenze non solo di propaganda generale, ma d’istruzione in tutti i campi. Se le società non sono ancora, fondarle e riannodare in esse tutte le iniziative buone per elevare il nostro popolo a maggiore coscienza cristiana, sociale, nazionale. Perché sono tanti paesi ancora ove fanno gli altri o fa niente nessuno? Attendere poi allo spirito delle società economiche già fondate, o a quelle da fondarsi. Accanto al principio cooperativo, dovrà salire in onore il principio dell’organizzazione professionale o di classe. Anche nelle vallate ci sarebbe da fare in quest’ultimo riguardo; ma il loro campo quasi esclusivo sono i centri maggiori. E qui dovrebbe aiutare tutti e non scoraggiare quei pochi che s’accingono a lavorare; e aiutare come va nello spirito cioè di tali associazioni, non con quell’aria di patronato e di confraternita, che spaventa gli operai fatti tanto deboli oramai alle tentazioni anticlericali. La festa di Sacco non è che il culmine raggiunto in questi pochi mesi di ripresa; altre seguiranno fra breve. Ricominci il lavoro sociale su tutta la linea, mentre il vento furioso della politica (relativamente) si tace. Si ricordino però tutti e ciascuno del loro dovere. Nessuno ha diritto d’esimersi da questo lavoro. Noi non siamo qui per conquistare semplicemente il potere politico, per amministrare la provincia o i comuni a cui tendono i partiti; l’opera prima dei cattolici sociali è la conquista interiore del popolo trentino agli ideali della democrazia cristiana, è l’elevamento del popolo a tutti i progressi morali e materiali che la coltura del tempo sa produrre se fecondata dall’eterno ed immutabile spirito del Cristianesimo.
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11906-1910
Siamo informati che i socialisti, visto il buon successo della loro agitazione a Trieste, seguendo l’esempio dell’on. Pittoni, inaugureranno anche a Trento una campagna violentissima per la riforma elettorale del comune. Convinti che l’ultimo progetto è quantomai retrogrado e che del resto la sua esumazione dipende dalla maggiore o minore indolenza di chi sta attualmente al potere, la lotta si rivolgerà in ispecie contro la borghesia reazionaria del municipio, che venendo meno al suo programma democratico si gode quietamente i conquistati scanni. Ci si assicura che la corrente socialista, la quale rappresenta il sindacalismo del proletariato autentico sia indignata contro certi rossissimi papaveri, che borgheseggiano troppo spesso e manifestamente, rattenendo chiusi nel petto, per certi riguardi che tutti sanno, i ribollimenti democratici. Oramai si radica fortemente la convinzione che la «spola di dinamite» converrebbe scoppiasse almeno a Trento, dal momento che per Innsbruck, per intanto, manca la miccia. Quest’epoca di rassegnazione e di vile connivenza, pare diventi insopportabile, tanto che nell’Avvenire del Lavoratore degli 8 maggio un pezzo grosso della camera scriveva: «Che avete fatto fino ad ora, o compagni di Trento, per la riforma elettorale della capitale del Trentino? Niente! avete pagato le colossali tasse sul pane, sulla carne, sulle verdure, sui quartieri; avete taciuto nella rassegnazione, nel silenzio! Scuotetevi, per Iddio, se pur voi siete socialisti, se avete cuore di padri e di figli, se non volete che la miseria vi istupidisca, vi renda umili schiavi del capitalismo e del clericalismo». Alle parole era stabilito seguissero i fatti. L’agitazione, come ci s’informa, doveva inaugurarsi subito e rumorosamente. Ma c’era di mezzo l’affare della luce . Gli opportunisti vinsero ancora per un momento. Badate, si disse, sarà meglio sospendere. Il podestà pare d’accordo, poiché in crocchio d’amici ha fatto questo ragionamento: veramente secondo i nostri principi, no, non l’andrebbe proprio. Ma, fatto il primo strappo, saltiamo il fosso. Volere o no, il loro deputato è anche il nostro e nostro per elezione. Ricordatevi il ballottaggio. Vorreste ora prendercelo contro? Abbiamo bisogno anche noi di qualche favore a Vienna. E vedrete, assicuravano gli opportunisti, questo ragionamento farà breccia. E non ebbero torto. Ma ora momentaneamente la camera non ha più bisogno delle grazie municipali e può permettersi il lusso della lotta di classe. Vedete mo’ quanti comizi, quanti discorsi. E che dimostrazione vi pianteranno innanzi al municipio. «Abbasso i privilegi! Abbasso gli sfruttatori del proletariato! Affamatori! All’inferno le tasse! Vogliamo il suffragio universale!» Ah! che urlio! che pandemonio! Povera borghesia! Poveri giovani liberali! Nessuno vi proteggerà dai fischi né il ballottaggio, né la luce gratis, né il più fitto del bosco Salvotti... – Ridete? – Può essere che abbiate ragione, fra compari è più facile conoscersi. Forse quando v’incontrate, avete l’uno l’altro lo sguardo dell’aruspice, quando s’imbatteva nell’aruspice.
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11906-1910
Nel numero dei 25 giugno (è passata dell’acqua sotto il ponte!) scrivevamo in tono molto sicuro delle previsioni sulla prossima futura «violentissima campagna» per la riforma elettorale del comune. Le «previsioni» e le «informazioni» erano evidentemente una satira rivolta ai socialisti proprio nei giorni che filavano l’idillio coi potentati del comune. L’ironia doveva essere trasparentissima perché il trafiletto terminava col noto «perché non s’irridono a vicenda» di Cicerone, quando satireggiava gli aruspici. Ebbene, il credereste? Il Popolo ci è cascato, ci è cascato morto! Dopo tanto tempo che v’ha ripensato ieri ci viene a dire che non s’ha da credere alle nostre rivelazioni . Figuratevi, colendissimo! ma se non ci crediamo cicca nemmeno noi! Che voi farete un’agitazione sul serio, proprio di quelle che sapete inscenare voi per costringere il municipio e i deputati di Trento ad una riforma elettorale, o almeno ad esumare la vecchia, non abbiamo creduto nemmeno un minuto. Ci vuol altro! La predoneria ch’è stata perpetrata a danno delle vallate e dell’eguaglianza nella riforma parlamentare risale anche a voi che foste conniventi né levaste la voce come vi riesce facile, quando si tratta di quattro contadini «clericali» o di un povero curatello di montagna. Con i borghesi di Trento non vi volete guastare, e i «comizi» li andate a tenere nei penetrali della Camera del lavoro. Ah! Se ci fossero i «clericali» in municipio! Allora converebbe abbattere la camorra nera, sgretolare le fumide mura feudali e lanciare in mezzo al reazionario conciliabolo la spola di dinamite che farebbe saltare tutto quel mondo di ferrivecchi. Ma no, sono invece i liberali, i giovani liberali quelli che vennero su per insegnare ai vecchi come si doveva fare. E come hanno fatto? I socialisti sanno, ma tacciono. È un compromesso silenzioso, quieto, quieto come l’olio. – «Io me ne taccio, accenna il Popolo, non fo’ critiche, mi tengo alla larga dalle vostre imprese... e se talvolta ne tocco di volo è perché il pubblico creda che ce ne vogliamo occupare e voi crediate che possiamo occuparcene... Che ha da importare agli elettori?» – «Io non fiato, ammicca di rimando l’Alto Adige. Il nostro-vostro deputato può permettersi qualunque castroneria. Se posso, ne dico bene, se no, zitto! Che ha da importare ai cittadini?» – «A voi il Comune...» – «A voi il seggio parlamentare». – «E tutti e due contro i clericali». – «Dàlli ai clericali!» Così, e nient’altro. E poi ha la mutria di parlare di blocco antisocialista che va delineandosi. Oh! davvero? Dite un po’, dove scorgete voi codesta formazione di linea? Forse sotto la generosa pioggia di luce alla Camera? O v’è apparso lo spettro del blocco entro i recessi ospitali del bosco baronale? Cacciate le malinconie. L’aria di Trento ha del perso e del sanguigno. E in tale atmosfera voi potete respirare a pieni polmoni, voi sarete gli alleati naturali, gli ingredienti indispensabili della combinazione. Ad un patto però: ora passate come i più fieri patrioti, ma altrettante volte che si rinnoveranno le elezioni comunali altrettanti giorni voi ridiventerete internazionalisti antinazionalisti, pessimi patrioti. Questo sacrifizio voi fate di cuore, lo sappiamo, perché in ricambio avete il comodo di insultare tutti gli altri dì, all’unisono coll’Alto Adige, al «falso patriotismo dei clericali». Il Popolo ha anche un trafiletto riguardante la mozione Conci . Risponderemo esaurientemente un altro giorno. Intanto resta il fatto, immutabile, innegabile, che i rossi hanno salvato nell’ultimo momento il bilancio, votando per l’urgenza della proposta; se si fossero semplicemente astenuti, il bilancio sarebbe ancora da votare. Con ciò i socialisti, eccetto gli czechi, si sono assunta la piena responsabilità del bilancio. Oh! che commedia. Un’i.r. opposizione meglio di codesta non s’è mai vista!
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11906-1910
Se vi par utile avere in mano un’altra prova del bene che desiderano e procurano alle nostre valli i germanizzatori, considerate questo. La Federazione trentina per il concorso dei forestieri aveva invitato i rappresentanti di parecchi giornali germanici a visitare il Trentino. Venissero, vedessero o ne parlassero secondo verità. I trentini erano certi che i giornalisti, da gente per bene, avrebbero dovuto magnificare le bellezze della nostra terra e la gentilezza della nostra gente. Si trattava di aprire una breccia nelle mura di carta che i tirolesi o meglio di innsbruckhesi e i bolzanini avevano eretto a nord di Salorno, muro composto d’interessi e cementato dall’odio di razza. Ma i seminatori della zizzania vegliavano. Rohmeder dovette temere per il momento che la cinta tirata su con tanta fatica di menzogne crollasse e corse ai ripari. Pubblicò il galantuomo un articolo di teutonico sapore nelle Innsbrucker Nachrichten, e in tono tra di preghiera e di minaccia fece appello al sentimento nazionale tedesco, alla voce del sangue incitante a rigettare le lusinghe dei Welsche. Così i giornalisti non verranno; la verità della natura e degli uomini del Trentino non ha ancora diradato le nebbie che l’odio bavaro-tirolese vi ha create d’attorno. Chi ne patisce? Tutti, albergatori italiani e tedeschi che abitano qui, il popolo che lavora. Chi gode? Il germanizzatore, il presunto mecenate del nostro popolo rurale, a cui toglie per odio, invidia, vendetta, una fonte di guadagno, regalando in cambio degli stracci e dei balocchi ai suoi bambini grami. Cui prodest? A certi albergatori tirolesi; ma, non ai tirolesi né al Tirolo in genere. Questo sentimento hanno anche le Tiroler Stimmen le quali sabato in un articolo intitolato «Politica del concorso forestieri», deplorano il triste allarme del Rohmeder prima perché strozzando la reclame al Trentino che i tirolesi vogliono pur eternamente sia parte integrale del Tirolo, si danneggia anche l’intiero, che è la provincia, poi perché l’idea dell’unità provinciale con tali metodi non viene certo favorita. Infine, conclude il giornale conservativo, non si potrà averne a male, se gli italiani ritengono «che il dott. Rohmeder con i suoi sfoghi idealistici non sia che un posto avanzato di coloro che per riguardi d’interessi non vogliono per nessun conto che rinvigorisca il concorso dei forestieri nella parte italiana della provincia.». Di queste franche parole è da rallegrarsi, benché non vengano da coloro, per i quali potrebbero suonare resipiscenza o pentimento. Maggiormente però che dal rinsavimento dei tirolesi attingiamo ragioni di sperare in meglio rispetto all’industria dei forestieri, dalle buone disposizioni che mostra il nuovo ministero dei lavori pubblici anche per il Trentino. Il ministro Gessmann vuole conoscere anche il nostro paese e per le cure della «concorso forestieri» e l’appoggio dei deputati popolari ha stabilito di visitare prossimamente una buona parte delle nostre stazioni alpine, rimettendo, come si espresse, alla futura primavera, una visita agli altri luoghi di cura. Il ministro darà anche in Trento ufficialmente accetto alla «Federazione del concorso forestieri per il Trentino», dando così una prova di larghezza d’idee che invano abbiamo chiesto ai nostri amici vicini. La visita ha certo un indiscutibile valore per l’avvenire, avendo il ministro dei lavori pubblici assunto il programma di dare all’azione per i forestieri nelle provincie dell’Austria in ispecie in quelle alpine, una sistematica consistenza e nuovo vigore con lo appoggio suo morale e materiale. È, quindi giusto che al ministro si facciano quelle accoglienze che gli testimonino la gentilezza italiana delle nostre valli e la chiara visione di quello che significherebbe per il nostro paese un energico rifiorire dell’industria del forestiere.
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11906-1910
Ci eravamo proposti di parlare a lungo de «gli studenti e la vita sociale». I dovuti riguardi verso i nostri cortesi collaboratori c’impedirono d’ipotecare prima di loro lo spazio. Ora che viene mancando e anche il tempo stringe ci sia permesso di riassumere brevemente il nostro pensiero . La vita accademica d’oggi ha perduto il romantico, il carnascesco dei tempi andati. Il tipo del gogliardo sparisce. Il rumore delle macchine creatrici dell’industrialismo ha soffocato le grida di giubilo spensierato persino nelle solenni vie porticate di Bologna. Il mondo che circonda la vita universitaria ha mutato aspetto e struttura, e all’oggettivo mutarsi delle cose è seguito il soggettivo cambiamento degli uomini. Anche la gente ora s’è fatta più severa nel giudicare gli studenti; della loro baldoria privilegiata non vuol più saperne; le leggi speciali del «non far nulla» non sono più riconosciute e spesso dalle labbra del popolo lavoratore sfuggono parole amare. La sentite voi, studenti novellini, la gran voce del mondo nuovo? Vi parla essa di doveri e di compiti più vasti, più complessi di quelli vostri individuali, e famigliari, vi dice: Giovane, preparati, armati alla vita sociale d’oggi. Costruisci il ponte di passaggio che ti conduca dal vuoto, anfaneggiante idealismo della vita reale alla vita che soffre il tuo popolo. Oggi quest’approfondirsi nella vita sociale, questa fusione coll’anima popolare è un grande dovere, è il dovere dei giovani. Pensate al paese nostro, piccolo, debole. Non saremmo grandi se gli intellettuali si stringessero al popolo, non saremmo forti se all’unione meccanica dei corpi corrispondesse l’unione morale? Ma questa non diventa che per i sociali. Ad intrecciare, a stringere tali vincoli sia dedicata, o giovani amici, l’opera vostra. Come farete? Anzitutto attendete a formarvi una cultura sociale. La filologia classica, la letteratura, il vostro oggetto speciale non bastano più; ci vuole una cultura generale e realistica. E perché ora l’universitas litterarum è distrutta dall’infinita specializzazione degli studi, questa cultura generale dovete farvela di per voi. Ma non fermatevi alle formule astratte, all’infarinatura dei politicanti da strapazzo; cercate il fondo delle cose e soprattutto abbiate quello che si chiama il senso economico: la capacità cioè di vedere sotto la superficie la struttura su cui s’impalca la nostra vita sociale. Questo senso si farà forte studiando le leggi della vita economica, ma lo renderà acuto, infallibile l’osservazione degli uomini e delle cose. Studiate ed osservate. Non capite che è una vergogna che, mentre agitatori prezzolati, politicastri semidotti, spiegano a modo loro al popolo i rivolgimenti economici, le condizioni del lavoro e del capitale, il problema agrario, la legislazione sociale, voi, che sarete impiegati, professori, giudici, non ne sappiate niente e facciate tanto d’occhi quando vi parlano di tariffe collettive, di arbitrati, di sdebitamento dei terreni... Vi rimarrete dunque appartati da tutto questo fervido operare, sarete apatici, senza un pensiero, un consiglio? Invece che un popolo, avrete le classi, e il Trentino non sarà che un’espressione geografica. Lo studiare, l’osservare non basta. Voi dovete cercare anche il contatto col popolo. Nessuno pretende che diventiate agitatori, propagandisti da comizio. La politica anzi se v’ammalia troppo giovani, può guastarvi, rendendovi superficiali e faziosi. Ma il contatto col popolo se voluto con nobili intenti vi eleva, vi porta di colpo in mezzo alla vita reale. Quanti emigrati nostri nelle città, ove studierete; perché passate loro accanto come vi fossero estranei? Sono frammenti dispersi del nostro popolo; avvicinateli, amateli; è il vostro dovere sacrosanto! E nelle vacanze non fate i signorini, non ritiratevi nel Nirvana d’una famiglia che crede d’affinarvi se vi culla nella superficialità delle sue tradizioni. Non v’accorgete che diventate una casta, che il popolo bròntola? E quand’esso, abbandonato, rumoreggia, ha sussurri d’odio contro i signori, voi allora parlate di fanatismo. Chi v’ha dato il diritto di chiamare ignorante colui al quale non avete mai detto una parola, come pretendete voi rispetto da chi non avete mai beneficato con le doti della vostra mente o col vostro cuore? Giovani amici, voi terminati felicemente gli studi patri, respirate a pieni polmoni l’ossigeno della libertà. Ebbene siate liberi, pienamente liberi, ma siate liberi per cercarvi colla forza giovanile una coltura sociale, assetandovi alla fonte corroborante della vita reale, siate liberi per amare efficacemente il vostro popolo. V’ho parlato come uomo che sente e vede, senz’interesse di parte. Studiate ed amate il popolo e... c’incontreremo. Trento, 21, ultim’ora. Fortis.
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11906-1910
Ci rivolgiamo oggi con un breve appello ai nostri amici. S.A. Rev.ma il P. Vescovo scriveva nella pastorale di quest’anno: «Ma è pur giusto, dilettissimi, che resti una perenne armonia del Giubileo sacerdotale del Papa anche nella diocesi; e questo si otterrà col consolidare opere cattoliche già esistenti, specialmente se destinate ad educare e salvare la nostra gioventù... Noi richiamiamo l’attenzione dei fedeli sull’opera diocesana del Convitto magistrale di Sacco, destinato ad agevolare alle famiglie povere l’educazione dei loro figli che si dedicano all’importante missione del maestro di scuola. Date aiuto a quest’istituto e farete opera di religione e di patria carità. Il Convitto magistrale di Sacco si chiamerà Piano, sarà ricordo diocesano del giubileo sacerdotale di Pio X a sollievo delle presenti e future generazioni, ed a grande vantaggio dell’educazione della gioventù». Non è necessario che all’appello del Vescovo seguano altre raccomandazioni. Tuttavia ci siamo permessi di ricordarlo poichè si tratta di cosa gravissima ed importantissima. Diciamo con la nostra solita franchezza: il convitto di Sacco , opera provvidenziale quant’altra mai, finanziariamente è posto sulle stampelle. O che i cattolici trentini in uno slancio di solidarietà trovano modo d’assicurare l’esistenza e il progresso dell’istituto, o che il convitto in brevi anni non sarà. Immaginiamo le obiezioni, le recriminazioni. Si dirà che si fanno troppe collette per usi meno urgenti, che si fa appello alla generosità dei credenti per opere che, pur divenendo lustro e decoro, non hanno valore essenziale, per l’avvenire della diocesi. Pienamente d’accordo. L’abbiamo scritto ancora. Un po’ di Francia l’abbiamo dentro nelle ossa anche noi, cattolici trentini. Quella certa organizzazione della carità e del piccolo obolo, a scopi ben determinati e sentiti da tutti come necessari a raggiungersi, quella certa economia sapiente e calcolatrice che contraddistingue i tedeschi, manca a noi, latini anche in questo, come nelle virtù. Sarebbe ora di correggersi. Le stesse cause che hanno rincarata la vita, rendono difficile la carità e le stesse ragioni che impongono la parsimonia nella vita privata, consigliano con insistenza crescente criteri più sani e più realistici nel chiedere o nel fare la carità, nell’esercitare la beneficenza. In un piccolo paese come il nostro dovrebbero evitarsi il continuo incrociarsi d’appelli e d’insistenze e il contraddittorio preannunzio di opere future, che non possono essere tutte «le più grandiose», «le più convenienti», «le più meritevoli d’appoggio». E più realisti converrebbe si divenisse. Sta bene erigere monumenti sacri o profani ma quanti vogliono che la terra trentina rimanga cattolica non solo per i suoi campanili, per le sue chiese, per i suoi segnacoli di fede, ma prima di tutto per le generazioni future che l’abiteranno, devono provvedere acché l’obolo dei buoni concorra a creare efficacemente tali garanzie, che noi vorremmo tramandare ai nipoti. Uno di questi è il convitto di Sacco, collegio d’educazione per i maestri, per i futuri educatori delle generazioni nuove. I cattolici trentini concentrino i loro sforzi ad assicurare l’esistenza di quest’opera, come s’è fatto un tempo per il collegio vescovile. Sarà il migliore monumento che potranno erigere a ricordo del giubileo sacerdotale di Pio X.
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Questa sera, giungendo alla Mendola, il ministro Gessmann tocca terra italiana. Noi gli diamo quindi il benvenuto . Rapidamente egli percorrerà un buon tratto del nostro paese e solo una parte dei nostri interessi sono oggetto del suo viaggio d’ispezione. Tuttavia anche lo sguardo fugace e la visita breve gli diranno quante bellezze, quante energie stanno ignote e sopite nel nostro paese, e quale imprescindibile dovere incomba a chi governa di contribuire a vivificarne l’incanto, a risvegliarle. Il d.r Gessmann è uomo di una tenacia straordinaria, di un talento organizzativo non comune e soprattutto un lavoratore infaticabile. Eccellenza, i torti patiti e l’abbandono sofferto ci hanno resi modesti. Noi chiediamo solo che una piccola parte della vostra attività sia dedicata a sollevare questo nostro povero paese così ricco di tesori non sfruttati, che giacciono in fondo alla meravigliosa copia delle acque scroscianti, si celano negli ombrosi recessi alpini, si drizzano verso il cielo colle guglie delle nostre dolomiti. Molto ha fatto l’iniziativa privata; ma domandiamo che il governo l’aiuti, la sorregga. Il contegno che il ministro Gessmann ha avuto verso la «Federazione concorso forestieri del trentino», libero da certe prevenzioni e preoccupazioni enipontane ci è caparra che il ministero dei lavori pubblici, nell’azione ch’esso intende svolgere, s’addimostri imparziale seguendo criteri d’equità, che la condizione speciale del nostro paese richiede. Il contatto, per quanto fuggevole, ch’egli avrà colla nostra popolazione ci fa sperare che anche altri postulati giungeranno direttamente a sua conoscenza e l’accetto cortese e fiducioso varrà a lasciargli una grata memoria di queste valli, così lontane dal centro e di cui i governanti tanto facilmente sono tentati a dimenticarsi. Con questi sentimenti, con tali voti ed auguri il Trentino, sicuro d’interpretare i sensi e le speranze di moltissimi, dà il benvenuto al ministro dei lavori pubblici. Stamane alle 10 sono partiti alla volta di Cles in due automobili alcuni membri di direzione del «Concorso forestieri» e gli on. Delugan, Gentili e Tonelli. Saranno alla Mendola a ricevere il ministro, che arriverà insieme al cons. Schindler, gli assessori Conci, Schraffl e Schöpfer, il cons. di reggenza Kofler. Sulla Mendola si troverà anche il deputato d.r Lanzerotti. A Trento i ricevimenti sono stati anticipati a domani sera. Il ministro riceverà ufficialmente prima la direzione della società per il soccorso forestieri; poi concederà udienze generali. Assisterà quindi ad un banchetto, offerto dalla concorso forestieri all’Hotel Trento, dinanzi al quale si darà un concerto musicale. Al banchetto, per espresso desiderio del ministro, non si tengono brindisi.
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Lasciamo in bianco l’ultima cifra perché non è ancora ben sicura. Ma le maggiori probabilità sembrano oscillare tra il 1911 ed il 1914. E né Chionio né Mathieu de la Drôme potrebbero arrischiarsi ad una maggiore approssimazione. Non poche ragioni permetterebbero di fatti agli astrologhi dell’avvenire di profetizzare il prossimo decennio come uno dei più importanti e decisivi della storia del mondo, più assai di quanti non se ne siano più avuti da un pezzo. Sia a causa di taluni avvenimenti di grandissima importanza internazionale che si verificheranno; sia perché in quell’epoca gli armamenti di tutte le maggiori potenze raggiungeranno un tale grado d’intensità e di pienezza che simile non si sarà mai visto e che difficilmente potrà essere superato anche in avvenire, così da far quasi credere che tutti si preparino a quegli avvenimenti e ad una specie di guerra universale per quell’epoca. Se andiamo di fatto a vedere tutti i progetti o programmi di armamenti navali e terrestri delle maggior potenze, e le scadenze per le quali queste ne hanno fissato il compimento, si vede subito che, per una strana combinazione, se non invece per comune calcolo e per tacito accordo, l’epoca stabilita va quasi per tutti dal 1911 al 1914, anno più anno meno poco importa e con tendenza anzi ad anticipare e ad affrettare, come per liberarsi il più presto possibile da un incubo immenso ed orribile. Tutti i paesi hanno in corso d’attuazione i loro bravi programmi d’armamenti terresti e navali, i quali, su per giù, verranno ad esser compiuti nella stessa epoca ed appunto in quell’epoca. E chi teme di non arrivare in tempo, sta facendo sforzi inauditi ed incredibili per ottenerlo e per esser pronto anch’esso. Cosicchè il principio del prossimo decennio si presenta per tutto il mondo come l’epoca in cui gli armamenti universali avranno raggiunto un grado d’intensità culminante; come il momento in cui tutti gli Stati si potranno dire pronti alla guerra nei limiti delle loro forze. Se questa avverrà nessun profeta può assicurare. Ma è certo che quell’epoca sembra già segnata sin d’ora come quella di una terribile scadenza, come una data fatale e catastrofica per la povera umanità, come quando nei secoli remoti si profetizzava la fine del mondo. Giacché anche se nulla avvenisse e se dopo di allora si pretendesse continuare nello spaventoso crescendo degli armamenti, sarà probabilmente la volta che vedremo il mondo scoppiare come una bomba troppo carica. Basta un esame molto sommario. Cominciando dai paesi d’Europa, in Germania l’ultima legge 15 aprile 1905 che fissato l’ultimo estremo aumento della forza bilanciata dell’esercito, ha regolato le cose in modo che il nuovo progetto abbia completa attuazione nel 1911. Dal lato navale, le leggi successive portavano ad aver pronta la grande flotta di corazzate per il 1917 ma la fretta degli altri Stati ha consigliato anche la Germania ad accelerare, per cui la maggior parte delle grandi navi sarà pronta. In Francia sembrava che non si potesse più fare assolutamente nulla per l’esercito; e così è realmente dal punto di vista numerico, per cui tutti gli sforzi sono ora diretti al miglioramento ed aumento dell’artiglieria, e si calcola che pel 1911 sarà considerevolmente aumentata quella di tutti i corpi d’armata. Circa il suo programma navale, detto del 1900, esso avrà completa attuazione tra il 1909 e il 1910, e calcolando l’aumento di sei corazzate del massimo tonnellaggio votato l’anno scorso, si arriverà anche qui ai primi anni del prossimo decennio. La Russia è un po’ in ritardo dal punto di vista navale, causa l’ostruzionismo della terza Duma, ma il suo nuovo interessamento per le cose d’Europa ed i nuovi accordi la consigliano e le permettono di pensare, per ora, all’esercito, come sta facendo. Ma frattanto ha provveduto con le leggi recentemente votate, che tanto la posa del secondo binario sulla transiberiana, quanto il suo nuovo prolungamento sino al Pacifico mediante la cosiddetta ferroviaria dell’Amur, abbiano compimento per il 1911-1912, così da continuare ad essere per terra se non per mare, in diretta e sempre migliore comunicazione con quell’Estremo Oriente e con quel Pacifico che saranno forse il grandioso teatro dei maggiori avvenimenti del prossimo decennio. E così, su per giù, anche per tutti gli altri Stati. La marina da guerra inglese si accrescerà tra il 1909 e il 1910 delle nuove 9 potentissime unità ora in costruzione: 4 del tipo «Dreadnought», 2 del tipo «Nelson» e 3 del tipo «Invincibile». I programmi navali dell’Italia e dell’Austria-Ungheria avranno entrambi compimento verso il 1910. E così dicasi di quello della Spagna recentemente votato. Se guardiamo fuori d’Europa è la stessa cosa, e forse ancor più. E chi più si distingue sono naturalmente Stati Uniti e Giappone. I primi hanno in corso di costruzione, una dozzina almeno di grandi navi da guerra che potranno esser pronte per quell’epoca. Circa il Giappone è forse quello che dà più a pensare perché non si può mai capir bene dove miri, che mezzi prepari. Ma quello che si sa è già sufficiente. Subito dopo la guerra, e prima ancora di seppellire i suoi morti, e di far ripiegare le sue truppe, esso dava già mano ad un completo rinnovamento del suo esercito, della sua marina, fissando, sembra, di svolgere il suo nuovo programma in sette od otto anni, ossia per il 1912-1913, e calcolando sino a quell’epoca le spese da farsi. Per detta epoca l’esercito giapponese dovrà essere raddoppiato da quello che era all’inizio dell’ultima guerra, ossia portato da 12 a 21 divisioni, a parte il completo rinnovamento dell’artiglieria da campagna ed il già attuato perfezionamento del fucile della fanteria. Così dicasi del suo programma navale, per quanto a questo riguardo se ne sappia ancor meno; giacché vi sono dei paesi e dei cantieri, che dicon di costruire per il Chili, o per il Brasile o per il Perù, mentre questi paesi non ne sanno nemmeno nulla, e si ha maggior ragione di credere che questi costruiscano invece per il Giappone. Ad ogni modo, questi ha sempre saputo proporzionare la sua preparazione militare a determinati scopi da raggiungere, stabilendo anche con esattezza matematica l’epoca precisa. Così in pochi anni si preparò a batter la China e quando fu pronto la battè. Poi fissò 10 anni per prepararsi a batter la Russia ed alla scadenza precisa la provocò e la vinse. Ora sembra aver fissato il 1912, o secondo altri il 1914. Ma a noi anno più, anno meno poco importa. Ad ogni modo fatto sta che fra il 1910 e il 1912 tutti saranno pronti alla guerra. Il massimo, però, come si vede, è intorno alle marine da guerra che ferve la febbre della preparazione. Sia perché gli eserciti, in genere, sono già tutti preparati e per essi si è fatto oramai tutto quello che si poteva fare. Sia e soprattutto forse, perché si sente che le future grandi lotte che sconvolgeranno non soltanto l’Europa ma anche gli altri continenti, saranno forzatamente combattute su gli oceani, per il dominio di essi e dei mercati che vi si bagnano. Ora nulla di più naturale che tutti si preparino alla guerra. Solo impressiona il vedere come tutti sembrano prepararsi per quell’epoca fissa, come se fossero tutti d’accordo per essa come in un duello. Il semplice contagio dell’esempio, vi potrà entrare in gran parte. Ed è naturale. Se uno Stato si propone di essere pronto per tal epoca, lo Stato suo nemico o suo probabile nemico vorrà fare altrettanto, e così l’amico dell’uno e quello dell’altro, e poi gli amici degli amici, gli alleati degli alleati, e così via. Oramai tutti gli Stati sono così fatalmente imprigionati di una così fitta rete di accordi, di alleanze, di «ententes», di trattati, che le mosse e i preparativi degli uni sono forzatamente vincolati e subordinati a quelli degli altri. Ed è questo appunto che preoccupa maggiormente; la difficoltà di localizzare qualsiasi eventuale guerra che scoppiasse oggi o domani. Il mondo è oramai come un solo barile di polvere; dovunque si appicchi il fuoco salterà tutto. Ma vi è anche il fatto che appunto in quell’epoca si compiranno taluni avvenimenti di eccezionale importanza e che potranno avere influenza enorme sul corso dei successivi eventi, e decidere forse se continuare nella onerosa pace o sacrificare alla guerra. Lasciamo andare quelli di minore importanza e di interesse esclusivamente europeo, come la scadenza della triplice alleanza e la scadenza di altri minori accordi e trattati conclusi in questi ultimi anni. E così pure anche quegli altri eventi l’epoca del cui avverarsi non può essere precisata. A parte tutto questo, rimangono sempre due o tre fatti di così capitale importanza da bastare essi soli a giustificare qualsiasi preoccupazione e le conseguenti misure precauzionali; e sarebbero essenzialmente la scadenza del trattato anglo-russo, la scadenza del trattato anglo-giapponese e l’apertura del canale di Panama. Il primo di questi trattati settenne venne stipulato il 31 agosto dell’anno scorso, per cui scadrà nel 1914, e nessuno al mondo può dire sin d’ora se sarà rinnovato o se nuovi orientamenti subentreranno nella politica europea. L’altro trattato, stipulato il 12 agosto del 1905, per la durata di 10 anni e con obbligo di preavviso di un anno prima della scadenza per denunciarlo o rinnovarlo, scadrà dunque nel 1915, ma sin dal 1914 i due contraenti dovranno provvedere al riguardo, ed anche qui valga il già detto sopra, per quanto si sia molto scettici sul suo rinnovo. Circa l’apertura del canale di Panama, sembra cosa assicurata che essa possa avvenire verso il 1914, e non è chi non veda tutta l’importanza eccezionale politica e militare di questo mondiale avvenimento. Tutto congiura dunque sia ad accumulare per quell’epoca le maggiori probabilità di guerra, sia ad accumulare i mezzi. Il che giustifica in parte le predizioni catastrofiche che si fanno per quel momento. A meno che la stessa formidabile comune preparazione e la comune paura non consiglino di proseguire nel sistema tenuto sinora, di andare avanti di proroga in proroga, e di rinnovare un’altra volta la terribile scadenza. Se questo dovesse significare una ulteriore ascesa nel crescendo degli armamenti, quasi sarebbe da benedire la guerra universale del 191... e da augurarcela più vicina ch’è possibile.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Martedì prossimo si radunano a Mori i nostri studenti universitari . Li accompagnano come sempre l’augurio di tutti i cattolici, l’adesione dei buoni, il plauso del popolo cristiano. Ci sia permesso di esprimere brevemente, come ci concede l’angustia del tempo, i nostri voti. Il convegno voglia essere anzitutto una affermazione di schietto, integrale cattolicismo. Dalla generosità dell’anima giovanile si può pretendere una consacrazione piena, entusiastica, senza sottintesi, ai grandi ideali di una vita privata e sociale cristianamente vissuta, cristianamente diretta. L’intransigenza nei principii, la chiarezza delle idee fu sempre la nostra forza, nessuno pieghi o dubiti. L’Associazione universitaria cattolica sia la quercia che ha messo le robuste radici nella nostra buona terra antica ed è venuta su, confortata dall’aria agitata e sana che mosse lo spirito nuovo della riforma sociale cristiana. Anche il congresso di Mori, come gli altri, divenga la negazione più recisa di tutte le mezze misure, di tutti i tentennamenti, di tutte le viltà a cui sottostanno le ignave coscienze di troppi anche fra i giovani. Da questo cattolicismo sentito, creduto, applicato prima alla personalità propria, poi alla società, alle attività pubbliche, noi attingiamo le ragioni più forti per le virtù civili che ogni buon trentino deve avere: amore al popolo, amore alla nazione nostra. Diciamo popolo e nazione, benché l’una parola dovrebbe valere l’altra. Il binomio è tuttavia necessario. Troppo facilmente dicendo patria o nazione si pensa solo alla lingua o al patrimonio ideale ed intellettuale del nostro paese. Troppo spesso codesto amore alla nazione non crea più che affermazioni convenzionali o modestissimi contributi al mantenimento della lingua. No, «popolo e nazione». E il binomio vuol dire che l’opera nazionale ha da essere pratica e democratica, vuol dire che i giovani, senza dimenticare l’ideale, devono aver l’occhio al reale e senso e comprendimento per l’ingranaggio sociale, per la struttura economica, sulla quale base la questione nazionale poggia e diventa. Tale avvicinamento alle condizioni reali del popolo, tale reintegrazione e completamento del problema nazionale, questa penetrazione in tutti i tesori, che sono i beni nazionali di un popolo intendiamo noi invocare, quando ci auguriamo maggiore positivismo nella coscienza e nell’opera nazionale del paese nostro. La frase ebbe l’onore di provocare lo scherno degli imbecilli, la cosa ebbe, grazie a Dio, miglior fortuna. E noi facciamo voti che questo sano e popolare nazionalismo abbia una nuova affermazione in Mori, dove convengono giovani, amanti del popolo, fedeli agli ideali della patria. L’anno scorso il congresso universitario fu una magnifica rassegna della vita decennale, sia quello di Mori il primo di una nuova serie che non abbia a temere il confronto della prima. Agli amici tutti che martedì possono convenire a Mori diciamo: arrivederci; e agli altri: siate con noi in spirito, affinché a Mori si raduni non un congresso di un’associazione, ma si celebri una festa della nostra rigogliosa vita cattolica.
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1,908
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11906-1910
Siamo all’ultimo trimestre del 1908. Passando rapidamente in rassegna l’attività nostra e confrontandola con le promesse fatte a capo d’anno, possiamo con sicura coscienza appellarci al giudizio dei lettori e del pubblico. Il Trentino è progredito ed è cresciuto di forza e di valore, quanto nessun altro giornale scritto per un paese territorialmente e socialmente eguale o simile al nostro. La collaborazione parlamentare, la diffusione e la freschezza delle notizie, i contributi degli scrittori tecnici e specialisti non sono mai mancati in una misura superiore ai confronti. Il servizio in occasione del processone dei Quarantadue con relazione telefonica e doppia edizione di sei pagine, il servizio telegrafico ed epistolare sui lavori parlamentari, l’amplissima relazione dietale che ci permette di riferire in poche ore in tutto il Trentino quanto la Dieta poco prima ha discusso e deliberato, dimostrano che non badiamo a spese quando si tratta di attuare i propositi enunciati. Dal febbraio 1907 al settembre 1908 il Trentino è uscito quasi per un terzo in sei pagine, invece che in quattro e per un ottavo in otto. A conti fatti quindi il Trentino supera anche in estensione di gran lunga qualunque altro giornale del paese. Corrispondentemente allo sviluppo del giornale sono venuti però ad aumentarsi anche il favore e la considerazione del pubblico, il numero dei lettori e degli abbonati. Ed oggi alla vigilia dell’ultimo trimestre, basta ci auguriamo anch’esso non sia dissimile da quello passato nel 1908 e ne coronano l’opera. La stagione autunnale è politicamente la più interessante: il giornale quindi dopo la sospensione estiva, riprende il suo posto nella vita quotidiana. Ci sia permesso d’invitare gli amici a non lasciarsi sfuggire la buona stagione della raccolta e di continuare alla parte locale la loro sollecita e stringata collaborazione.
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11906-1910
Il decreto che dà vigore allo statuto provvisorio della Comunità generale di Fiemme sarà in mano dei comuni e degli interessati . L’atto importantissimo, al quale furono di preludio il rumore di tante lotte, viene compiendosi in un momento quieto, come se tutti comprendessero che di fronte ad un compromesso lo spirito di parte deve cedere il dominio alla considerazione più oggettiva della realtà. E tuttavia si può affermare che, applicata questa riforma alla Comunità generale, incomincia per Fiemme un’êra nuova. L’amministrazione degli 11 capicomune, istituita con decreto del governo circolare di Trento 12 settembre 1814, viene a cessare, ed in sua vece sorge un consesso di membri eletti. Lo statuto è provvisorio ed anche il consesso ha carattere di transizione. Evidentemente la sua tendenza è questa: affidare ad un comitato di Fiemmesi l’amministrazione della Comunità, levando la tutela ufficiosa; più ancora, affidare a questo consesso fiemmese l’incarico di formulare lo statuto definitivo . – Nel provvisorio nessuna questione né riguardo ai vicini, né ai comuni, né ai quartieri viene pregiudicata; codesta pagina legislativa è ancora bianca. Vi si delineano però già le righe su cui i fiemmesi scriveranno la legge loro. Il programma del provvisorio è infatti perfettamente democratico e innovatore. Al punto d) del §10 in brevissime, laconiche righe è incluso il grave compito: la ricostruzione legale del vicinato. Non è vero dunque che la legge comunale o il corso del secolo scorso abbiano giuridicamente distrutto il vicinato: i vicini quale classe di persone a sé con speciali diritti di fronte alla Comunità generale esistono . Il Trentino s’occuperà più tardi dell’esposizione storica che condusse all’implicita conclusione dello statuto. Intanto va constatato: lo statuto provvisorio incaricando il consesso di istituire un registro dei vicini con riguardo alla loro partecipazione degli utili, non solo riconosce la continuità storica del vicinato, ma ne propone la ricostituzione legale ed integrale. E questo infine è quello a cui voleva giungere il movimento vicinale, in quanto esso era diretto dalle persone intelligenti e perspicaci. Oggi, dopo tutti i dinieghi, dopo tutti i sarcasmi di un certo libello contro i sedicenti o pretesi vicini, si può affermare anche in nome dello statuto che l’opinione avere il regolamento comunale distrutto il vicinato è erronea. Il provvisorio accenna anche al conguaglio dei quartieri, il quale daccapo è un nuovo gradino che poggia sulla base granitica del vicinato. E, a conguaglio finito, si dovrà modificare anche il sistema elettorale vigente per il consesso, ossia regolare il numero dei delegati che ogni paese elegge. Questo paragrafo permette di accedere al compromesso anche a quelle regole, che come Predazzo o Tesero, non ritengono di avere in confronto di Cavalese il numero corrispondente di delegati. Già nel provvisorio si tende ad allargare quanto più è possibile la cerchia degli eliggibili. Chi nomina è la rappresentanza, e così la legge comunale è salva, eletto però può venire non solo un membro della rappresentanza, ma chiunque abbia diritto passivo di elezione alle rappresentanze; anzi il provvisorio al § 3 stabilisce espressamente che la rappresentanza possa eleggere persone che «appartengono alla classe degli antichi vicini». Nessuna autorità superiore avrà motivo d’impedire che nello statuto definitivo il consesso fiemmese stabilisca che ogni rappresentanza debba scegliere i delegati dalla classe dei vicini, formalmente ricostituita. Con tale programma il provvisorio si presenta già ora con veste popolare ma quel ch’è più, indica la via a maggiori conquiste per le classi democratiche e vicinali. Il principio democratico ha da lodarsene anche per altre ragioni. Il provvisorio introduce la pubblicità. Nel vecchio palazzo si spalancano le finestre: tutti vi possono vedere dentro. Anzitutto si faccia un inventario chiaro e completo del patrimonio della Comunità, e l’inventario sia ispezionabile per 14 giorni nelle cancellerie degli 11 comuni e si pubblichi analogo avviso nell’albo comunale. Ogni anno si compili il preventivo e questo si esponga nello stesso modo alla critica del pubblico. Del pari si dica dei consuntivi. Non solo, ma la critica pubblica ha un organo esecutivo permanente nel consiglio di sorveglianza che ha diritto di frugare dappertutto, quando vuole. Ad un’altra simpatica consuetudine si ritorna: le sedute del consesso saranno pubbliche e ogni delibera dovrà venir pubblicata in tutti gli 11 comuni. Nemmeno gli scettici che temevano per l’autonomia della valle hanno avuto ragione. Il consesso è indipendente: nessun paragrafo prevede la revisione o l’autorità diretta della Giunta, la quale non interviene che in caso di ricorsi – ciò che è naturale, trattandosi di uno stato di diritto. Così, dopo questa rapida rivista, non possiamo fare a meno di esprimere la nostra soddisfazione intorno all’era nuova che deve cominciare. Il movimento vicinale non fu né inutile né dannoso: spazzò via lo stantio e fece aria, rimettendo un po’ di sangue nella veneranda comunità. Vedano i fiemmesi che essa risorga allo splendore che le compete, madre di progresso e civiltà, magnifica repubblica di forze unite e di sane energie popolari. Ora lo statuto c’è, venga il consesso che sappia usarlo. A questo augurio ci pare doveroso di aggiungere un pensiero di gratitudine per gli uomini che collaborarono a ricostruire in mezzo allo smarrimento generale, la via della soluzione. Ricordiamo pure anzitutto quelli che seppero condurre il movimento vicinale ad una mèta determinata e razionale, ma poi grazie a coloro che di mezzo al mare delle opinioni e tendenze cozzanti afferrarono il raggiungibile e lo formularono nello statuto. Non intendiamo solo accennare alle cure dei rappresentanti politici in specie all’on. Paolazzi che si dimostrò abile e fortunato mediatore; no, vogliamo ricordare espressamente l’opera indefessa e provvidenziale di un modesto quanto valente impiegato, qual è il segretario luogotenenziale d.r Corradini . Egli in uno studio arduo e complesso riabbracciò tutta l’ampia questione ricostruendo in una sintesi faticosa il giure della comunità fiemmese. Ma egli oltre che giurista fu ancora due cose: uomo dei suoi tempi e buon patriota. La fusione di queste qualità gli concesse di scoprire senza cozzare nelle leggi vigenti la via della conciliazione. Esempio luminoso di quello che può fare un impiegato politico che non è estraneo al paese della sua attività. Su questa via abbiamo fede che i fiemmesi s’incammineranno di buon animo: sarà questa anche per l’egregio impiegato la soddisfazione maggiore di qualunque lode che potremmo oggi tributargli.
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1,908
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11906-1910
Il paese, dove i recenti avvenimenti e specialmente l’annessione della Bosnia-Erzegovina hanno prodotta più profonda impressione e sollevati più vivaci commenti è stato – se si eccettua forse l’Inghilterra – il vicino regno. Nessuna meraviglia. L’Italia è la prima interessata a conservare l’equilibrio nell’Adriatico e la mossa dell’Austria crea una situazione nuova che all’alleata non è certo favorevole e perciò tanto meno gradita. Già nel trattato di Berlino l’Italia non ebbe nulla, anzi furono stabiliti dei paragrafi che le riuscivano dannosi. Questa volta però sembrava che la diplomazia di Vittorio Emanuele III fosse riuscita a intravedere i progetti di Aehrenthal, e, dandovi il suo consenso, ad assicurarsi dei compensi. E la voce aveva fatto il giro dei giornali, confermata anche da certe dichiarazioni di Tittoni e degli ufficiosi. Ora a fatti compiuti tutti si chiedono quali siano appunto i famosi compensi. È la parola del giorno. Gli ufficiosi hanno ancora parlato, né mancarono anche le solite indiscrezioni volontarie. Innanzi tutto – dissero i bene informati – a Roma come a Londra e come altrove, si pensa che l’annessione della Bosnia-Erzegovina all’Austria non possa aver valore, se prima non sarà riconosciuta dalle potenze firmatarie del trattato di Berlino . Poi si osserva, gli interessi italiani nel trattato di Berlino furono soprattutto compromessi dagli articoli 25 e 29 del trattato stesso, cosicché se l’Italia ne ottenesse la soppressione, distruggerebbe quelle parti del trattato che le furono dannose e contro le quali per tanti anni insorse giustamente l’opinione pubblica italiana. All’art. 25 che riguarda i diritti del Sangiaccato Novi-Bazar l’Austria ha formalmente rinunciato. All’articolo 29, che riguarda i diritti sul Montenegro e specialmente sul porto di Antivari, l’Austria è sul punto di rinunciare, pressata dalle richieste della Russia e dell’Italia. Questo sarebbe un notevolissimo risultato ed un grande successo di reale vantaggio: poichè fermerebbe definitivamente l’Austria nella sua avanzata verso i Balcani; e questo compenserebbe l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina, la quale – come tutti riconoscono – è concessione del tutto apparente, poichè quella provincia apparteneva già all’Austria, a cui nessuno avrebbe mai pensato di toglierla. La questione – si conclude – dovrà essere regolata d’accordo colle Potenze: e ciò potrà avvenire sia con un’intesa tra le Potenze stesse, sia mediante la convocazione di una conferenza. In un modo o nell’altro l’Italia può contare su un risultato sicuro: l’abolizione dagli articoli 25 e 29 del trattato di Berlino che danneggiano gravemente i suoi interessi. Benissimo, rispondono gli scettici e i poco caldi ammiratori del ministro degli esteri italiano , questo vuol dire semplicemente che l’Italia procura i compensi... Al Montenegro! È pochino davvero. E in fondo non hanno torto. Secondo i due famosi paragrafi 25 e 29 del trattato di Berlino l’Austria aveva diritto di prolungare la ferrovia bosniaca da Sarajevo fino alla congiunzione di Mütrowiz (linea turca) e di occupare il Sangiaccato (provincia) di Novi Bazar, la quale provincia rappresenta quella larga striscia di territorio che sta fra la Serbia meridionale e il Montenegro occidentale, e che impedisce quindi l’unione di queste due regioni appartenenti ad un’unica nazione. Inoltre essa aveva ottenuto al condizionale che il Montenegro non potesse costruire ferrovie nei nuovi territori acquistati senza dover prima essersi messo d’accordo con l’Austria. In pari tempo aveva ottenuto pure la polizia marittima su tutta la baja di Antivari sottoposta al Montenegro, e così sui rimanenti porti del litorale. Il Montenegro non ha mai riconosciuto queste disposizioni del trattato di Berlino e in ogni occasione ha resistito alle pressioni di Vienna. Ora ammesso anche che l’Italia riuscisse a far abolire il paragrafo 29 e quella parte del paragrafo 25 che l’Austria vuole ancor mantenere in vigore, evidentemente i vantaggi saranno tutti per suocero. È vero che un qualche vantaggio commerciale risentirà anche la penisola per l’aumentata libertà di traffico, ma non è certamente gran ché. Se si voglia badare all’utilità militare, parrebbe che si debba dire altrettanto. Leggiamo infatti stamane nei giornali del regno che l’Italia non potrà mai farsi di Antivari una base d’operazione, né un porto di guerra, né tampoco un posto di rifornimento. Per cui... L’ultimissima è che i compensi per l’Italia consisteranno nel riconoscerle la sua sfera d’influenza in Tripolitania. Compensi africani. Che Aehrenthal, l’abbiamo fatta a Tittoni da amico?
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1,908
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11906-1910
Domenica a Tesero, a Panchià e a Predazzo il partito popolare aveva convocato delle adunanze che furono assai frequentate. I deputati Paolazzi e Trettel riferirono sull’attività del Parlamento e della Dieta e dell’opera loro in relazione agli interessi di Fiemme, il dr. Degasperi parlò della questione della comunità generale. Le relazioni Paolazzi e Trettel furono seguite con grande interesse ed approvate. Circa la questione della comunità va rilevato che a Panchià i regolari delle undici regole ringraziarono caldamente l’on. Paolazzi per la sua opera d’intermediario e votarono un plauso alla stampa del partito popolare in risposta agli immani sforzi di chi vorrebbe sollevare ridicole e postume accuse. Della conferenza del dr. Degasperi, per l’attualità della cosa, diamo qui una largo riassunto: La questione della Comunità Il dr. Degasperi s’introdusse, chiedendosi perché il partito popolare ora trattasse in un suo pubblico comizio politico il problema amministrativo della valle e rispose: fino a tanto che la classe vicinale batté le vie dei tribunali il partito si astenne da qualunque influsso, quantunque seguisse mediante la stampa con interesse e larghezza d’idee il movimento. Anche durante la campagna elettorale non fece irrisorie promesse: è falso quanto asserisce il Popolo che l’on. Paolazzi si sia impegnato di fare quello che non poteva cioè d’influire sulle autorità giudiziarie; è vero invece che egli disse, quando i vicini per qualunque ragione abbandonassero le vie dei tribunali e volessero venire ad un compromesso con le autorità amministrative, allora il deputato della valle sentirebbe il dovere di assumere la parte di mediatore per combinare un onesto compromesso. Questo anche avvenne, la mediazione dell’on. Paolazzi non si svolse nel segreto dei gabinetti burocratici, come mentisce il Popolo, ma l’abbozzo dello statuto venne prima presentato e discusso coi rappresentanti dei vicini, i regolari, poi venne distribuito a moltissimi interessati, ed infine i due delegati della Giunta e della Luogotenenza trattarono con le undici rappresentanze. Ora che lo statuto è approvato coloro che non hanno mosso un dito per sciogliere la questione, muovono ad una facile critica, lamentando che non vi sia ricostruita l’antica libertà di Fiemme, come se fosse stato possibile creare uno statuto, il quale, ignorando completamente la posizione giuridica e politica in cui si trova ora la comunità generale, restaurasse la libertà del medio evo. Lo statuto rappresenta un compromesso e precisamente un compromesso fra le condizioni giuridiche e di fatto, a cui è ridotta la comunità, da una parte e le tendenze della maggioranza popolare dall’altra. Le condizioni giuridiche e di fatto avanti il compromesso Per rispondere alla domanda: come si è giunti al compromesso? bisogna rifare col pensiero tutta la storia della magnifica. E qui l’oratore riassume brevemente i periodi storici e l’evoluzione della Comunità fino al suo scioglimento come comune politico (1807). Sulla scorta dell’esposizione documentata del dr. Corradini, l’egregio segretario luogotenenziale tanto benemerito dell’attuale soluzione, si diffonde poi più largamente a parlare dell’ultimo secolo, delle disposizioni dei governi bavaro, italico ed austriaco, che condussero infine all’amministrazione degli undici capi comune, la quale, secondo i decreti dell’autorità, doveva sussistere fino che fosse compiuta la divisione di tutti i beni fra gli undici comuni. La divisione totale non avvenne né in via amministrativa né in seguito ai processi divisionali che durarono dal 1823 fino al 1888. La divisione non poté farsi o perché i comuni non s’accordavano intorno alle parti che sarebbero loro toccate, o perché nelle sentenze non si ammetteva come base di divisione il numero della popolazione, affermando che la comunità non era da eguagliarsi ai comuni, ma ad una società privata vicinale. Da tali sentenze e dall’esito dei processi dei non vicini, (quelli del tribunale dell’Impero del ’72 e del ’74, dalla maggior parte delle sentenze del tribunale amministrativo fino al 1891), attinse forza il movimento «vicinale» che s’incamminò per le vie legali con la petizione del 27 agosto 1897 . La petizione veniva respinta. Sono poi noti i fatti del maggio 1906 e la conseguente causa dei vicini che finì con le due sentenze del 25 aprile 1907 e 21 ottobre 1907 . Siccome esse rappresentano lo stato giuridico della comunità in quel momento in cui si procedette al compromesso, fissato nello statuto provvisorio è bene che ci soffermiamo a considerarne il contenuto. In queste sentenze – e qui seguiamo l’esposizione del dr. Corradini – troviamo rilevato: 1) che la comunità di Fiemme prima del 1807 era un comune politico complessivo; 2) che con disposizione del Regio Governo bavaro 4 gennaio 1807 fu sciolta la Comunità quale comune politico e costituite le undici regole a comuni indipendenti, cioè divisa la Comunità in undici comuni; 3) che il patrimonio della cessata Comunità fu in parte suddiviso fra i comuni e che il rimanente fu e viene in base a misure amministrative del Regio Governo italico, riconosciute legali ed ulteriormente sviluppate dal Governo austriaco, amministrato quale bene e patrimonio comunale per conto degli undici comuni da una commissione (consesso) istituita quale rappresentanza comunale; 4) che questo patrimonio, in ispecie le vaste ed assai ricche foreste rimasero anche dopo lo scioglimento dell’unitario vincolo comunale, cioè dopo la divisione dell’antica comunità in undici comuni, destinata a quelli scopi politici ai quali servirono prima dello scioglimento: strade, affari sanitari, provvedimenti, poveri, scuole, ecc. cioè per scopi comunali; 5) che l’amministrazione del patrimonio della cessata comunità a nome e per conto degli undici comuni per scopi comunali forma una istituzione a senso del paragrafo 83 regolamento comunale, vale a dire la comunità come sussiste attualmente è una unione, un complesso di comuni e non già un complesso di vicini; 6) che il consesso non era soltanto una negotiorum gestio, nella quale si immischiarono gli undici capi comune ed il loro presidente senza mandato; lo sviluppo storico della comunità dopo il suo scioglimento quale comune politico della valle – dice il Tribunale amministrativo – comprova chiaramente che l’amministrazione finora esistita (cioè il consesso) si basa su disposizioni autoritative della supremazia dello Stato, che regola gli affari comunali, disposizioni che, dopo ritornato il Governo austriaco, vennero riconosciute legittime e tenute ferme. Il consesso non era quindi di un organo abusivo ma legale; 7) che la giunta provinciale in forza del diritto di sorveglianza conferitole dalla legge era in grado ed è obbligata a tutelare i diritti dei comuni di fronte alle pretese di terzi (cioè dei vicini) fino a tanto che, forse in seguito ad un processo civile, sarà creata una condizione giuridica che obbliga a desistere da diritti finora esercitati dai comuni. In proposito osserva poi il Tribunale amministrativo che i tentativi dei vicini non hanno finora sortito un esito favorevole come risulta dalle sentenze del 31 ottobre 1900 26 aprile e 2 luglio 1901. Tale è la condizione giuridica della comunità. In via di fatto poi troviamo l’amministrazione ufficiosa, con la direttissima ingerenza della Giunta. La luogotenenza pensava anche di imporre alla comunità un nuovo statuto. Di fronte a che sorse l’idea dello statuto provvisorio che inaugurasse un periodo di transizione, salvando più che fosse possibile influenza e diritti dei vicini e introducendo una progressiva democratizzazione dell’amministrazione della comunità. Chi trattò l’oggetto del compromesso fu – nel modo sopraddetto – l’on. Paolazzi, chi lo formulò, il dr. Corradini, al quale i fiemmesi devono sincera gratitudine. Lo statuto trovò oggi opposizione ad Innsbruck, dove si volevano maggiori restrizioni. Finalmente venne approvato. Il Compromesso In che consiste dunque questo compromesso? Da una parte si dovette tener conto delle ultime sentenze e perciò per la base della comunità rimase il regolamento comunale con sostanza collettiva, indivisa, con doveri finanziari verso il pubblico. Dall’altra però si cercò in via di fatto di lasciar aperta la porta per entrare nel consesso amministrativo alla classe vicinale. Non solo, ma si diede l’incarico al consesso provvisorio di formulare lo statuto definitivo, dopo aver istituito la matricola del vicinato dopo aver fatto il conguaglio dei quartieri ed aver stabilito in via formale, legale e precisa i diritti dei vicini. Poiché se le sentenze escludono che la comunità sia interamente proprietà dei vicini, non negano però che questa comunità ha verso la classe vicinale degli obblighi che vanno più esattamente delineati. I vicini secondo lo stato presente giuridico non posseggono la comunità. Che la ricostruzione del vicinato coi suoi diritti abbia grande valore e possa segnare un grande progresso per i vicini, si deduce dal fatto che ora tali diritti sono o confusi o limitati o contestati. E qui l’oratore rifà brevemente la storia dei diritti vicinali, come erano stabiliti nelle consuetudini, osservando che tali diritti, secondo le consuetudini (cap. 61) erano «alzabili od abbassabili ad libitum del comune». Derogate le consuetudini del 1807, il Governo italico nel 1812 dichiarò cessata ogni differenza fra i vicini e non vicini. Ma i fiemmesi di fatto non se ne curarono. Posteriori decisioni austriache fino al decreto luogotenenziale del 1862 confermarono i diritti vicinali (legna, pascolivo, segabile), cosicché quando entrò in vigore il regolamento comunale, passò in giudicato anche la circostanza d’una classe vicinale con speciali diritti. Ma questi subirono molte modificazioni in base ai decreti governativi del 1838, del 1845, del 1858 e 1861 e anche per abusi subentrati nei singoli comuni. Ora il nuovo consesso avrà il compito di stabilire nettamente i diritti vicinali e ridare eventualmente loro vigore. Il movimento è quindi per i vicini assai importante tanto più che ad un consesso loro favorevole sarebbe possibile in via di fatto favorire largamente la popolazione indigena. Infine lo statuto introduce ovunque la pubblicità ed il controllo, ciò che segnerà un grande progresso e una democratizzazione della vita amministrativa in Fiemme. È codesto un vantaggio piccolo, quando si facciano i confronti coi misteri incontrollati delle passate amministrazioni? Si dice che il provvisorio intacca l’autonomia della comunità. Che autonomia esisteva prima? Si pensi che già nel 1795 i fiemmesi accettavano nelle consuetudini la riserva del vescovo Pietro Thun, la quale in sostanza autorizzava il Vescovo e i suoi successori a modificare a proprio talento gli antichi statuti. Dal 1810 al 1866 la comunità non fu punto indipendente. Troviamo la diretta ingerenza delle autorità politiche in moltissimi casi, perfino i preventivi dovevano subire l’approvazione e le nomine la conferma. È vero che dopo il ’66 la Giunta non esercitò una sorveglianza così intensa, come prima, ma ciò accadde anche per moltissimi comuni e del resto nel 1870, nel 1879, nel 1883, nel 1886, nel 1888, nel 1889, nel 1890 e nel 1897 intervenne e i tribunali le diedero ragione. Secondo il provvisorio la Giunta non interverrà che in casi di ricorsi, oppure di infrazione del regolamento. Per il resto l’amministrazione è autonoma. Ed infine si oppone che il provvisorio sarà un provvisorio austriaco e durerà in eterno. Ciò dipenderà dai fiemmesi, conclude l’oratore. Se essi, compresi dall’importanza di questo momento affideranno il nuovo consesso in mano di uomini onesti, sinceri, amanti del popolo e del benessere della valle, il provvisorio cederà presto il campo ad un definitivo migliore.
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Al nuovo statuto la maggioranza fiemmese fa buon viso. Si capisce che il compromesso salva il salvabile, che apre una via alla democratizzazione della comunità generale, che offre i mezzi legali di regolare vertenze eterne, che rende possibile la legalizzazione dei diritti parziali dei vicini, che non siano in contrasto col regolamento comunale. Lo statuto infine dice: Fiemmesi, eleggetevi un vostro consesso, tenendo conto dei voleri del popolo, e incaricate codesti vostri rappresentanti non solo ad amministrare liberamente, ma anche sciogliere in uno statuto definitivo quelle questioni che furono origini di tante lotte. Si può ben affermare che soltanto coloro i quali vedono tutto attraverso gli occhiali del loro partito politico, dissentono dalla maggioranza. Ciò era previsto, ed è fenomeno inevitabile della nostra vita politica; ma avremmo ritenuto che gli avversari fossero più abili ed i loro pretesti più ammantati di speciose ragioni. Invece no; di bocca loro non esce che l’accusa; lo statuto fu imposto, lo statuto strozza l’autonomia di Fiemme, lo statuto ci mette in balia della giunta e del Governo. Siamo morti. E fino che tali accuse vengono stampate da un avvocato di Rovereto , pazienza! In fin dei conti non si può pretendere che egli trascuri gli affari suoi per studiare la questione fiemmese o almeno che tenti di farsi un’idea della situazione attuale. E poi, c’è da meravigliarsi che a lui lo statuto non piaccia, quando trova troncata la sua speranza che la comunità diventasse, com’ebbe a scrivere nel Popolo «un’anticipazione di socialismo»? Ma strana e comica addirittura è la posa degli autonomisti dell’ultima ora, di quelli cioè che ora parlano di imposizioni, di sopraffazione, di morte civile, dimenticando d’aver dato essi stessi il voto, al nuovo statuto, approvandolo in seno alla rappresentanza comunale, dopo aver udita la spiegazione dalla bocca dei delegati ufficiali. O perché non si sono ribellati alla presunta imposizione, perché mettendosi alla testa dell’opposizione, non hanno avuto il coraggio di assumere le responsabilità di una nuova lotta? Se lo statuto nuovo è la cicuta che avvelena la vita della comunità, perché hanno vuotato il calice senza agitarsi, senza ribellarsi? Grand’uomini coloro che s’accorgono di non essere vivi, quando sono morti! Via, il popolo di Fiemme è troppo realista per dar retta a codesti postumi non sinceri piagnoni. La sua collaborazione disinteressata ed intelligente farà sì che la comunità, anziché morta, ricomincia davvero a vivere quella vita democratica e moderna, di cui prima si ignoravano i palpiti. E anche noi per l’effetto pratico, potremmo passare innanzi, senza ribattere alle preficae del Popolo e dell’Alto Adige. Tuttavia per la tentazione di dimostrare nuovamente con quanto fondamento gli autonomisti dell’ultima ora, lamentano il funerale dell’indipendenza della comunità, pubblichiamo, col permesso dell’autore, l’egregio segretario luogotenenziale dr. Corradini, quel brano della sua relazione fatta ai comuni, il quale tratta in particolare di tale questione. Eccolo: «Interessante questione è quella dell’indipendenza della comunità, cioè la questione se la comunità sia o meno subordinata alle autorità comunali di sorveglianza. Solitamente si dice che la comunità fu sempre indipendente e che le autorità comunali nulla hanno a che fare con la comunità. Consideriamo più da vicino questa questione. L’antica comunità come sussisté fino al 1807 fu – possiamo dire – libera e indipendente fino al 1795, nel quale anno il principe Vescovo Pietro Vigilio con la sua riserva assunta a pag. 134135 delle consuetudini diede una fatale scossa alla libertà ed indipendenza fino allora gelosamente mantenuta dai fiemmesi. Tale riserva di cui feci già menzione più sopra dice: “Salvo tamen semper et reservato iure nostro ecclesiae nostrae et successorum nostrorum et signunter pro temporum et vicissitudine addendi et minuendi prout tunc melius visum fuerit”. La comunità in senso odierno cioè l’amministrazione del patrimonio indiviso dell’antica comunità a nome e per conto degl’undici comuni per determinati scopi, fu tutt’altro che libera, essa dipendeva in tutto e per tutto dalla sorveglianza dell’autorità. Dal decreto della Regia Prefettura di Trento del 6 aprile 1810 n. 816 emerge che per ogni vendita l’amministrazione della comunità doveva domandare la superiore approvazione. Anche per le investizioni di capitali e per mutui occorreva la superiore approvazione (decreto della Regia Prefettura 10 luglio 1810 n. 1494). Con l’ordinanza dei 17 Maggio 1813 D. 10136 venne espressamente stabilito che l’amministrazione del patrimonio dell’ex comunità è sotto la dipendenza, direzione e sorveglianza della Prefettura. Nessun pagamento poteva venir fatto senza l’autorizzazione della Prefettura e tutti i mandati dovevano essere vidimati dal vice Prefetto. Queste misure di sorveglianza vennero mantenute anche dopo ritornato il Governo austriaco e costituito il consesso fino al 1866. Ad ogni sessione del consesso interveniva un delegato della Pretura rispettivamente del Capitanato allora autorità di sorveglianza sui comuni. Ciò emerge dai protocolli di sessione del consesso fino al 17 maggio 1829, dal 10 novembre 1829 al 1852 e 1866. Fino al 1866 l’amministrazione della comunità doveva sottoporre all’approvazione dell’autorità amministrativa governativa tutti i preventivi e le rese di conto ed ogni atto di compravendita e d’affittanza, e trattandosi di vendite detta autorità metteva sempre la condizione: “a patto, che si renda fluttuante in aumento del patrimonio comunale il pattuito prezzo di compravendita e venga conteggiata in preventivo la rendita”. Veggasi in proposito per esempio i decreti della Pretura rispettivamente del Capitanato di Cavalese e del governo circolare in Trento 30 aprile 1822 n. 175, 6 febbraio 1832 n. 559, 30 aprile 1835 n. 1292, 3 agosto 1848 n. 9566, 20 agosto 1850 n. 3744, 23 novembre 1853 n. 12910, 27 dicembre 1834 n. 12432, 31 ottobre 1854 n. 9004, 27 aprile 1855 n. 1915, 22 aprile 1857 n. 5664, 29 gennaio 1859 n. 883, 23 febbraio 1859 n. 1907, 22 agosto 1859 n. 1904, 7 luglio 1859 n. 7390, 9 agosto 1859 n. 9176, 29 novembre 1859 n. 13536, 25 novembre 1859 n. 1370, 20 dicembre 1859 n. 14382, 1° gennaio 1861 n. 32525, 4 maggio 1862 n. 1803 e molti altri. Organizzate le autorità autonome (1866) le autorità dello Stato non potevano prendere un’ingerenza così intensa come antecedentemente. Se poi la Giunta provinciale non esercitò una regolare sorveglianza ciò non vuol dire che non abbia avuto il diritto. Prese però tuttavia ingerenza come risulta dai decreti 7 aprile 1870 n. 2035, 29 agosto 1879 n. 9788, 13 aprile 1883 n. 5753, 19 febbraio 1886 n. 1962, 17 agosto 1888 n. 11787, 29 giugno 1889 n. 8347, 6 luglio 1890 n. 6394, 22 ottobre 1897 n. 21668 e i decreti degli ultimi anni generalmente noti. Le autorità politiche presero poi ingerenza anche dopo istituite le autorità autonome, come emerge dai decreti del Capitanato, della Luogotenenza e del ministero dell’interno dei 16 marzo 1897 n. 1601, 8 agosto 1898 n. 9071, 13 febbraio 1899 n. 43860, 23 aprile 1904 D. 18453 e 28 novembre 1904 n. 30458». Da tale esposizione documentata risulta che nel nuovo statuto la comunità in quanto riguarda la sua autonomia, non solo non ha nulla da perdere, ma non poco da guadagnare. Di fronte allo statuto attuale della comunità e quello creato dal provvisorio, parlare di strozzamento dell’indipendenza è confessare di non conoscere il passato, i cui confronti la nuova era non ha certo da temere. Un articolista dell’Alto Adige obietta però che negli ultimi tempi il dr. Mendini meritò bene dell’indipendenza della comunità. Ecco, se intende di dire che l’amministrazione in tale periodo venne fatta indipendentemente dalla popolazione, rispondiamo: purtroppo! Ma se volesse affermare che il dr. Mendini mantenne la comunità indipendente dalle autorità, gli ricordiamo che il dr. Mendini fu colui che in occasione della petizione vicinale del 1897 chiese ed ottenne dalla Giunta provinciale l’incarico di patrocinare i comuni contro i «vicini», riuscendo poi nel corso del processo a far assumere quelle prove, per cui fu respinta la petizione vicinale e la comunità fu riconosciuta come società comunale. E questo fatto che non teme smentite basta per dimostrare che è proprio fuor di luogo dipingere il dr. Mendini quale angelo tutelare dell’autonomia fiemmese. Infine, tanto per non dilungarci eccessivamente, ci sia permesso accennare ad un’altra circostanza che è già nota in Fiemme, il presente statuto provvisorio non solo non fu imposto dalle autorità provinciali, in ispecie dalla Giunta, ma si durò fatica ad ottenerne l’approvazione, poiché sembrava a loro che concedesse troppo e in senso autonomistico e in senso vicinale e chi partecipò alle trattative sa che si teneva in pronto un altro abbozzo di statuto ove l’ingerenza giuntale si stabiliva ad ogni passo ed ove mancava tutto quello che c’era di simpatico nel presente provvisorio. Questa la realtà delle cose, di fronte alle quali si dovrebbe sperare che anche avversari politici galantuomini rendessero ai compilatori del compromesso maggiore giustizia.
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Stamattina nella Commissione delle comunicazioni era all’ordine del giorno la domanda del Comitato ferroviario per la Gardena. La traccia di tale ferrovia non è ancora ben determinata, essendo il punto di partenza di tale ferrovia disputato tra quattro comuni interessati; Bressanone, Chiusa, Waidbruck e Bolzano. Il dr. Lanzerotti prese occasione per sollevare la questione della ferrovia di Val di Fiemme. Osservò che la ferrovia della Gardena è una parte della ferrovia delle Dolomiti, che dovrebbe attraversare tutta la regione delle Dolomiti tra Bolzano e Toblacco. La regione delle Dolomiti ha assunto da qualche anno un’importanza straordinaria. Le conferenze promosse dalla direzione della ferrovia Meridionale a mezzo del dr. Mündl, conferenze tenute e da tenersi nelle principali città tedesche, francesi ed inglesi, hanno fatto e faranno conoscere sempre più la bellezza di questa regione alpina. Il concorso dei forestieri è in continuo aumento; lo affermano le statistiche di quest’anno. I tedeschi hanno molti accessi a questa regione. Essi vi giungono da Toblacco, attraversando la valle di Ampezzo e il passo di Falzarego, da Bruneck attraverso la valle di Marebbe e il Passo di Colfosco, da Bressanone, dalla Chiusa, da Waidbruck attraverso la Gardena e da Bolzano attraverso la costiera di Sais e il Passo di Sella. Gli italiani non vi hanno che due strade d’accesso. Quella attraverso la Val di Fiemme e di Fassa e quella a ritroso della Valle di Cordevole (Agordo – Caprile – Livinallongo). Sta bene che da parte dei tedeschi si promuovano ferrovie dì mezzo alle Dolomiti e da Toblacco e Cortina e da Bressanone e da Bolzano. Ma non corrisponde né a giustizia né all’interesse della regione se si vuole escludere o rendere difficile agli italiani la costruzione di ferrovie d’accesso da parte del mezzogiorno. Oltre a ciò la regione delle Dolomiti appartiene nel suo complesso di più all’elemento italiano che a quello tedesco. Fra le due ferrovie dolomitiche italiane accennate di sopra, la ferrovia di accesso alle regioni dolomitiche da parte italiana, entro i confini dolomitici dell’Impero, è quell’unica che salendo a ridosso della Valle dell’Avisio mette in diretta comunicazione il centro del Trentino, la città di Trento attraverso la Val di Fiemme e di Fassa col Passo del Pordoi, nel cuore della regione. Con tale ferrovia le Dolomiti sarebbero per di più – ora che la costruzione di una ferrovia per le Giudicarie è quasi assicurata – avvicinate ad uno dei più importanti centri per l’industria dei forestieri che vanti le Alpi: il lago di Garda. I membri della Commissione devono riconoscere la buona base di tali argomentazioni e non possono ragionevolmente rifiutarsi di concedere almeno un accesso, attraverso il territorio italiano agli italiani. Non è da nascondere la difficoltà che si presenta alla giusta e naturale soluzione di tale vertenza, specialmente in seguito alle pretese della città di Bolzano, la quale aspirando, come risulta dalle esposizioni oggi fatteci dal signor relatore dr. Kofler, a divenire punto d’accesso alla regione delle Dolomiti attraverso la Valle di Gardena e lungo la costa alpina di Sais, cerca contemporaneamente d’impedire l’unica via alle Dolomiti che tocca agli italiani. Gli italiani non possono rinunciare alla loro ferrovia dolomitica, alle loro giuste aspirazioni, ai loro diritti, e quindi non possono votare in favore delle ferrovie dolomitiche proposte dai tedeschi che con la riserva in favore della ferrovia italiana e qualora i tedeschi una buona volta – avendo compensi più che sufficienti da tante altre parti – non dichiarino di togliere gli ostacoli di carattere locale e d’indole privata messi dalla città di Bolzano. Il deputato Kientpoitner (cristiano sociale) dichiara che egli riconosce agli italiani il diritto di tutelare i propri interessi e quello di avere un accesso alla regione dolomitica dal momento che i tedeschi ne hanno cinque, e vedrebbe volentieri che si venisse ad una intesa tra i deputati. Egli voterà secondo coscienza senza riguardo. Anche il deputato Unterkircher, pure cristiano-sociale, si associa alle idee del collega Kientpoitner e chiede al dr. Lanzerotti spiegazioni in riguardo alla ferrovia di Val d’Avisio, non sapendo precisamente se tale ferrovia fosse l’unica via italiana. Il dr. Lanzerotti dà spiegazioni esaurienti che provocano una dichiarazione anche da parte del dr. Kofler, il quale, non può entrare in merito della cosa, prima d’aver parlato in club, poiché la questione della ferrovia di Val di Fiemme è diventata una cosa politica. Però vede volentieri riassunte le trattative per venire ad una soluzione. Il deputato Habicher (cristiano-sociale) si associa alle idee espresse dai colleghi nel senso che voterebbe in favore di una proposta che eccitasse il Governo a cercare di eliminare gli ostacoli che si frappongono alla soluzione di questa vertenza. Dopo che ebbe parlato ancora il dr. Lanzerotti e l’on. Raile si votò una risoluzione di rimandare la sovvenzione della ferrovia della Gardena a quando le cose siano in chiaro. Quale relatore, il dr. Lanzerotti espone la domanda per la ferrovia elettrica aerea funicolare da Bressanone sul monte Plose per la quale si mettono a disposizione delle imprese corone 120.000. Il progetto è fatto dalla ditta milanese ing. Cerretti e Tanfani. È la prima volta che si dà una sovvenzione ad una ferrovia funicolare; i deputati italiani votarono pro, con la precisa riserva che si prendano in considerazione i progetti italiani che si fossero presentati.
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L’organo dei liberali democratici e degli autonomisti fiemmesi dell’ultima ora, in polemica col nuovo ordinamento delle cose in Fiemme , ha sostenuto prima che lo statuto provvisorio è la morte di quell’autonomia della comunità che stette sempre a cuore al corifeo liberale D.r Mendini . Noi abbiamo risposto citando fatti e documenti, che fu proprio il D.r Mendini il quale ricorse alla Giunta per avere l’autorizzazione a patrocinare gli interessi comuni di fronte ai Vicini. Abbiamo risposto che fu proprio il processo, ove il Mendini era avvocato dei comuni, che finì con una sentenza sfavorevole ai Vicini e alla indipendenza ; la quale in realtà esisteva solo nel senso che l’amministrazione era indipendente non dalla Giunta, ma dall’influsso e dal volere popolare. Cattiva indipendenza codesta, che il movimento vicinale ben diretto riuscirà a togliere. L’Alto Adige o meglio il suo collaboratore non seppero che cosa rispondere alla nostra argomentazione documentata. Il d.r G.M. però ritorna alla carica per un altro verso e, visto che non la va coll’affare dell’indipendenza salvata dal D.r Mendini (sic!) tenta di seminare la zizzania nel campo democratico-vicinale, sollevando in seno a loro tendenze politiche e anticlericali. Nell’ultima risposta abbiamo evitato d’interloquire colla persona del d.r G.M. tanto perché volevamo evitare la punta personale, ma giacché il signor avvocato ha l’impudenza di rinfacciare a noi, al nostro deputato e al direttore di questo giornale di aver inscenato una commedia e di aver gabellato i vicini, abbiamo diritto anche un pochino di occuparci della sua persona. Il d.r G.M. parla di commedie. E sia; diamone subito il canovaccio. ATTO I Il d.r G.M. quale candidato del partito liberale riguardo la questione vicinale, dopo molti studi ed escogitare di formule è arrivato alla conclusione del marchese Colombo, cioè ch’egli fra il si e il no è di parere contrario. ATTO II Quando i delegati della luogotenenza e della Giunta si presentarono alle rappresentanze comunali, compresa quella di Predazzo, il d.r G.M. primo consigliere, ascolta la relazione del d.r G. Corradini, discute le basi del compromesso e del nuovo provvisorio, e vota in favore, cioè si dichiara quanto per la presunta morte dell’indipendenza quanto per lo statuto. ATTO III Quando il d.r Degasperi a Predazzo espone, sunteggiando, la parte sostanziale della relazione Corradini e le basi del provvisorio, il d.r G.M. scopre che l’indipendenza della valle è in pericolo e che i clericali con lo statuto la strozzano, mentre il d.r Mendini l’aveva salvata. Dimostratogli colle prove il contrario, scantona. ATTO IV Il Trentino pubblica la relazione del d.r Corradini, ossia la medesima roba che il signor G.M. ha sentito leggere nella rappresentanza di Predazzo e che fu letta in tutte le rappresentanze di Fiemme. Allora il d.r G.M. non aveva nulla da eccepire, ora s’alza a combattere i clericali e il Trentino, e grida che i vicini sono imbrogliati, che Paolazzi, Corradini, Degasperi e compagnia li hanno traditi. Ma il più bello è l’ EPILOGO DEL DRAMMA Nell’Alto Adige si legge una corrispondenza da Cavalese, ove si dice che i liberali s’astennero la prima volta dall’elezione dei delegati perché vogliono lasciare ai «clericali» la briga di cavarsela e la responsabilità della situazione. Pochi giorni dopo la rappresentanza di Cavalese elegge, fra gli altri, anche il d.r Rizzoli , consenziente del d.r G.M., e l’Alto Adige in una nuova corrispondenza loda il d.r Rizzoli perché si propone di collaborare all’amministrazione della comunità. Sì, commedia dunque, signor d.r G.M., ma il male è che la commedia non sia ancora finita. Per parte nostra, ascolti bene signor avvocato. Noi non abbiamo nulla da nascondere. Noi non abbiamo fatto come quei signori che a Cavalese tenevano pronta la petizione di divisione fra i comuni , mentre sui giornali radicali deridevano, oltreggiavano il partito vicinale. Se desidera, abbiamo le raccolte dei fogli organi del suo partito e dei suoi alleati, e sarà servito. No, noi abbiamo detto chiaro ai vicini: Voi avete libera parola nel nostro giornale, e la ebbero, in un tempo in cui i suoi amici di partito, signor avvocato, si rifiutavano di stampare le ragioni vicinali. Noi non abbiamo mai promosso d’influire sul corso del processo e sulla sentenza; codesta è un’accusa sciocca, sollevata dai fogli radicali, ed è contemporaneamente un’offesa per i vicini quasi questi non sapessero che i tribunali sono indipendenti da ogni influenza personale di partito. Quando sono venute le note sentenze, allora l’on. Paolazzi ha detto ai regolani, rappresentanti del partito vicinale: Non restano che tre vie, o battere la via civile, o compilare un provisorio facendo in modo che nel consesso, incaricato di compilare uno statuto definitivo, entrino i fiduciari dei vicini, o far votare un’apposita legge alla Dieta. Su queste eventualità i regolani discussero e decisero, e di tali decisioni, ci sono i protocolli scritti. La prima via (dei giudici civili) non trovarono opportuno batterla, la terza, ammesso anche la possibilità di raggruppare intorno ad essa una maggioranza dietale, offriva troppi pericoli per la sanzione – dato che erano da prevedersi opposizioni locali (personali o comunali). I regolani perciò assentirono in una sessione tenuta a Tesero che si sciegliesse la via del provvisorio, il quale, senza pregiudicare le altre vie, offriva ai vicini il mezzo di raggiungere almeno parte dei loro desideri nel più breve tempo possibile. Questa fu la nostra politica, di sincerità e di coraggio civile. Si, signori! Coraggio civile: poichè noi non abbiamo ingannato il popolo con frasi e con chimere. Volevate voi che la relazione del delegato luogotenenziale restasse sepolta nella cancelleria municipale? No, abbiamo detto; venga pubblicata, affinché i vicini sappiano qual è lo stato giuridico della questione, affinché vedano che, date le ultime sentenze, il compromesso del provvisorio il quale mette in vista la ricostruzione legale del vicinato, il conguaglio dei quartieri, una amministrazione controllata dal pubblico e tale che può favorire – malgrado le sentenze – gli interessi vicinali, che questo compromesso è senza dubbio un progresso tanto per le classi popolari come per i vicini in ispecie. Tale fu il nostro contegno nella difficilissima questione, mentre i liberali, o almeno molti di loro si limitarono a berteggiare i vicini e ad attaccare i clericali sperando che ritornasse al potere il vecchio sistema. Che cianciate di lettere compromettenti? Le lettere non possono contenere che quello che venne esposto a voce ai capi regolani e che è fissato nei rispettivi protocolli. Che c’è qui da nascondere? Per nostro conto, nemmeno una riga, signor avvocato. Come vede le sue rivelazioni non c’impressionano punto. In quanto alle avvenute elezioni per il nuovo consesso il partito popolare come organizzazione politica, non s’è immischiato. Ma se un’influenza sia per mezzo del giornale, sia personalmente vi fu, ciò avvenne in favore del partito vicinale, il quale ha anche conquistato la maggioranza. Solo ci rincresce che in qualche comune non si sia fatto un solo passo per la riconciliazione, nominando, com’era giusto, almeno un rappresentante del partito vicinale militante, e ci dispiace ancora che nell’esclusione di qualche regolano si sia valsi dell’appoggio che dava una poco opportuna e poco felice raccomandazione dell’autorità capitanale. Comunque la maggioranza è di tale carattere che garantisce l’esecuzione del programma fissato nel nuovo statuto, in senso democratico-vicinale. A questa maggioranza noi diciamo: Non badate a chi vuole seminare nel vostro campo la zizzania. Se i vostri avversari avessero veramente ritenuto l’attuale provvisorio una rovina non lo avrebbero essi potuto impedire? Bastava fosse mancata l’adesione di un comune solo, e il compromesso sarebbe andato a rotoli. Non badate quindi ai loro piagnistei in ritardo; non sono sinceri. Entrate nel nuovo consesso e lavorate! In questo lavoro non vi mancherà l’appoggio della stampa onesta e sinceramente democratica. E: Vedremo a chi il tempo galantuomo darà ragione!
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Non intendiamo oggi di riassumere l’enorme lavoro che la Dieta oggi ha compiuto nella sessione testè chiusa. Essa rimarrà memorabile per un pezzo. Solo uno sguardo all’accelerato funzionamento burocratico lascia indovinare quale cumulo di lavoro reale venne fatto. Il protocollo degli esibiti segna 1450 «pezzi», numero mai raggiunto nella cancelleria dietale a memoria d’uomo. Tali atti vennero assegnati per l’evasione alle singole commissioni e quasi tutti vennero trattati, discussi. I deputati presentarono 213 proposte, la giunta 81, complessivamente vennero stampate, distribuite ai deputati e messe all’ordine del giorno 659 relazioni, proposte o leggi. Soltanto per lavori idraulici la commissione rispettiva e il pleno deliberarono 101 leggi. Si pensi che qualcuna di tali proposte di legge era un vero volume e che certe, come la novella scolastica, la legge stradale, le leggi agrarie occuparono per settimane intiere le commissioni. Si dovrà pur considerare che e deputati e impiegati sotto la pressura di tale cumulo d’affari, presentatosi al pubblico nelle 24 sedute plenarie, non ebbero modo ad Innsbruck di godersi il bel tempo che regnò imperturbato fino all’ultimo. I risultati da tale lavoro sono ottimi. Si votarono 101 leggi per opere idrauliche, alcune delle quali urgentissime per una spesa complessiva di 12.410.403. Il contributo prov. a tali opere è di 3.940.804, di cui per la parte tedesca 2.566.546; per il Trentino 1.374.118. Si deliberò di contribuire alla costruzione delle ferrovie locali assumendo azioni di fondazione per la parte tedesca di cor. 2.995.000 e per le ferrovie trentine cor. 1.620.000. Vennero trattate e deliberate parecchie leggi in favore della pastorizia dell’alpeggio, dell’agricoltura in genere e a tale scopo la Dieta dedicò vistosi crediti. Si tentò di ovviare alla crisi vinicola accordando diverse sovvenzioni alle cantine sociali. Altri notevoli sussidi concesse la provincia alle Società economiche, sorte per il popolo lavoratore, per le federazioni delle casse rurali, per i forni essiccatori, ecc; altre ancora per scopi educativi od umanitari. Un importante novum fu la decisione e la fissazione di un credito per sovvenzionare la costruzione degli acquedotti per acqua potabile. I nostri comuni sanno quanto fosse odiosa la linea di condotta a cui la provincia prima credeva doversi attenere. La legge sanitaria da sì lungo tempo richiesta, venne votata, la legge magistrale venne condotta sì innanzi che v’è speranza nella prossima sessione trovi evasione, e che venga sciolto il difficile problema del coprimento. Ma quella che s’elevò a questione principe dell’attività dietale fu la questione stradale. Intorno ad essa parvero raggrupparsi tutte le difficoltà e mutarsi la formazione dei partiti. Da principio tedeschi e luogotenente contro i postulati degli italiani, poi parte dei tedeschi in atteggiamento meno ostile, infine tedeschi, italiani e luogotenente alleati per strappare al governo centrale quello che gli italiani reclamavano come adempimento di una promessa. E qui si manifestò tutto il valore della disciplina, e la splendida tattica del partito popolare. Noi non facciamo che ripetere una verità da tutti in Innsbruck asserita, se affermiamo che il club popolare e il suo energico capo nei momenti più critici furono all’altezza della situazione. Ed infine arrise loro la vittoria. Le trattative con Vienna che negli ultimi due giorni venivano condotte telefonicamente diedero il loro risultato: il ministro inserì nel bilancio un aumento di 250.000 cor. sull’importo di 300.000 cor. preventivato per la costruzione di strade trentine nel 1909 e i tedeschi votavano assieme agli italiani il corrispondente contributo provinciale. In tale modo fu reso possibile per il prossimo anno un lavoro per strade principali e secondarie nel Trentino di circa Cor. 340.000 (non 380.000 come venne stampato erroneamente nella relazione di ieri). Tale in fuggevoli cenni il lavoro compiuto. Anche in questa occasione il partito popolare si addimostrò partito del lavoro e i suoi uomini non conobbero tregua. Talvolta parve che si ritornasse al triste metodo della maggiorazione nazionale, ma l’energia degli italiani ricacciò indietro certe velleità pericolose. Di maniera che nelle maggior parte dei casi gli uomini di tutte due le parti cercarono una via di mezzo, il modus vivendi, e i nostri deputati, ritornando in paese, possono affermare con retta coscienza di averne aumentato il benessere economico e contemporaneamente di non aver piegata la bandiera nazionale, per la quale il lavoro comune è atto a creare un ambiente più favorevole. Quod est in votis!
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Il barone Beck aveva sognato ancora una vita lunga e gloriosa, e il 2 dicembre doveva essere non solo la grande giornata di un giubileo meraviglioso, ma anche la festa della nuova era parlamentare, inaugurata con la democrazia, continuata con la proclamazione della giustizia nazionale. Ma già nell’estate la grande coreografia di sentimenti che doveva svolgersi in tolemaica armonia intorno al trono parve perdere consistenza e quasi sciogliersi sotto i raggi del sole. I ministri parlamentati, «gli assessori della giustizia nazionale», facevano cenno o decidevano veramente di abbandonare il loro posto, e il premier a insistere perché restassero lì almeno fino al giorno del sognato spettacolo coreografico. Ma infine nemmeno il rispetto per il venerando principe poté resistere all’evidenza delle cose, e gli assessori delle nazioni si sbandarono. Se ne andò con loro anche l’idea che rappresentavano? I partiti maggiori s’affrettarono ad affermare il contrario. Ed è, vero, i partiti non possono che constatare la fatalità di tale successione; al movimento centrifugale segue un moto centripeto com’è di un’onda chiusa entro confini marmorei. La vita democratica scuote sempre più quest’acqua e il moto di andata e ritorno si fa sempre più frequente. Noi siamo convinti che la causa dell’equiparazione nazionale nonostante tutti gli sforzi dei potenti progredisce, progredisce sempre e fatalmente; uno sguardo all’evoluzione dell’ultimo periodo politico ci disegna la parabola, Stremayr non riconoscerebbe più il Parlamento d’oggi, ma anche Taaffe sarebbe meravigliato dell’era Beck. Il carattere plurinazionale si manifesta nel Parlamento e, lentamente penetra anche nell’amministrazione dello Stato. Ed ecco la ragione profonda della crisi dei moti sussultori che scuotono fino le fibre dello Stato: questo moto di penetrazione è, per la giustizia e per i diritti di quelli che moralmente sono minoranza, troppo lento, per i beati possidentes invece, troppo accelerato ed invadente. E per questo hanno inventato i ministri nazionali, i quali hanno lo scopo di attendere alla statica dell’equilibrio slavo-romeno-tedesco; così viene detto, in realtà però non vi è che un equilibrio in dinamica. I ministri nazionali cioè sono lì proprio per promuovere non per arrestare la propria tendenza nazionale, sì che il famoso equilibrio o la media aurea del barone Beck non può essere che un passo di tolleranza concessa alla marcia di tendenze divergenti. Questo sistema è matematicamente assurdo, ma è tuttavia dettato dall’assurdità delle condizioni politiche, è quindi politicamente possibile, anzi è forse l’unico possibile. Così l’idea non è morta, perché non poteva morire. Ai 2 dicembre mancherà lo spettacolo coreografico di un Governo plurinazionale; ma dietro il podio lasciato internalmente vuoto si schiera un Parlamento che rappresenta quelle medesime ineluttabili forze, di cui il barone Beck tentava di ottenere la risultante. E i grandi partiti, le nazioni forti aspettano il fatale ritorno dell’onda; e i forti possono aspettare. Ma i deboli? Non hanno questi ministri nazionali né candidati né pensionati, poiché protettori speciali si concedettero alla ricchezza non alla povertà, né le forze loro possono piegare notevolmente la risultante governativa. Rimangono le ragioni morali. Il diritto lampante, la giustizia offesa, la riparazione necessaria. Noi siamo dei positivisti in Politica, non degli scettici. Tuttavia chi potrà negare che l’età moderna, malgrado Gladstone e Roosevelt , ha creato un abisso fra l’etica e la politica? Le ragioni morali sono in ribasso. E pure ai deboli non resta altra salvezza. Gridar alto e forte il proprio diritto e reclamare riparazione. Il Trentino economicamente fece nell’ultimo periodo politico qualche progresso, il quale anzi, di fronte al passato si può dire notevole. Nazionalmente però gli italiani sono ancora tra i deboli che aspettano. E l’attendere è lungo, lungo, quasi sfiduciato. Ieri un gruppo di studenti italiani fece una dimostrazione a base di urla e di fischi. Un drappello di guardie li sciolse e soffocò le grida. Un drappello ne arrestò anzi una trentina. Molti sono del parere che gli studenti hanno scelto male l’occasione ed hanno sparato in un momento falso. Ma, comunque, è pur vero che quelle grida erano grida di tutti gli italiani che reclamano riparazione ad un’ingiustizia patentissima. Erano grida di dolore, di esacerbazione. Perché non si riapre la facoltà nostra, distrutta dai prepotenti? Perché alle promesse non seguono mai i fatti? Perché? E questo grido si mescola al concento giubilare, invocando e ricordando la solenne promessa di equità nazionale del discorso del trono, quando con accento di grandi speranze, il monarca, a sessant’anni di regno, inaugurava col Parlamento del popolo un’epoca nuova.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
La questione universitaria ha richiesto nuove vittime, le dimostrazioni cruente si sono ripetute . Non si conoscono ancora sufficientemente i particolari della dimostrazione, né regna ancora assoluta chiarezza intorno alle cause prossime. Si può anzi dire fin d’ora che intorno allo svolgimento dello scontro si manterranno, com’è solito accadere, versioni diverse. Ma quello che è certo si è che tali scontri e conflitti risalgono ad una situazione impossibile. Gli italiani, spogliati brutalmente di quanto possedevano, costretti a frequentare università dello Stato che valgono come tedesche, non vi vengono accolti quali cittadini accademici di pari diritto, ma come universitari di seconda categoria, Mentre l’aula e l’atrio nella tradizione universitaria furono sempre il teatro ove gli studenti si radunavano liberamente ad esporre le loro ragioni, i tedeschi e specialmente i tedeschi nazionali negano codesto «diritto accademico tradizionale» alle altre nazioni e bastonano ferocemente chi osi ribellarsi ai loro comandi. Così è avvenuto ieri. Quando gli studenti si radunarono nell’aula e fecero cenno di levare una protesta contro il governo, i prepotenti tedeschi li caricarono a bastonate e lo scontro fu così terribile che ne derivò una mischia cruenta a colpi di revolver. È dunque anche questa volta la prepotenza degli intellettuali tedeschi e della maggior parte di loro l’autrice responsabile di tale violenza e di tante vittime, quello stesso ipernazionalismo teutonico che, tenendo fra le sue unghie il governo dello Stato, gli impedisce di rendere almeno parzialmente giustizia agli italiani, ricostituendo la facoltà, dalla violenza distrutta.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
[...] Ha parola il d. Degasperi, il quale in forma popolare, facendo appello più al ragionamento che all’entusiasmo, dice della donna e della questione universitaria. La partecipazione della donna alla vita pubblica Prevedendo le obbiezioni che si fanno alla presente adunanza femminile affronta la questione della partecipazione della donna alla cosa pubblica. Combattendo i pregiudizi in voga e l’intransigenza degli ultra-conservativi da un lato e le esagerazioni dall’altro, l’oratore giunge alla conclusione: Noi siamo per la partecipazione della donna alla cosa pubblica in quelle forme e in quella misura che lo permetta lo stato di donna madre, donna sposa, donna signora della famiglia. Di più, noi siamo per questa partecipazione intanto in quanto e perché essa giovi alla missione prima e più vera della donna che riguarda la famiglia e l’avvenire di questa (istruzione). È la questione universitaria tale cosa pubblica permettere o richiedere l’interessamento della donna? L’oratore esamina qui la Q.U. (questione universitaria), dimostrando che essa è infine un postulato di istruzione e di educazione nazionale e ne deriva quindi le sue relazioni colla missione della donna. La Q.U. e la donna. E qui tocchiamo il grande problema dell’influenza femminile sullo sviluppo e sui destini dei giovani, oltrepassati i limiti della fanciullezza. La donna ora – tolte poche eccezioni – si ferma alle scuole normali e alle prime delle scuole medie. Perché, dopo, il suo influsso diminuisce o scompare? Ammesso anche la sua parte alla natura che pare avvicini il giovane più al padre che alla madre, l’oratore risponde: Perché non intende. Non si tratta di intendere l’oggetto dello studio del giovane, ma bisogna comprendere la condizione sociale e quello che si dice l’«ambiente» in cui vive. Questo si può raggiungere coll’interessarsi delle questioni pubbliche che riguardano o entusiasmano in ispecie lo studente. Una di tali questioni, e momentaneamente la prima, è la Q.U. e l’interessarsene, tale partecipazione sarà in conflitto colla missione famigliare? Le donne se ne sono occupate, soccorrendo gli studenti carcerati, facendo atto di riconoscenza al prof. Lorenzoni ecc. Il passaggio da tale partecipazione che l’oratore chiama samaritana ad una partecipazione d’intelletto e di coscienza è naturale. Elevate, conchiude l’oratore, l’amore naturale, individualizzato, quasi egoistico per il figlio, il fratello ad amore di patria e nella loro fusione voi intendete la questione nazionale e più particolarmente la questione dell’istruzione nazionale. Ma v’ha di più: l’interessamento, la partecipazione della donna è non solo conciliabile colla sua missione famigliare, è anche richiesta da questa. E l’oratore porta ad esempio il recente sciopero scolastico. Quante madri seppero influire almeno sui ragazzi del V corso, o sulle ragazze (a Trieste, a Gorizia!) Eppure se si ragionava non c’era che questo dilemma: O tu vai a scuola perché non è lecito marinare la scuola, oppure: stai a casa e me ne assumo la responsabilità io ma lo sciopero, la protesta è non di scolari ma delle famiglie intere. Tali furono gli scioperi scolastici in Polonia, e ora in Boemia. Quante, venendo più in sù sanno dare un consiglio ai giovani universitari sui loro metodi di partecipazione? Tremano, ma non intendono. In secondo luogo la partecipazione della donna è richiesta dalla nostra causa nazionale. Non si tratta di politica nel senso triste di lotte faziose, ma di etnica, di esistenza. In questo cozzare di odi e di passioni non sarebbe bella la collaborazione conciliante della donna? Infine l’oratore tocca un motivo più egoistico e naturale cioè il fatto che la donna ha in gran parte già aperte le aule universitarie e le avrà di più per l’avvenire (Licei femminili). Il D.r Degasperi descrive poi per parti come va intesa la partecipazione della donna. Nessuno pensa alle esagerazioni delle suffragiste. Ma anzitutto la donna dovrà cercare di intenderla la Q.U. e di seguirne le manifestazioni pubbliche. In generale, rileva la necessità di una maggiore cultura politica. In secondo luogo col manifestare la sua opinione e i suoi voti in conferenze e petizioni, e qui si reca ad esempio la campagna delle donne italiane contro il divorzio, la lotta nazionale delle donne polacche e boeme, l’agitazione pro lavoratrici nella Francia. In terzo luogo la donna partecipa indirettamente alla Q.U. col suo influsso in famiglia. Femminismo ragionevole Alla fine della sua conferenza il D.r Degasperi affronta le obiezioni che si muovono in generale contro questo nostro femminismo ragionevole. Osserva che coloro i quali non sanno altro che esclamare: le donne badino alle calze e a cuocere il brodo, non vedono o non vogliono vedere l’evoluzione economica che ha costretto la donna ad occupazioni extrafamigliari. Sarebbe come dire ad un tessitore: Non imbrancarti come gli altri, ma attendi al tuo vecchio botteghino di casa. All’evoluzione economica è seguita parallelamente l’evoluzione intellettuale poi la trasformazione in senso democratico della vita pubblica. Non tener conto di tali avvenimenti anche in riguardo alla donna equivale a perdere la visione della realtà ed il terreno sotto i piedi. Si ha paura delle esagerazioni? Queste vengono evitate colla chiarezza delle idee e dei propositi e col buon senso delle donne trentine. In quanto al ridicolo di cui vorrebbero favorirci gli insipienti, serve a nostra consolazione il constatare che ogni cosa nuova ebbe in esso un avversario da superare. Per toccare un esempio vicino a noi, non si trovò ridicolo la donna-medico? Ed ora non c’è persona di buon senso che non si meravigli del fatto che per certe malattie si siano preferiti gli uomini alle donne. Infine che vogliono codesti parrucconi? L’oratore ricorda il lavoro del Moschino , dato recentemente al nostro Sociale. L’uomo era fervido propagandista delle idee socialiste e del libero amore e, coerentemente, viveva colla sua amante in una cosidetta «libera unione». La donna invece richiesta da un amico delle idee del suo compagno, risponde: Non ne so nulla: Io amo quindi ci credo e basta. Vogliono i parrucconi che la donna di fronte ai problemi moderni si riduca alla semplice ed incerta voce del cuore, senza badare alla testa? L’oratore conclude la sua desta e calzante dimostrazione, constatando che oggi in questa adunanza solenne per la prima volta viene affermato in modo categorico 1) il dovere della donna d’interessarsi della cosa pubblica, 2) la partecipazione della donna trentina alla lotta pro università. La nostra voce s’alzi e si diffonda solenne, sì che colui il quale domandasse dal Brennero: Chi sono i giovani, i vecchi, uomini, donne? si abbia una risposta: è la voce del popolo intiero, è la voce di tutti gli italiani! (Grandi applausi).
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
L’epoca nostra è essenzialmente politica. Lo stato ha assunto durante il secolo scorso un’importanza sempre maggiore, l’organismo civile è venuto assorbendo gran parte delle attività sociali, e, mentre il liberalismo ricacciava indietro passo passo la Chiesa, lo stato s’elevava a quasi unico arbitro del vivere sociale. Oggi, e forse non lo avvertiamo nemmeno, non v’è avvenimento di qualche importanza che non riferiamo per qualche riguardo allo stato, né si fa manifestazione pubblica che non termini con un evviva o un abbasso il governo. Certo noi che nella vita pubblica propugnamo i principi cristiani, tendiamo a riconquistare alla Chiesa un influsso maggiore ed infine noi, trentini, possiamo affermare d’aver dedicato gran parte della nostra opera pubblica ad associazioni e ad istituti, nati e venuti su indipendentemente dallo stato. Ma codeste sono correnti secondarie o eccezioni locali. La corrente primaria si muove intorno allo stato e il carattere del tempo è eminentemente politico. Constatato questo, l’ammettere che l’educazione politica della generazione nostra è assai progredita, dovrebbe apparir logico e naturale. Invece è tanto evidente il contrario che non è necessario ricorrere a faticose dimostrazioni. Tutt’altro! se eccettuate i politici di professione, conviene quasi ammettere che l’educazione politica di un individuo sia in proporzione inversa alla sua politica attività. Ora, politica bene o male ne vogliono far tutti. Lo stato, estendendo il diritto di voto a chi ha raggiunto ventiquattro anni ha formalmente segnati i confini della partecipazione politica, ma in realtà non sono codeste colonne d’Ercole, oltre le quali il mare sia intentato o intentabile. La gioventù s’occupa a preferenza di cosa pubblica e recentemente abbiamo avuto anche un saggio di politica lillipuziana d’ambo i sessi. Ebbene, provatevi un po’ a fare un piccolo esame a tutti codesti signori, e dirci se oltre l’assioma che il governo deve dar tutto e non dà niente e la vieta divisione dei partiti in rossi, bigi e neri vi sanno aggiungere qualche cosa altro. Nemmanco per sogno! Noi crediamo che in vent’anni si riderà della presente ignoranza politica e si troverà strano che noi figli del secolo delle invenzioni, nelle manifestazioni politiche ci siamo fermati alle formole del 79, esumate dal 48. Eppure è così. Quanti del partito socialista conoscono il socialismo, quanti liberali conoscono il liberalismo, quanti cristiano-sociali hanno un’idea chiara della riforma sociale cristiana? E badate che questi ultimi supereranno di gran lunga gli altri poichè il contenuto etico-religioso della loro politica viene insegnato dalla Chiesa. Ma gli altri? Si riconoscono in genere negativamente, in tanto in quanto non accettano o combattono il programma dei cattolici. Forse, opporrà taluno, ad un’età così vuota di principi in tutti i campi, si potrebbe perdonare facilmente la deficienza di principi nella vita politica. Concediamolo per un momento. Rimane il fatto che un enorme numero di coloro che fanno la politica, non conoscono l’oggetto di cui si tratta, ossia lo stato. Ciò vale anche per i nostri studiosi. Nelle scuole medie si conosce e si comprende senza dubbio la politeia greca, la legislazione di Licurgo o l’età di Pericle, ma non si ha un’idea dello stato in cui si vive. Ora, intensificando lo studio della patria, la riforma Marchet tende ad una specie d’istruzione politica; quei dati di statistica e quella storia, supponendo anche il loro valore scientifico, arriveranno però difficilmente a dare un’idea dell’odierno organismo civile; e rimane sempre probabile che quando voi chiedete ad uno studente alcunchè di leggi agrarie vi risponda citando quelle dei Gracchi piuttosto che la legislazione in argomento d’oggidì. Il peggio è che tale istruzione politica non s’approfondisce durante le scuole superiori. Fatta eccezione dei legali, gli altri studenti attingono di regola alle concezioni politiche della stampa quotidiana. E anche dei legali quanti studiano davvero i problemi politico-sociali che si agitano nello stato moderno? Orbene, questi sono i capi, gli intellettuali, i maestri del popolo. Qual meraviglia se le masse popolari si lasciano trascinare da frasi vuote, da parole d’ordine improvvisate da facili parlatori? Eppure oggi più che mai l’istruzione, lo studio della politica s’impone. Non si tratta più dei diritti dell’uomo, delle forme costituzionali, roba relativamente facile, si tratta di riforme sociali e di postulati essenzialmente economici. I partiti e la politica si economizzano (la barbara parola è ormai in uso). Dobbiamo perciò arrivare almeno a questo: che le classi colte conoscano la struttura economica dello stato e della moderna vita sociale, e che gli altri tutti siano in grado di seguire gli eventi politici con intelligente affetto. Abbiamo ieri esposto tali considerazioni, inaugurando a Trento con un gruppo di giovani amici un modesto corso di istruzione politico-sociale, e ci parve opportuno ripeterle qui per due motivi. Anzitutto perché gli amici fuori di Trento ove esiste un nucleo di forze intelligenti e volonterose si persuadano che il tempo consacrato a tale istruzione politica è dedicato ad una buona causa e urgentemente necessaria, in secondo luogo, perché gli amici tutti si ricordino del dovere tante volte affermato d’istruire politicamente il popolo nelle nostre società popolari in conferenze, in discussioni, trattando gli argomenti della pratica quotidiana. Né si dimentichino in questi giorni gli amici che a diffondere l’istruzione (se non l’educazione politica) è mezzo potentissimo la stampa. Diffondere la stampa, che propugna i propri principi, è influire sull’atteggiamento della politica d’oggi e determinare come sarà la politica di domani.
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1,908
3Habsburg years
11906-1910
Allorché la Banca Cattolica, inaugurando una nuova era per il Trentino, modificò i suoi statuti e decise con molto plauso di finanziare e costruire l’elettrovia dell’Alta Anaunia, uno fra i soci e precisamente il reverendo don Tabarelli, curato di Dro, fece la proposta che ella si occupasse altresì dell’elettrovia Trento-Riva. La Banca decise di assecondare sì giusto e bel desiderio, quando avesse compiuta la prima impresa. L’opera della Banca non ebbe però approvazione incontrastata nel passo decisivo da lei compiuto. Vi fu chi si fece a dimostrare che un istituto del suo genere non avrebbe dovuto mettersi in tali imprese e a questo scopo consumò non poca carta ed inchiostro. Ma l’opinione pubblica, anche in campi diversi dal nostro, esprimevasi ben diversamente, ed ecco che un bel dì, proprio con la cooperazione di chi aveva sollevato tutte quelle obiezioni finanziarie, ecco uscir la proposta di dar tosto mano alla Trento-Riva, o meglio ai suoi preparativi, interessandovi anche la Banca Cooperativa che con ciò avrebbe seguito il non lodato esempio della Banca Cattolica. Questa, non gelosa che altri volesse prevenirla, prese anzi parte non indifferente né inutile all’avviamento dell’opera e promise il suo appoggio finanziario, quando la Cassa di Risparmio e la Cooperativa avessero fatto altrettanto. Senonché questi istituti non corrisposero, anzi il tentativo di far concorrere la Cooperativa suscitò fra i soci, specialmente delle vallate, dispareri e contrarietà che ebbero delle ripercussioni anche nella stampa. Mancando con ciò le condizioni chieste dalla Banca Cattolica, questa si ritirò, lasciando fare agli altri, i quali però per tirare acqua al loro molino, sostenevano essere ancora valevole l’impegno dalla stessa assunto e si valevano del primitivo e condizionato suo conchiuso, per sostenere la finanziazione ideata, alla quale era venuta a mancare ogni base. Tale atteggiamento, non certo superiore ad ogni critica, provocava una chiara e dettagliata esposizione delle cose, fatta sul nostro giornale, dalla quale ognuno poteva vedere il vero stato della questione. Intanto vennero le elezioni politiche del 1907 con l’esito che tutti sanno. I deputati popolari, appena entrati in Parlamento, pensarono che si doveva dar subito mano alle faccende ferroviarie, tanto trascinate a lungo nel nostro paese, e credettero che la prima ferrovia alla quale si potesse dar mano, fosse quella delle Giudicarie, con una diramazione da Sarche per Riva. In tal senso gli onorevoli mons. Delugan e Tonelli, con l’appoggio di tutti i colleghi, presentarono ancor nel luglio dell’anno scorso una proposta di legge che poi fu passata senza prima lettura alla rispettiva commissione. Così, finalmente, la questione era posta nei veri suoi termini. Giacché, ciò che maggiormente interessa è dare alle Giudicarie una comunicazione coi centri, cioè con Trento e con Riva, mentre Trento e Riva sono già congiunte fra di loro. Con quanta serietà e quanto zelo i deputati popolari proseguissero il loro proposito, apparve nella scorsa primavera, quando con una celerità, mai conosciuta nei tempi addietro nel Trentino, essi ottennero dal ministero delle Ferrovie la dichiarazione scritta che, adempite le solite condizioni, il Governo era disposto a contribuire all’esecuzione dell’impresa con 4.000.000 corone in azioni di fondazione, giusta il piano di finanziazione, molto più vantaggioso per il paese, proposto per questa nuova ferrovia delle Giudicarie dalla deputazione popolare. Il Governo rendeva però attenti che contro il tratto Arco-Riva c’erano forti opposizioni da parte della compagnia Schwarz ed accennava altresì ad opposizioni di Riva stessa. Che quest’ultime vi siano state in qualche stadio della faccenda, risulta chiaro a chi lesse lo stesso comunicato, spedito di recente dal Podestà di Riva ai giornali, e a chi abbia letto la chiusa che l’Alto Adige giorni fa, poneva alla relazione dell’ultima seduta del Comitato Trento-lago di Garda, chiusa che espressamente ricordava le difficoltà che il Comitato dovette vincere contro quella città. Il Governo faceva intendere oltre a ciò, che fino a tanto che le cose fossero restate in mano a comitati, e comitati diversi, la conclusione si sarebbe protratta, che esso intendeva anzitutto favorire e appoggiare la congiunzione ferroviaria, affatto mancante, fra Tione e Trento, e che la sua sovvenzione non poteva venir concessa che a un’unica impresa, e che la diramazione doveva limitarsi dalle Sarche ad Arco, finché non fossero superate le difficoltà per il proseguimento fino al lago di Garda. Perciò i deputati popolari si rivolsero alla Banca Industriale, sorta sul finire dello stesso anno, per interessarla nella finanziazione di un’impresa condotta secondo questi criteri e trovarono piena corrispondenza. La Banca Industriale avviò e conchiuse anzitutto le sue trattative col Comitato Giudicariese, quindi con quello della Trento-lago di Garda, di fronte al quale, nell’interesse delle Giudicarie e dell’impresa sostenne l’unicità della stessa e chiese di avere nella finanziazione la preponderanza del capitale in azioni di fondazione come colei che, essendosi già assunto il tronco più difficile, più costoso e da sé solo non rendibile, aveva speciali interessi da salvaguardare. Il Comitato Trento-lago di Garda non volle entrare in quest’ordine d’idee ed elaborando un nuovo piano di finanziazione, criticato anche per altri riguardi, faceva assegnamento sul contributo dello Stato, benché legato all’impresa unica e su quello della provincia, ottenuto intanto dai deputati alla Dieta, ed anche esso espressamente legato a tale condizione. In altre parole il Comitato Trento-lago di Garda presentava un secondo piano, mancante di base, ossia dei quattrini che in tali cose sono il nervus rerum giacché né lo Stato, né la provincia, né i deputati erano disposti a recedere dalle condizioni messe ai pubblici contributi, e messevi non a capriccio ma per il vantaggio delle Giudicarie e della ferrovia. La Banca Industriale, vista la piega della faccenda, aveva chiesta frattanto e ottenuta la concessione di fare per conto suo gli studi del tronco Trento-Sarche-Arco. Il Comitato dichiarò che questa non era che una mossa per esercitare su di esso una pressione, mossa di cui punto si sentiva impressionata. Ma le cose erano invece più serie. I deputati interessati nella questione ferroviaria, e che erano stati sorpassati dal Comitato Trento-lago di Garda, quando aveva convocata un’adunanza dei comuni per presentare ad essi il poco fondato finanziamento testè ricordato, chiamarono anch’essi i comuni a sentire come stava davvero la questione; e la Banca Industriale, mentre rendeva pubblici in tale occasione i documenti relativi a tutte le sue trattative col Comitato giudicariese, con quello di Trento e coi deputati, dava ancor quel giorno principio ai lavori di rilievo per il tronco da Trento verso il lago di Garda. Con ciò le cose prendevano tutt’altra piega. Il Comitato di Trento si convinse alfine della realtà e con l’intervento dell’on. Conci cedette tutto il suo operato alla Banca Industriale, ché così fu esonerata dal fare nuovi studi, che avrebbero resi inutili il lavoro e le spese dei primi. Il Comitato Trento-lago di Garda, chiamando a nuova adunanza i comuni, per comunicare loro l’avvenuto, – e questa volta invitò anche i deputati – credette bene di distribuire anch’esso un opuscolo di documenti commentati. Fra essi tanto perché le cose serie abbiano anche il lato ricreativo ed esilarante – inserì una comunicazione della Giunta provinciale, con cui il barone Sternbach partecipava al signor Tomasi «quale presidente della Trento-Sarche-Tione e Sarche-Riva» che la Dieta aveva concesso allo stesso un contributo in azioni di fondazione di un milione e 200.000 corone. Si vede che l’assessore Sternbach ha firmato senza sapere o senza leggere. Né il signor Tomasi fu mai presidente di un Comitato per la Trento-Tione, né fu concesso un contributo per una linea fino a Riva, ma, per ora, fino ad Arco. Cose tutte arcinote al Comitato di Trento, che dovette fare le grasse risa di quella partecipazione, ma finse di prendere sul serio quegli strafalcioni, e li commentò con grave posa! E, per dirne un’altra, negli stessi documenti commentati si designa l’adunanza che i deputati – poco cortesemente e meno convenientemente sorpassati dal Comitato – convocarono ai 21 novembre a Vezzano per chiarire ai Capi Comune le faccende, «tutto un’astioso attacco all’azione del Comitato». Tali espressioni si condannano da sé. Nulla poi diciamo di certi articoli sguaiati ed offensivi dell’Alto Adige. Non meritano alcuna risposta, e l’onore dei deputati non può venir intaccato da chi scrive in quel modo. Ma, lasciando questi intermezzi che ormai appartengono al passato e all’oblio, noi ci rallegriamo dell’esito il quale assicura alle Giudicarie la loro congiunzione con centri importanti e ne salvaguarda i legittimi interessi, e non neghiamo nemmeno al Comitato Trento-lago di Garda la soddisfazione di aver elaborato parte del progetto complessivo, benché non ne abbia mai assicurata la finanziazione, senza la quale ogni progetto rimane di carta, ma a cui rivolsero con esito finora felice tutte le cure quei deputati e quegli istituti che l’Alto Adige con assiduo amore di patria critica e condanna con tutte le arti e con tutti i pretesti. Ed ora, chiuse le polemiche e fatto un bel passo innanzi, auguriamo sollecita attuazione all’opera.
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11906-1910
Quando giovedì a mezzogiorno noi facemmo uscire il nostro giornale, non più ci restava – oggi possiamo dirlo – nemmeno un’unica speranza che la pace tra l’Austria e la Serbia sarebbe ancora durata, se non ci illudevamo di dover nel prossimo numero, oggi, annunziare qualche triste nuova. La situazione era così grave, così terribilmente logica ne veniva la guerra, come unica via d’uscita che si imponeva ormai all’Austria per forza di circostanze, che non si sarebbe potuto immaginare – data l’ostinazione della Serbia – una soluzione pacifica. E tutto ciò sentiva anche il pubblico, il quale sia per le informazioni dei giornali, sia per altre ragioni più o meno probatorie era nervosissimo e assai impressionato, dominato da quel terrore che si prova di fronte ad un pericolo che si sente vicino e di cui non si conosce precisamente la gravità e la portata. Fortunatamente verso le tre del pomeriggio un telegramma ci arrecava un raggio di luce. Si poteva sperare ancora. Il telegramma, che esponemmo subito per tranquillizzare il pubblico e che fu letto da centinaia e centinaia di persone che si avvicendavano con trepidante curiosità, ci segnalava la proposta di Tittoni per la conferenza europea sulle basi del punto di vista austriaco, e la lieta accoglienza che il passo del duca D’Avarna aveva ottenuto a Vienna. Il «pianoforte stonato» serviva dunque ancora, la Triplice funziona, e essendo la sua una missione di pace in Europa, è lecito sperare che anche questa volta riuscirà a mantenerla. La proposta italiana è in linea formale la risposta della Consulta a una nota, inviata dall’Austria-Ungheria a tutte le potenze firmatarie del trattato di Berlino per renderle edotte della conclusione del trattato austro-turco, (una specie di atto di compra-vendita della Bosnia, pagata con 55 milioni di spese dirette e alcune centinaia di milioni di indirette), nel quale, com’è noto l’Impero ottomano riconosce i «fatti compiuti». Alla comunicazione dell’Austria, l’Inghilterra aveva risposto prendendo atto del protocollo stesso, con la riserva delle future decisioni della Conferenza, che eventualmente venisse convocata, circa le questioni sulle quali fosse raggiunto un accordo preliminare fra le potenze. La Russia a sua volta aveva risposto confermando la necessità della riunione della Conferenza e le proprie disposizioni per intendersi con l’Austria- Ungheria e le altre Potenze circa la riunione della Conferenza stessa. La Conferenza europea faceva dunque capolino di nuovo. Ma mentre l’Inghilterra l’affacciava soltanto come un’eventualità, la Russia insisteva per la convocazione stessa ed i suoi lettori ricorderanno che quest’insistenza fu già nei passati mesi causa di conflitto diplomatico tra la Monarchia e la Russia, appunto perché questa vorrebbe la conferenza per discutere i fatti compiuti. L’Austria invece sempre dichiarò – ed ebbe dalla sua anche la Germania – di essere favorevole alla Conferenza che discutesse di tutto fuorché della Bosnia che deve restate fuori discussione. Ed ecco che Tittoni, rispondendo come si è detto alla circolare austriaca, fa precisamente la proposta gradita, la quale si può riassumere così: In seguito agli accordi austro-turco e turco-bulgaro, e in seguito all’ultima nota serba alle Potenze, la questione della Conferenza è matura e se ne potrebbe tracciate così il programma: Esame e sanzioni delle questioni già risolte e cioè, l’accordo turco-bulgaro e l’indipendenza della Bulgaria; l’accordo austro-turco. A questi due punti si dovrebbe aggiungere la revisione dell’articolo 29 del trattato di Berlino che si riferisce alle limitazioni imposte al Montenegro per il possesso del porto di Antivari. A Vienna, come già ci annunciava il nostro telegramma l’idea di Tittoni fu accolta con grande favore. I giornali, anche quelli notoriamente in relazione coi ministri, la commentarono con compiacenza. Caratteristico, per esempio, è quanto dice, il Pester Lloyd, sempre bene informato: «La proposta dell’on. Tittoni va esaminata più dettagliatamente e simpaticamente di quella russa e inglese. In essa i risultati politici degli scorsi mesi sono raggruppati in modo logico. Ciò che nella nota inglese viene elasticamente chiamato accordo preliminare appare nella proposta italiana molto più precisamente espresso quale fatto compiuto a cui occorre solo una sanzione formale. La questione serba rimarrebbe esclusa dalla Conferenza e ciò perché le mancano tutti i presupposti necessari a sottoporla alle competenze delle Potenze. La proposta italiana risolve con lo stesso criterio la questione bulgara. Rimane il terzo punto cioè il regolamento dell’articolo 29 del trattato di Berlino. I desideri del Montenegro per l’abrogazione della sorveglianza di polizia e sanitaria nel porto di Antivari, potrebbero formare oggetto di scambio di vedute, prima della Conferenza, fra Vienna e Cettigne. Aehrenthal ha già dichiarato alle delegazioni: Non essere alieno, sotto certe condizioni, dall’accogliere i desideri montenegrini. Dato tutto ciò – continua il giornale – la proposta italiana appare la strada più praticabile per avviarsi alla Conferenza e va raccomandata all’esame delle Cancellerie. Essa tocca il nocciolo del problema, cioè che la Conferenza non abbia compito che quello di prendere atto di mutamenti avvenuti nei Balcani». Anche in tutte le altre capitali l’annunzio della proposta italiana produsse subito un gran senso di sollievo. All’estero non si presentiva la guerra come da noi quasi istintivamente, all’estero, essendo conosciuta perfettamente la situazione, se la vedeva venire chiaramente, inesorabilmente. Da ciò una grande inquietudine nei circoli più interessati e il piacere quando si poté intravvedere una speranza. Si cominciò subito a giudicare più ottimisticamente. Al programma ridotto della Conferenza, acconsentirebbe – come si telegrafa da Londra – anche l’Inghilterra. Si crede che le Potenze dichiareranno chiusa la questione dell’annessione invitando la Serbia a fare altrettanto. Siccome il desiderio di questo passo collettivo a Belgrado venne ripetutamente espresso dal Gabinetto di Vienna e le Potenze tergiversavano non sapendo quali garanzie potesse offrire la Serbia, è probabile che la nuova attitudine sia stata facilitata da assicurazioni austriache. Nei circoli inglesi si ritiene che l’Austria accetterà l’immediata convocazione della Conferenza se le Potenze indurranno finalmente la Serbia a rinunziare esplicitamente alle proteste di compensi e a congedare i riservisti. Egualmente a Berlino la proposta italiana riguardo alla Conferenza, contribuisce ad accrescere le speranze nella soluzione pacifica. «Un’impressione assai gradevole – dice stasera l’ufficioso Lokal Anzeiger – ha fatto la proposta italiana che può essere una base utile per l’idea della Conferenza. Frattanto continuano con zelo le trattative tra i Gabinetti di tutte le Potenze cosicché pare sperabile di poter evitare all’ultima ora una catastrofe». Della risposta di Parigi non si sa nulla perché la città è presentemente tagliata fuori dal consorzio civile, in causa dell’immenso sciopero telegrafico e telefonico. Contemporaneamente da un dispaccio ufficiale si apprende che secondo informazioni da fonte diplomatica autorevole, quattro Potenze (cioè aggiungiamo noi, Francia, Inghilterra, Italia, Germania) interverranno ancora pacificamente a Belgrado e faranno comprendere alla Serbia che nel caso di una guerra essa sarà completamente isolata e non potrà aspettarsi aiuto da nessuna parte. I rappresentanti delle quattro Potenze attendono precise istruzioni. E si assicura che la Serbia non rimarrà insensibile a queste premure. Le conseguenze? Questa intanto, ed è importantissima: mentre prima era stabilito che oggi l’Austria avrebbe presentata a Belgrado la sua seconda richiesta che avrebbe avuta sostanza se non forma di ultimatum, si differisce invece a mandare questa nota di tre o quattro giorni, lasciando quindi ancor libero il campo delle trattative. Di guerra per il momento non si parla, la diplomazia spera, e se le cose vanno bene forse si potrà evitare il conflitto con la Serbia, quasi di certo quello con la Russia. Ed è questo che interessa maggiormente.
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11906-1910
Dobbiamo dare oggi una notizia molto grave e molto triste. La Banca Industriale nelle trattative cogli organi dello Stato per la finanziazione della tramvia giudicariese si trova imprevedutamente di fronte ad ostacoli nuovi che minacciano non solo di mutare essenzialmente la situazione della costruenda ferrovia Trento-Tione-Lago di Garda, ma anche di compromettere tutto un programma di risorgimento economico con carattere indigeno e nazionale. Da Vienna cioè si è fatto sapere ai rappresentanti della Banca Industriale che il Governo intende di avocare a sé l’esercizio della ferrovia giudicariese, non concedendo agli enti trentini che ... la fatica e la spesa di costruirla. La notizia non è ancora ufficiale né formalmente confermata. Abbiamo però tutte le ragioni di temere che essa sia tutt’altro che campata in aria, poiché il fattore che qui ha messo la spada sulla bilancia è l’amministrazione militare. Pare accertato che al ministero delle ferrovie sia giunto il monito da parte del ministero della guerra che, in vista dell’importanza strategica della ferrovia in parola e delle condizioni speciali del Trentino, la linea Trento- Tione-Lago di Garda debba essere assolutamente in mano dello stato, escludendo una direzione ed un’amministrazione autonoma trentina 1). È dunque la solita politica di diffidenza e di sospetto che si rivolge contro di noi, è lo stato poliziesco e militare che grava sulle iniziative e sulle imprese trentine la sua mano di ferro. Ma al monito militare sembra si sia aggiunto anche l’eccitamento del ministero degli interni. Che cosa vuole questo? Non lo sappiamo, bensì intendiamo quello che non vuole. Non vuole che nel Trentino sorga una amministrazione ferroviaria autonoma ed indigena e che si costituisca una cellula della nostra indipendenza economica negataci con pertinacia secolare. Non vuole che le nostre linee di comunicazione siano dirette da Trento, invece che da Vienna, che i loro impiegati siano trentini, che nella lingua d’ufficio e nelle scritte s’insinui quel carattere indipendente e nazionale che s’è visto tanto mal volentieri – anche questo si seppe dire – sulla Dermulo-Mendola. È il nostro sviluppo autonomo in poche parole che deve essere impedito, soffocato, poiché il regime poliziesco non si fida di noi. Come negli uffici pubblici gli italiani sono buoni a sbrigare gli affari, ma a dirigere debbono essere chiamati tedeschi o slavi, così è delle ferrovie, arterie della nostra vita economica. Ben può contribuire alla loro effettuazione il Trentino coi suoi danari e i suoi ingegni, ma ad esercitarle, a dirigerle vengono mandati gli Oberinspectoren e gli Hofräte coll’incarico di vegliare, affinché sulle scritte o nei registri appaia manifesta ed intatta l’egemonia tedesca e negli impiegati, negli addetti, nell’amministrazione non passi neppur l’alito di quello spirito nazionale cui le leggi dello Stato concedono pure libero campo. Ma v’ha di peggio; tali misure imprimono una profonda traccia nella nostra vita economica. Il nostro capitale fu finora inoperoso e non seguì che in piccola parte ed a grande stento la via delle industrie. E benchè ora l’opinione pubblica, per il sano ardire di pochi, incominci a riprendere coraggio, ci sono ancora troppi (bastava leggere ultimamente la corrispondenza di un anaune su di un giornale cittadino) che lodano l’immobilità dei bei tempi antichi. In così fatta situazione sarebbe dovere dello Stato di incoraggiare la speculazione del capitale; e tale suo compito si impone specialmente nelle imprese ferroviarie, ove lo Stato sovvenzionandole coi suoi contributi in azioni di fondazione facilita ai fattori locali e privati la partecipazione loro in azioni di priorità. Ma dove si troveranno le banche o i privati che daranno da amministrare allo stato che è notoriamente l’amministratore meno parsimonioso che esista? Come potrà venir invitato il capitale trentino a costituire delle imprese su cui distende le sue fredde ali la burocrazia, così poco amica delle nostre sorti, così poco curante del nostro carattere, così ignara dei nostri bisogni? E con tali prospettive che cosa avverrà delle altre ferrovie progettate, che cosa avverrà della ferrovia di Fiemme? Non bastava dunque corteggiarci in una misura addirittura vergognosa nel progetto di legge delle ferrovie locali, fucinando nel segreto del ministero una sproporzione inaudita fra italiani e tedeschi della provincia, non bastava trattare la Ferrovia Dermulo-Mendola col bisturi della vivisezione, loro così esatti, così scrupolosi col tempo e coi denari nelle imprese in propria regia (vedi i Tauri e Trento-Malè), bisognava ancora versare sull’energia delle nostre forze vive l’acido corrosivo della suspicione statale e del veto militare! Disgraziato paese il nostro, che quando ha trovato un uomo, come il Beck, che ne riconosce i bisogni e il buon diritto a un trattamento migliore, minaccia di precipitare di nuovo in fondo per tutti i gradini saliti faticosamente. Ma noi – ci piace qui ripetere l’assicurazione fatta ier l’altro dall’on. deputato della Valsugana, non verremo meno, non abbandoneremo il campo della lotta. Chi spera col diniego e colle ostilità di ricacciarci nella scoraggiata inerzia dei tempi passati, non conosce la nostra tempra. Gli uomini della nostra scuola in tempi tristissimi hanno concentrato tutte loro energie nella creazione di istituti autonomi che rappresentano una forza organizzata che non morrà. Queste creazioni sono monumenti di quello che abbiamo fatto per il popolo a garanzie di quello che sapremmo fare, se anche gli enti pubblici compissero il dover loro. Imperturbati, continueremo l’opera nostra, fino che ci brilla la speranza di sollevare il nostro povero popolo dimenticato, fino che ci rimane la fiducia nelle energie del popolo trentino, ancor non dome. E tale spirito di faticosa costanza dominerà anche la politica del partito popolare. Non noi cadremo in braccio ad una politica che sotto il rumore di frasi roboanti nasconde la comodità e la viltà dell’inerzia; noi terremo testa agli avversari e vincitori e indietreggianti, cercheremo di strappare colla diuturna fatica anche una minima parte del tutto che è nostro buon diritto, una briciola di quel pane che ad altri viene largamente concesso. Sappiamo che tale contegno non piace né agli uni né agli altri: né a coloro cioè che propugnano senz’altro l’opposizione per l’opposizione, noncuranti della sua sterilità e delle urgenze popolari, né a coloro che ci vorrebbero più pieghevoli inanzi al feticcio delle cosiddette «ragioni di stato». Ci rincresce, ma il partito popolare non intende di mutar metodo: gli interessi morali e materiali del popolo e del Trentino inanzi a tutto. Chi li appoggia e quando li appoggia è nostro amico, viceversa, è nostro avversario. No, tale politica non ha fatto bancarotta o tribuni del Popolo; sarà la politica meno facile, non sarà politica da ciarlatani, ma è l’unica politica reale possibile nel nostro paese ed è quella che finora ci ha recato vantaggi maggiori. In quanto allo Stato, pensino i suoi reggitori se la sua sullodata condotta sia atta a cattivargli o a mantenergli gli animi. Può accadere, lo concediamo, che il nostro partito in mezzo agli opposti flutti – non oggi, che non ne ha voglia davvero, ma domani, in un avvenire lontano, soggiaccia e faccia naufragio. Nel qual caso si ricordino i governanti: aprè, nous le de luge! 1) L’«Armeezeitung», giunta ieri, accenna anche alla straordinaria importanza strategica della ferrovia e ricorda in proposito come per suo mezzo le splendide operazioni del gen. Kuhn del 1866 riuscirebbero ora di gran lunga più semplificate.
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11906-1910
INNSBRUCK, 15-16 mezzanotte Suona la mezzanotte... arrivederci, onorevoli: buon riposo! La maggior parte di voi, se l’è meritato davvero; anche questa giornata di esercizi algebrici, di discussioni senza conclusione, di contrasti senza tregua è finita. Ed io mi metto a tavolino, riprendo in mano i vostri calcoli, le proposte e le contro proposte e provo a tirare le somme. Ehm! Il risultato non è consolante, in fede mia. La volete detta in due parole, amici del Trentino? –: Sotto zero! Quando stamane sono corso al telefono, avevo ancora negli orecchi l’energica voce del D.r Gentili che nella commissione scolastica rinfacciava ai tedeschi la loro colpevole inconseguenza e dimostrava la logica chiarezza della posizione degli italiani. Nella passata sessione la commissione scolastica votava a maggioranza di voti che l’aumento delle spese venisse riversato sulla provincia o che la chiave della ripartizione della spesa fosse: provincia 70%, distretto 12%, comuni 18%. Gli italiani con ciò avevano impedito un aumento degli aggravi sui comuni e sui distretti. Fin d’allora i rappresentanti nostri dichiaravano che codesta era per loro una conditio sine qua non... Ma i tedeschi mutarono parere; e pretesero al principio della presente sessione che la ripartizione venisse fatta secondo la vecchia chiave del 50, 30 e 20%, ossia che parte notevole dell’aumento andasse a pesare anche sui comuni. Gli italiani si richiamarono al voto della commissione scolastica e tennero duro. Sorse allora l’idea dei circoli e, susseguentemente, che intanto si facesse un tale aumento cui potesse sottostare la provincia sola. A questo principio è dovuta la comparsa di un provvisorio. Il messere vi è già stato presentato in tutta regola. Il provvisorio non è una legge, ma una semplice proposta di sovvenzione, che, appunto perciò, non abbisogna né di tre letture né di sanzione, e determina un certo aumento passeggero ai maestri, fino alla votazione della novella. Non essendo una legge, non può quindi modificare un’altra legge, né stabilire oneri su terzi, ossia, nel caso concreto, sui distretti e sui comuni. Era quindi troppo naturale che il provvisorio fosse tutto a carico della provincia, come grava sulla provincia ogni altra proposta di sovvenzione o di contributo, e così intese anche la commissione del bilancio che in conformità a tale criterio elaborò il coprimento, ossia le proposte di nuove tasse. Quand’ecco oggi un nuovo mutamento di scena: i tedeschi pretendono che anche le spese richieste dal provvisorio scolastico vengano divise sui tre noti fattori colla vecchia chiave. Gentili bollò con parole di fuoco la mancata parola dei tedeschi e richiese una espressa dichiarazione intendano votare perché le spese del provvisorio vengano pagate dalla provincia o meno. E i tedeschi, quantunque il rappresentante del governo desse ragione a Gentili, risposero di no. Il d.r Pinalli rilevò la contraddizione fra l’inviolabile unità della provincia e la divisione territoriale delle spese; nulla valse a smuoverli dalla loro posizione... E così si andò a pranzo. Ma non s’era ancora fatta la digestione, che ritornò sul tappeto il definitivo. Sono in specie i tedeschi dei comuni rurali che dicono: «Bisogna farla finita una buona volta: non ripetiamo l’errore del 1903». E si ricomincia a far conti. Il problema suona: Quale aumento è possibile alle attuali forze della provincia, e come deve essere ripartito, perché i distretti e i comuni italiani non vengano ulteriormente aggravati? L’intiero pomeriggio si rimisero in moto di nuovo tutte le leve, si studiarono un’altra volta le tabelle, si fecero sottrazioni, si tirarono le somme e... si ripassò il «ponte dei sospiri». Intorno alle cifre totali la discussione riprese più forte. E il risultato?... Che si discute ancora, o meglio la seconda autosconfessione dei tedeschi, dovuta nuovamente alle arti dei conservatori e dei liberali, ha ricacciata la nave in alto mare e reso più che mai dubbio se la nave o almeno qualche tavola potrà salvarsi dal naufragio. Forse la giornata di domani porrà un termine triste o lieto, a tanti dubbi ed incertezze. Sta bene però rilevare che, quando stamane don Gentili accentuava la condotta logica e costante degli italiani, sia riguardo alla novella, sia riguardo al provvisorio, anch’essi sono pronti a votare nella forma in cui la prima fu accettata in autunno dalla commissione scolastica e il secondo da questa e da quella del bilancio, mentre i tedeschi si aggirano in continue contraddizioni, un deputato delle curie privilegiate francamente ebbe a dire: «Gli italiani tennero una condotta ammirabile per la sua coerenza; avessero fatto altrettanto e sempre i tedeschi»!
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11906-1910
Venerdì veniva pubblicata in varie classi del ginnasio l’inflizione ad alcuni studenti di parecchie ore di reclusione e di carcere, perché accusati di fare parte di una società formalmente costituita e perché in un luogo pubblico avevano preso parte a dei ritrovi o a delle conferenze . Per una mezza dozzina di studenti la pena suonava gravissima: 16 ore di carcere rigoroso, ossia la pena massima che precede immediatamente l’espulsione dal ginnasio, con le solite eventuali conseguenze: conforme di contegno sull’attestato, pagamento delle tasse, messi in pericolo gli stipendi, e così via, con la prospettiva che la minima trasgressione punibile che seguisse causerebbe la espulsione. Questa pena venne applicata a degli scolari che in buona parte avevano avuto finora contegno irreprensibile, né erano classificati per negligenti o tardi nel progresso degli studi. Ricorso e sospensione Non è quindi meraviglia se i genitori e i rappresentanti dei colpiti presentarono formale ricorso all’autorità scolastica superiore, chiedendo una revisione della sentenza, tanto più che, se le nostre informazioni sono esatte, tali gravissime pene vennero inflitte a qualcuno anche in contumacia, basando la condanna su di un notiziario scritto da qualche studente e capitato in mano ad un professore. Il ricorso, come ci venne riferito, si fonda sull’asserzione che una società costituita non esisteva e che i ritrovi di un esiguo numero di studenti a scopo letterario e di coltura si fecero in forma privatissima ed in un luogo privato e non pubblico . Ma i ricorsi dei padri di famiglia e dei rappresentanti non parvero avere forza sospensiva, poiché sabato mattina dopo una conferenza straordinaria del corpo docente, un professore poteva annunziare in una classe che nonostante tutti i loro discorsi, gli studenti dovevano senz’altro incominciare la pena nel dopopranzo (4 ore di carcere), per continuare all’indomani (ore 8), scontando il resto mercoledì. Tuttavia pochi momenti dopo il direttore faceva annunziare che l’esecuzione della pena veniva sospesa dall’autorità superiore che riservavasi di rivedere il processo. Questo il fatto nella sua veste ufficiale. La «journaille» Ogni galantuomo, giudicando spassionatamente, non troverà punto strano, che di fronte a formali ricorsi di genitori e di rappresentanti che impugnano così radicalmente una sentenza e i risultati di un’istruttoria, si riservi di rivedere e di prendere definitivamente posizione, trattandosi anche di una condanna con conseguenze gravi. Ogni procedura, ogni giudicatura lo richiede, il buon senso e quello della giustizia lo richiamano. Invece parte di quella che si dice con un neologismo felice la «Journaille», ha sollevato un frastuono del diavolo ed ha inaugurato una rumorosa gazzarra, levando altissime grida d’allarme e di protesta. Forse in favore degli studenti, forse contro i rigori ritenuti eccessivi? No, no; certa stampa radico-liberalesca s’agita e schiamazza, perché gli scolari non sfuggano a tutto il rigore di uno statuto letteralmente interpretato, perché nessuno osi interporre la sua parola in favore dei puniti. Tutto il vocabolario degli epiteti ingiuriosi, delle parolone di biasimo e di disprezzo che i nostri gazzettieri portano in tasca, ritorna in uso. I fatti sopra descritti e che condussero all’accennata sentenza, vengono designati come «un grosso scandalo», «un fatto enorme», «un fatto mostruoso», «uno scandalo vergognoso». Perché? I lettori, che conoscono già da un pezzo la diagnosi della nostra vita pubblica, hanno già indovinato. Gli è che i convegni incriminati si tenevano in un locale del... palazzo del Comitato diocesano (uh! uh!) e che ci aveva le mani in pasta uno studente dell’Associazione universitaria cattolica . Vestigia terrent! La «Journaille» s’avventa con le bramose canne sul manipolo studentesco e ne fa scempio sfogando la sua rabbia contro i clericali. Seguiamo le mosse dei nostri farisaici avversari. Chi lancia la bomba Da Trento una «persona che, per la sua posizione, e per la sua serietà, è degnissima della massima fede» manda al Messaggero ancora giovedì 11, cioè il giorno in cui ebbe luogo la conferenza dei professori e il giorno prima che la cosa, mediante la promulgazione della pena divenisse pubblica, la notizia del «grosso scandalo» con l’importante particolare che nella seduta dei professori s’era fatta una larga distribuzione di pene. Si aggiungeva poi, a mo’ di commento un grottesco sfogo di farisaica indignazione. Leggete e inorridite, o uomini dell’ordine, o purissimi legalitari (Messaggero 12 febbraio). Il fatto è «così enorme, lo scandalo così grave che i nostri commenti, per quanto acri, non significherebbero mai tutta l’indignazione della gente onesta di ogni partito». E più sotto: «Non si tratterebbe più dell’anticlericalismo ma bensì di una doverosa e necessaria reazione alle malearti dei clericali che non s’arrestano nemmeno di fronte a ciò che è proibito dalla legge, vale a dire a coartare, a ipotecare con arti degne del più schifoso meretricio, le coscienze giovanette ed ignare dei nostri figli affidati alle scuole». E si concludeva col protestare che i buoni figlioli «vengano da speculatori di coscienze iniziati ad una scuola di odio settario, mentre loro sorride la vita e i sogni puri dell’avvenire»! Illico et immediate Il giorno dopo sul medesimo giornale la «persona che per la sua posizione e serietà, ecc.» si dà l’aria di confermare la notizia aggiungendo ancora che la punizione era stata sospesa illico et immediate (che professorone di latino codesta autorevole persona!). Il roboante commento termina poi con codesta schiacciante apostrofe, a noi diretta: «E con voi condanna tutto un sistema di propaganda odiosa che, se può servire alla vostra sete di predominio, non può a meno di indignare quanti hanno della scuola un più alto concetto della politica un più retto fine e della coscienza del paese un più doveroso rispetto». Intanto la bomba scoppia anche a Trento. Il Popolo parla delle «male arti dei neri» che adescano nelle loro trappole i giovani, ma almeno – e questo va notato – scrive: «Ecco come andarono le cose. Le leggi disciplinari, che sono un parto del clericalissimo consiglio scolastico provinciale tirolese, impediscono agli studenti di far tra loro associazioni di qualsiasi genere. Il che non toglie che associazioni più o meno solide, ogni tanto si facciano. Le leggi ci sono anche per essere... non rispettate. Chi scrive ricorda di esser stato durante gli anni del ginnasio partecipe di parecchie società fra studenti ed anche di una che pubblicava settimanalmente un giornale poligrafato! Diciamo questo per esprimere senza reticenze il nostro pensiero, che è contrario oggi, come lo era quando studiavamo il latino al rigorismo e al reazionarismo delle norme disciplinari cattolico-tirolesi». Rettifichiamo di passaggio che l’ordinanza a cui fanno richiamo le relative norme disciplinari è del 1873, anno in cui un ministero eminentemente liberalesco macchinava tutte le leggi di repressione contro i cattolici e la loro Chiesa; ma va poi avvertito come il giornale socialista riduca il crimine che sollevò tanti ipocriti sdegni a qualche cosa che si ripete «ogni tanto». Il signor «alcuni studenti» Ma, ora viene il meglio. L’«Alto Adige» di venerdì sera comincia un articolone di grosso calibro col riprodurre letteralmente il cavallo di ritorno del Messaggero, spedito a Rovereto dalla persona autorevole. A conferma fa seguire le proprie informazioni che finge d’aver avuto da «alcuni studenti». Codesti signori «alcuni scolari» hanno da essere infatti degli informatori preziosissimi, poiché ritengono di sapere perfino che la decisione di non aspettare l’esito dei ricorsi, ma di procedere immediatamente all’esecuzione della pena, venne presa dai professori, in seduta segreta ad unanimità di voti. O impiccarli o la vedremo! Segue anche qui l’invettiva finale, concludendo con una minaccia, che viene a dire: «o me li impiccherete codesti studenti che bazzicano in Vaticano o la vedremo»! Leggere per credere: «che nelle scuole deve rimanere intatto il principio di autorità, a scalzare il quale son volte le mene dei nostri anarchici neri, per i quali l’inibito sembra lecito al disopra di tutte le leggi. E quel fare della politica su coscienze inesperte e giovani, innestandovi il veleno della partigianeria avanti tempo, non è forse la più grande vigliaccheria? Vedremo se le autorità scolastiche daranno anche questa volta la loro sanatoria agli atti inconsulti di questi veri responsabili della politica trentina. Sarebbe il colmo di tutti i colmi! Sarebbe legare la giustizia al carro di un partito politico!». Sì, sì; l’«Alto Adige» tutt’a un tratto è diventato tenero per l’autorità e si scalda per una sentenza draconiana: impiccarli, impiccarli gli studenti che vengono a contatto coi negri! E guai a chi volesse scioglierli dal laccio, liberarli dalla forca! Se quegli studenti fossero d’altre inclinazioni, d’altro colore, allora l’«Alto Adige» ritroverebbe la coscienza rivoluzionaria e manderebbe l’autorità a quel paese, accusandola di clericale, codina, reazionaria, partigiana. Quanta ipocrisia! Meglio, cento volte meglio Il Popolo, il quale confessa che il grosso scandalo, lo scandalo vergognoso, il fatto enorme non sarebbe nuovo, né isolato, e chi non lo sa? Lo ripetono fino i muriccioli. Ma finché si sfrutta l’inesperta gioventù per tirarla nel vortice delle passioni, delle turbolenze e delle piazzate, i farisei stanno zitti; quando si tratta di ritrovi per rinsaldare le convinzioni cristiane, allora tutto il campo d’Agramante è a rumore, e la persona che «per la sua posizione e serietà» ecc. ecc. è in grado di sapere le cose, comincia a suonar la tromba a Rovereto, perché gli squilli s’ingrossano a Trento; tutto, s’intende, per salvare «le coscienze giovanette ed ignare» cui «sorride la vita e i sogni puri dell’avvenire». Le aure pure Dio vi conforti e vi aiuti, anime pie, sollecite dei «sogni puri», e «dell’alto concetto della scuola»! Iacopinus, chiamatis undique pretis, ceperat in gorga missam cantare stupendam ... Ecce sonare pivam sentit Iacopinus ab ulmo: ... Ad tavolam... celerant ... Surgunt plus cocti quam crudi, urgere boccato; ... Inde pians bellam, quae dicta est Pasqua, fiozzam Ballat, vixque valet pieno cum ventre moveri. Va bene così signori? Che lezioni veramente rispondenti «all’alto concetto della scuola»! Oh, ispirazioni di «puri sogni»! Oh, educazione di «coscienze giovanette ed ignare»! E queste lezioni non furono date in barba ai regolamenti, ma in pubblica scuola, tra risa e sghignazzamenti, alla presenza di un professore, anzi dal professore stesso. Eh, qui, i paragrafi sono osservati! Non c’è pericolo di reclusione, di carcere, di conformi o meno conformi, di espulsioni... no, no! E se alcuno parla, morte al temerario! Intanto gli scolari non intendono a sordo; moltiplicano le copie, vi appongono il titolo «de pretorum moribus» e si fa baldoria. Oh, non sta bene che il ginnasio porti il suo contributo all’anticlericalismo? Ma se alcuni ragazzi si raccolgono nel «Vaticano»... Oh, allora! Coraggio, persona seria, informata, autorevole! Posi a scandalizzarlo e scagli i fulmini «messaggeri» della sua ira.
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Hanno parlato col massimo rispetto del principio d’autorità, son sorti in difesa dell’applicazione letterale del regolamento e a noi, accusati d’aver turbato le coscienze giovanette ed ignare togliendole dall’aure pure della sola scienza e del solo studio, hanno scagliato con l’accento della più indignata ortodossia l’epiteto: anarchici neri! E noi abbiamo risposto: sepolcri imbiancati! S’è poi scoperta l’alchimia dei falsari dell’opinione pubblica e i cinnamomi e gli zuccari coi quali si tentò di mettere assieme quel pasticcio che i farisei chiamano «scandalo» . Fin dapprincipio s’intravvide la tendenza della campagna: apparve durante tutta la polemica che si voleva fare anzitutto dell’anticlericalismo e che i regolamenti, l’autorità, l’ortodossia non erano che il manto ipocrita che nascondeva l’anima miscredente e nemica al pensiero cristiano. Perciò noi li abbiamo aspettati al varco codesti farisei della lettera, li abbiamo aspettati al varco delle loro contraddizioni. Ed eccoveli giunti oramai. Ieri l’Alto Adige risale alla questione di principio e s’occupa ex professo dell’educazione della gioventù . Ed ecco i principii educativi che il foglio radicale propugna per il Ginnasio. «Nella scienza non esiste assoluto e ciò che pare vero oggi può non esserlo domani e viceversa». «In tutte le idee c’è una qualche parte di verità». I giovani venendo fuori dalla scuola devono mettersi «a contatto con quella vita intellettuale moderna che non è contemplata nei programmi scolastici» (Alto Adige, 18-19) . Ci siamo dunque: in queste formule un po’ pedestri e puerili è disegnato chiaramente il principio educativo del giornale di via Dordi. In filosofia il relativismo più barocco, in morale e religione l’indifferenza e la miscredenza. Per raggiungere tutto ciò viene raccomandato agli studenti il «contatto colla vita intellettuale moderna che non è contemplata nei programmi scolastici». A creare, a mantenere tale contatto è chiamato il partito liberale che viene eccitato a scuotersi e a lavorare, poiché il campo è ancora vasto e v’è «probabilità di successo». Così la maschera è caduta prima ancora che finisse il carnevale. Badate: le norme disciplinari del Ginnasio incominciano così: «È compito del Ginnasio di procurare agli scolari una cultura superiore, che si fondi sulla religione e sulla moralità», e al capitolo I si parla espressamente dei «doveri religiosi» e delle pratiche prescritte agli scolari di religione cattolica. Ebbene i difensori dell’autorità ginnasiale, della lettera del regolamento, i propugnatori dell’ortodossia e dell’ordine contro gli «anarchici neri» vorrebbero bandito lo spirito positivo ed assoluto di religione, che dovrebbe essere, secondo le «norme», la base dell’educazione ginnasiale. I difensori della lettera del regolamento, ne osteggiano lo spirito, chi minaccia rappresaglie se non viene applicato in tutto il suo rigore il § 27, rinnega la norma generale e programmatica su cui poggia tutto il regolamento. Il parallelo storico con tutti i più acerrimi nemici di Cristo, i Farisei, è evidentissimo e potrebbe, se non ci mancasse il tempo, venir condotto in tutti i particolari. Caratteristico è in tal riguardo anche l’appello al partito liberale, perché lavori il vasto campo, non ancora penetrato dai «clericali», proprio all’indomani in cui si lanciavano i fulmini dell’ortodossia contro gli inquinatori delle aure pure della scienza, e gli ipotecatori delle coscienze giovinette ed ignare. Sono nuovi sprazzi di luce sinistra che completano l’aureola degli scandolezzati. Dopo questa triste apoteosi, potete ben raccogliere le vesti che vi siete stracciate per mentito sdegno, proclamate pure che siete innocenti della persecuzione studentesca, ogni galantuomo dovrà ripetere, rievocando il grido delle turbe buone e sincere: Oh, farisei, farisei! Intanto gli amici riflettano sul monito che viene dalla presente campagna a tutti coloro che propugnano delle verità e conseguentemente delle regole assolute (per dirla in antitesi alle formule di via Dordi), a quei padri che vogliono tramandare ai loro figli le gloriose tradizioni cristiane degli avi. Non sarà difficile concludere che cosa vogliano gli ortodossi di ieri, quand’oggi levano un inno alla libertà sconfinata delle intelligenze e delle energie. Nonostante la nostra ritrosia per le citazioni classiche, non è forse fuor di luogo ricordare in proposito quanto scrisse un grande poeta italiano: Amor di libertà, bello se stanza, Ha in cor gentile, e se in cuor basso e lordo, Non virtù, ma furore e scelleranza.
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Una parte della stampa annunzia con invidiabile disinvoltura l’imminenza della guerra . È da sperate che si tratti di minacce per rinvigorire gli argomenti diplomatici i quali, suffragati di una cinquantina di milioncini hanno ottenuto una problematica vittoria sul Bosforo, ma non sembra valgano gran che sulla Drina. Si faccia o non si faccia, è però caratteristico con quanta leggerezza certa stampa guerrafondaia parli di un avvenimento che, comunque finisca, sarà un nuovo flagello per la società intera ed una sventura per i contendenti. Le vittime di Marte, lo strazio delle famiglie, la perdita per la civiltà e per il progresso di uno Stato di tante energie giovanili, non sembrano gran cosa per chi presume di rappresentare gli interessi collettivi, il cosiddetto onore nazionale, o la boria di una classe sociale. A costoro dovrebbe però giovare almeno il riflesso che una guerra è pur sempre un’enorme perdita economica. La guerra del ’70 costò ai tedeschi dal giorno della sua mobilitazione fino alla conclusione della pace duemila e sessantacinque milioni di corone, ossia 6.700.000 al giorno e 7 corone per giorno e per uomo. In questa cifra non sono però contenute le enormi spese per la ricostruzione del materiale perduto, le pensioni alle famiglie degli invalidi e degli orfani e le perdite di beni privati. La medesima guerra costò ai francesi complessivamente 9 miliardi e 300 milioni; se leviamo da questa cifra anche l’indennizzo di guerra e le altre spese meno dirette, risulta che la guerra costò alla Francia per giorno 7.4 milioni. Le spese di guerra nell’ultimo conflitto russo-giapponese furono per la Russia di 3.390 milioni, per il Giappone 2.860 milioni. Ossia per ogni abitante della prima 2.5 milioni, e per ogni giapponese 6.1; senza calcolare qui tutte le altre spese, che furono incalcolabili, a cui gli Stati dovettero sobbarcarsi dopo la conclusione della pace, ma sempre in causa della guerra. Applichiamo queste cifre all’Austria Ungheria. Ammettendo che i soldati in campo (esercito comune, le due Landwehr e le truppe di confine nei paesi occupati) sarebbero un milione e mezzo e un altro mezzo milione di uomini verrebbe occupato in guarnigioni ecc., avremmo complessivamente due milioni di soldati. Ponendo per base della spesa per uomo 7 corone, ed è forse poco, avremo ora mai il risultato che la guerra costerebbe all’Austria 14 milioni al giorno, 420 milioni al mese e 5.110 milioni all’anno. A queste spese di mantenimento aggiungete i danni enormi che subisce la vita economica, le svalutazioni colossali dei valori borsistici, l’arenamento di ogni produzione... Ma sembra triste destino della società umana; salire faticosamente con sforzi concentrici la scala del progresso sociale, dell’elevazione economica, proclamare in mille concioni le benedizioni della pace, finché, venuto meno l’orrore dei disastri guerreschi e aumentata per i benefizi della concordia la superbia umana, questa cagiona la catastrofe, la quale rende nulla tanta ascesa compiuta. Gli antichi spiegavano quest’umana vicenda con le gelosie e con le beghe dell’Olimpo, noi sostituiremo agli dei il feroce speculatore di borsa, il politico banquerotteur, il guascone per l’atavismo, il servo di Marte per mestiere. Noi auguriamo che gli uomini di cuore sentano la responsabilità del momento e che il conflitto trovi una soluzione incruenta.
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Di tutte le notizie che si rincorrono, si attraversano, si correggono, si distruggono, una cosa appare certissima ed ineluttabile: che alla fin fine toccherà a noi pagare le spese. E questa è l’unica previsione di politica interna che si può dare senza tema di smentita, indipendentemente dalle geniali trovate di Bienerth , dal contegno dei radicali boemi e dalla tattica dell’unione slava. Si parla di nuove imposte, di balzelli gravi. Un anno dopo il disavanzo di Korytowski , a breve distanza da rosee promesse d’imposte ridotte, si presenta la necessità di... cercare nuove fonti e di rimaneggiare il sistema tributario, come sogliono eufemisticamente esprimersi i reggitori del fisco. Altro che risanamento delle finanze provinciali... la Bosnia, la Bosnia! Una giornale di Praga vi sa dire che le spese dell’annessione salgono già a mezzo miliardo e che i due governi hanno esaurito tutto il numerario di cassa e devono ora ricorrere ad un conto corrente colle grosse banche. Con sì belle prospettive verranno convocati forse presto i deputati a deliberare la legge sull’annessione. Un bel legiferare codesto, quando il colpo è fatto e già si paga lo scotto! Nel caso migliore non mancheranno le recriminazioni, ma le spese son fatte e bisogna pagarle, poiché anche questo pare certo in ogni eventualità, i Serbi non sborseranno il becco di un quattrino. Oggi Bienerth raccoglie intorno a sé i ministri di fresca data per vedere come cavarsi d’impiccio. L’uomo ha fortuna, non c’è che dire. In autunno l’ha tratto fuori dall’inviluppo parlamentare in cui minacciava di soffocare la violenza dei radicali, ora la debolezza interna non viene analizzata, perché gli occhi guardano tutti all’oriente. Anche oggi leggendo le poche notizie di politica interna dovrete concludere che non ci si bada e che non se ne sa nulla. S’è scritto che l’Imperatore, visto che all’estero le cose vanno al peggio, abbia dato a Bienerth pieni poteri di chiudere baracca, ché ora s’ha d’avere altri pensieri in testa. E un giornale czeco riceve da Vienna che la convocazione del Parlamento ha perso d’attualità. Viceversa giornali più autorevoli assicurano che i ministri proprio oggi stabiliranno data e preliminari della riconvocazione della camera. Accettando questa versione come la più probabile, dobbiamo supporre che il bar. Bienerth farà i suoi calcoli rispetto alla battaglia parlamentare che gli vogliono dare gli slavi o meglio parte di loro. Se il presidente del consiglio ci tiene davvero al parlamento, non c’è proprio da scherzare. Cento e venticinque slavi dei Sudeti e del Carso si sono schierati sulla «Slovanska Iednota» e marciano tutti contro il capo del gabinetto, accusato di cedevolezza verso i tedeschi. Il Sustersie, organizzatore della nuova alleanza, ha ieri messo fuori chiari e tondi i bellicosi intenti della nuova formazione. Alla Jednota s’aggiungono gli 88 socialisti, i quali stanno in agguato per far cadere il Bienerth come l’uomo sfinge, al quale il parlamentarismo non appare più di un surrogato del paragrafo 14 e un surrogato meno digeribile. In coda alla colonna marciano i giovani ruteni, e alcuni selvaggi, risoluti avversari del gabinetto. Tutti questi gruppi assieme danno una opposizione di 250 deputati circa: ovvero metà della camera si trova in marcia contro il ministero. L’altra metà tedeschi, polacchi, rumeni non si sa fino quando né a che prezzo rimarranno fedeli. Il gruppo poi che fatte tali promesse potrebbe dare il tracollo della bilancia sono gli italiani. Non sarebbe quindi fuor di posto se il bar. Bienerth si degnasse d’occuparsi oltre che dei grandi affari di Stato, anche delle questioni italiane, poniamo il caso della facoltà ch’egli solennemente promise e concretizzò in una proposta formale e, ancora, dell’azione economica che dichiarò d’accettare in eredità dal gabinetto Beck.
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Resisterà il filo sottilissimo a cui essa è ancora sospesa? Molti – gli ottimisti – dicono di sì, e in questa loro affermazione è forse più una speranza che un convincimento. Moltissimi altri invece dicono di no e i fatti sembrano dar loro ragione. Il filo diviene ogni giorno più sottile e gli strappi continuano. Oggi resiste ancora, e mentre molti si affannano a tagliarlo pare si presenti anche qualcuno che voglia aggiungere altri fili che impediscano la catastrofe. Riusciranno? I popoli tutti non possono sperarlo, ad essi non è concesso di deciderlo, perché in questi tempi di costituzionalismo non si usa chiedere il loro parere nelle alte questioni diplomatiche e militari. Perciò il giorno in cui non tuona ancora il cannone, per quanto cattivo sia – è sempre un giorno buono. L’Austria paziente. I due Stati che si guardano in cagnesco e pare siano pronti ad azzannarsi a vicenda, intanto che aspettano il momento opportuno, si divertono a un gioco curioso. È il gioco della pazienza. Io sono la torteggiata e per di più la pazientissima – dice la Serbia. Io sono la provocata e la mia pazienza finora non ha avuto limiti, ma li potrà avere – dice l’Austria. L’Europa sta (secondo la vecchia immagine giornalistica) a guardare e la sua sapienza si invoca a decidere a chi spetta la palma di Giobbe. Il Fremdeblatt, per conto del bar. Aehrenthal , espone le sue ragioni: «La nostra politica, di fronte alle provocazioni della Serbia, cioè il nostro desiderio di mantenere la pace e di aver pazienza fino all’estremo limite possibile, non si è mai cambiata. È questo un fatto conosciuto dall’Europa, che non può essere cancellato nell’opinione pubblica d’Europa. Ciò che la Serbia vuole veramente non è affatto dubbio. La Serbia, proseguendo la sua politica, chiede oggi una parte della Bosnia per portare in avvenire la mano su tutta la provincia. Nessun dubbio è possibile che tutta la politica e tutti gli armamenti della Serbia siano diretti esclusivamente contro l’Austria-Ungheria. Se la Serbia è d’opinione che la sua politica bellicosa debba dirigersi contro l’Austria-Ungheria, è solo la Serbia che, come Stato indipendente, deve decidere, ma resta bene inteso che la politica dell’Austria-Ungheria deve dedurre quelle conseguenze che in caso analogo ciascuna grande potenza, curante della propria dignità, considererebbe necessarie e indispensabili. Ciò si dovrà tenere in considerazione a Belgrado e anche tutte le grandi potenze non dovranno perderlo di vista». Gli organi di Belgrado alla lor volta giurano e urlano che è l’Austria che tira per i capelli la Serbia d’altronde così pacifica e così aborrente del sangue persino... nei regicidi. Vedrete che a forza di essere pazienti i due finiranno col darsele. C’è però una speranza, e questa è data dalla «N.F. Presse», secondo la quale l’Austria lascerebbe che i cani abbaino alla luna. Scrive infatti quel giornale – cominciando in tono elegiaco – che l’appoggio promesso dalla Russia alla Serbia forma la sola causa di perturbazione della politica europea, mentre tutta Europa, e con essa l’Austria-Ungheria, non desiderano che la pace. Il re di Serbia ha già nominato un Ministero guerrafondaio, e dopo tale nomina l’Austria-Ungheria troverà assai più difficilmente il modo di fare concessioni alla Serbia, mentre le avrebbe fatte se il paese si fosse mantenuto tranquillo. Solo un passo collettivo di tutte le Potenze può far comprendere alla Serbia che il suo atteggiamento provocatore, che è la causa di un eventuale conflitto coll’Austria-Ungheria, le alienò tutte le simpatie. Ma qui viene il buono. «Se poi le grandi potenze, conchiude il giornale, non potranno convincere la Serbia della sconvenienza delle provocazioni, l’Austria-Ungheria continuerà la sua politica pacifica, restando però sempre armata. L’Austria-Ungheria non sentirà certo gran disagio dalle aumentate spese militari, mentre queste non possono se non rovinare la Serbia». Lasciamo lì il disagio economico che sente o non sente l’Austria-Ungheria. Di questo si avrà più che agio a discorrere in seguito quando i signori ministri presenteranno al Parlamento i conti... delle spese fatte. Ma certamente è di buon augurio – se è vera – la notizia che l’Austria non attaccherà per la prima, non ostante le provocazioni. Con ciò le probabilità di guerra vengono notevolmente diminuite.
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È il titolo di una nuova rivista storica che cominciò le sue pubblicazioni col 1 settembre a. c. Per mezzo dell’«indagine analitica», «dai documenti, dalle carte antiche», ricercando «sistematicamente le condizioni economiche, morali, intellettuali» dei tempi andati, rivolgendo «la mente a comprendere tutta intera la vita passata, nelle sue relazioni necessarie di cause ed effetti, nella stretta concatenazione degli avvenimenti tra loro», penetrare colla conoscenza, fin là dove sentiamo pulsare viva e non moritura l’anima del nostro paese»: rendere insomma la storia «in cui s’agita e brilla per noi veramente l’anima nazionale della nostra terra», non una fredda enumerazione di avvenimenti, ma «una larga visione di vita». In quanto alla letteratura non trascurare «lo studio di quanti compatriotti con vigoria di mente maggiore o minore s’avviarono sul cammino delle lettere e lasciarono tracce del loro ingegno». «Sorvegliare accuratamente tutte le fonti storiche», archivi, carte antiche, opere d’arte, «allo scopo di impedirne la dispersione e il deperimento». Con tale programma ben delineato, con tali seri intendimenti espressi nella bella prefazione la San Marco s’avvia fidente e sicura; e già il primo numero è una splendida promessa. Notiamo il gran numero di cultori di patria storia che hanno promessa la loro collaborazione, segno evidente della simpatia incontrata dalla nuova rivista. Degna senza dubbio di lode è la saggia disposizione degli articoli ed encomiabile ancor più la presenza di alcune rubriche come «Fatti e commenti», «Notizie ed appunti», «Rassegna bibliografica» che daranno in seguito eccitamento e materiale a nuovi studi. Nella «Fatti e Commenti» la direzione si propone enumerare i mezzi di studio, le raccolte di materiale come biblioteche, musei ecc. Cominciò in questo numero dando resoconto delle attuali condizioni della biblioteca annessa al Ginnasio privato di Ala. Ai pregi intrinseci di serietà di propositi e di saggio ordinamento corrispondono anche i pregi esterni della forma. I fascicoli di almeno 40 pagine, in formato adatto hanno una elegante e artisticamente riuscita copertina opera del signor L. Eccheli: in mezzo ad un ramoscello di quercia spicca un bellissimo leone di Marco. Tutto ciò fa sperare che la nuova rivista viva e prosperi a lungo e anche noi le auguriamo un florido avvenire degno dei suoi nobili intendimenti. A.D.
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Possiamo dire ormai, con una certa sicurezza, che la guerra è definitivamente esclusa. La giornata di ieri è stata decisiva per la pace. La Russia ha preso posizione, e questa non è certo tale da scoraggiare la Serbia nelle sue megalomanie provocatrici. Un nostro telegramma di stamane da Pietroburgo, che ha carattere ufficioso se non propriamente ufficiale ce lo annunzia. La Serbia – ci dice il telegramma – aveva mandato alla Russia una nota in cui protestava il suo sincero amore per la pace, l’assoluta mancanza da parte sua di propositi aggressivi e la ferma risoluzione di astenersi da qualunque atto che potesse venir ritenuto provocatorio, e di affidare la cura dei propri interessi alle potenze. La Russia fece rispondere a questa nota, per mezzo del proprio inviato a Belgrado, che se era vero che la Serbia era disposta ad accettare i desideri delle grandi potenze, le dava il consiglio di dichiarare categoricamente che non insisteva su concessioni territoriali e che in tutte le altre questioni che stanno all’ordine del giorno si rimetteva completamente alle decisioni delle potenze. Ora chi abbia seguito fin qui lo svolgersi della questione austro-serba può ben comprendere che voglia dire questa intimazione. È un fine quasi brutale messo in fondo alla lista delle rivendicazioni e delle aspirazioni di quel paese, e i serbi lo sentiranno amaramente e constateranno che a questo mondo con le urla sole non si scuotono gli imperi.
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Il Cristianesimo, religione di pace, essenza d’amore, non conosce altro spirito che di pace e d’amore: un linguaggio violento, uno spirito bellicoso, marziale e peggio poi la forza brutale posta in atto, giustificata e glorificata sono cose tutte che ripugnano alla natura della religione cristiana e non possono costituire che deplorevoli aberrazioni, deviamenti o traviamenti imputabili a contingenze storiche transeunti, zavorra che può ritardare ma non inceppare mai gli eterni voli della navicella celeste. E in secondo luogo: una tradizione perenne, costante vi è nella Chiesa che propugna di continuo questa santa parola di pace, interprete verace dei tesori evangelici: da Origene ad Agostino, dai Padri e dai dottori agli oratori sacri e ai filosofi, al Bossuet , al Fénelon , al de Saint-Pierre, al Lacordaire , al Perreyve , al Gratry è una serie quasi ininterrotta di simpatici utopisti che si lasciano l’un l’altro in retaggio l’opera generosa, et quasi cursores si trasmettono la fiaccolata della santa Idea. Conseguentemente la via regia non ci sembra altra che quella percorsa da quelli «spiriti magni»; essa è consona alla dottrina, essa risponde in parte alla tradizione storica; essa infine compie davvero una funzione etica, serve realmente a provare l’efficacia morale del Cristianesimo: quale vittoria per esso se allorquando – com’oggi le ordalie, e i giudizi di Dio, e i duelli, e la faida – anche le guerre sanguinose saranno ricordi dei tempi passati o fenomeni patologici prontamente repressi, potrà dire: una simile trasformazione dei costumi è il frutto non solo dell’essenza pura astratta della mia dottrina, ma dell’opera concreta e concorde di quanti mi professarono, e mi predicarono pretendendo la vista a rompere la tenebra del futuro! Tutte le pagine dell’Evangelo annunziano questa perenne parola di pace; tutti i consigli e i precetti sospirano al medesimo santissimo fine; l’amor del prossimo nell’amor di Dio è la fiamma che riscalda i cuori e agita la mente; il mandatum novum non ammette limite né restrizioni: è l’apoteosi dell’amore. Il non veni pacem mittere che alcuni vollero addurre a legittimare la guerra a darle quasi una base morale fu bene spiegato dal Lacordaire: «È la guerra dello spirito contro la carne e della carne contro lo spirito... ma le anime si uniscono alle anime e i corpi ai corpi: Gesù Cristo alla testa d’un’armata, Satana alla testa dell’altra, da un lato l’armata delle passioni, dall’altro quella delle virtù». E tutto quel mirabile periodo che forma l’epopea del martirologio cristiano ci rafferma in questo pensiero. Esso è un immenso inno d’amore, che confonde coloro che fidano nella finale ragione della forza bruta: non sia qui forse la più lucida prova che anche la forza si spezza contro il diritto? Tertulliano ed Origene arrivano fino a biasimare il servizio militare: Origene nel De corona militum scrive: «Credete voi che sia permesso ad un cristiano disconoscere il padre, la madre, il prossimo che la legge ordina di amare e rispettare per vivere colla spada alla mano, quando il Signore ha dichiarato che chiunque si servirebbe della spada perirebbe di spada? Scenderà dunque in battaglia egli, il figlio della pace?». E Agostino chiama le guerre vasto e smisurato latrocinio, e a secoli di distanza ripete quelle parole stesse e quel medesimo giudizio il buon Fénelon; e l’Aquinate, che sugli altri com’aquila vola, in secoli che non son che rumor d’armi e d’armati, non ammette le guerre che in casi eccezionali per una causa giusta e necessaria, la repressione dei malvagi e il soccorso ai buoni. Ma quale è la causa, ai tempi nostri, dopo tanta luce di pensiero civile, logicamente necessaria alla guerra? e quante furono e sono le cause giuste di guerra? «Chi dunque pretenderà – si domanda giustamente Edgardo Rod – che lo stato di guerra in cui viviamo sia un bene e sia conforme alla religione di pace che è il Cristianesimo?». Non si parli dunque di guerra, ministro di Dio; l’usare una tale frase ed altre simili ci parrebbe quasi un sacrilegio: la scuola di de Maistre che – come l’Hegel – ha sostenuto la divinità della guerra è stata per questo lato fatale, benché accolta da uomini eminenti come furono mons. d’Hulst e mons. Freppel . Ma l’autorità di questi nomi non può esser tale da negare la verità delle cose, né deve aver tanta efficacia da impedire un salutare impulso a una proficua direzione riguardo a tale argomento nel moto chiesastico dei tempi nostri. Vero è che lo Spencer e il Berthelot trovano che il Cristianesimo non ha fatto nulla e non può far nulla per la pace; dopo venti secoli le guerre più sanguinose desolano la società, il militarismo la corrode e le menti sono ancora tutte imbevute di pregiudizi, e di boria, e di prepotenza che costituiscono lo spirito bellicoso delle folle. «Dopo due mila anni d’insegnamento e di disciplina da parte del Cristianesimo – scrive lo Spencer – ci siamo noi avvicinati a questa vita ideale ch’esso doveva apportarci? Presso i popoli che ammettono le guerre quale progresso ritroviamo nell’oblio delle ingiurie? Qual freno troviamo alla passione delle vittorie e delle rivincite che le grandi masse considerano come un dovere? Quanto ci siamo noi avvicinati ai tempi predetti in cui le spade si sarebbero trasformate nelle lucide feconde lame degli aratri, ora che gli eserciti sono più formidabili che giammai?». Ed il Berthelot rincalza: «La nozione più alta e più nobile della solidarietà umana fu a lungo paralizzata da quella della carità cristiana, nobile e commovente essa pure, ma che segna un limite inferiore ed ormai sorpassato». «Ma – risponde al Berthelot il De Triac nel suo Guerre et Christianisme – parlate voi della carità cristiana che il Vangelo insegna o di quella che noi pratichiamo? Se voi parlate di quella carità di cui Gesù ci diede l’insegnamento, che potreste voi dunque fare di più per gli uomini che amarli non solo come voi stessi, ma come un Dio potrebbe amarli e far loro tutto che vorreste a voi fatto?». Se gli uomini ancora barbari non hanno compreso o non hanno ascoltato del tutto le esortazioni e i precetti del Nazareno, può forse lo Spencer concludere che l’insegnamento datone non fu divino, poiché egli stesso riconosce che la dottrina cristiana condanna l’attuale stato armato delle nazioni? O vorrà egli concludere alla inanità del Cristianesimo? No, certo: sta in questa ancor lontananza dell’atto dal consiglio, della condotta dal precetto, sta in questa lenta e graduale e quasi inavvertita ascensione dell’uomo verso le vette della purezza evangelica la ragione d’ogni progresso etico avvenire: e più l’uomo sale in alto, più si raffina il suo spirito, più batte il cuor suo, più possente si fa l’intelletto e vigoroso l’entusiasmo e più e più si scoprono nell’Evangelo tesori prima non visti, sapienza ignorata prima: e i problemi più ardui dell’umana vita risolti, e troncate le più incresciose questioni; la summa infine di tutte le leggi di vita, individua e sociale, fisica e psichica. Il medesimo Vangelo parlerà, è vero, agli uomini del secolo venturo come a quelli dell’Evo Medio; ma perché questi giurarono la guerra sui Libri Santi, anche gli eredi del nostro secolo dovranno credere di potere uccidere senza violare il comando di Dio? La legge del Signore predicata a un selvaggio della Nuova Zelanda o della Terra del Fuoco ed all’uomo colto di una società civile dovrebbe dunque avere la stessa efficacia? Anche quella dell’Evangelo è una scienza, e la più grande fra tutte, ed essa accompagna l’uomo nel suo graduale svolgimento e concorre a portare in lui un fondo di pensieri e di sentimenti, un substrato psicologico ed etico individuo tale da determinare quasi inavvertitamente conformazioni nuove di nuove strutture sociali, di nuove forme, di più perfetti tipi di civiltà: e quanto più questa trasformazione va manifestandosi e attenuandosi con iscopi sempre più elevati e generosi di miglioramento e di riforma, tanto più va rifulgendo di luce abbagliante il Cristianesimo, che dovrà finalmente compiere l’opera sua coll’invadere, e plasmare e conformare secondo lo spirito suo tutta la vita, non più quella dell’individuo soltanto, ma dell’universa società, base della psicologia e della morale collettiva. «Gesù Cristo – dice splendidamente il padre Gratry, svolgendo in modo mirabile un concetto analogo – è la luce del mondo. Egli è il vero re della storia. Egli la guida di tutto il futuro: e noi abbiamo nella luce che ci dona e nelle forze divine che questa luce ci promette e ci istruisce, a conquistare inesauribili sorgenti per un progresso senza fine e per un avvenire più magnifico di quello che potrebbe sognare alcun uomo».
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11906-1910
L’alto consesso municipale della città del Concilio ha ieri l’altro votato per espresso un’abolizione ed un parere . Non una voce si levò a protestare o ad eccepire; l’abolizione della messa nelle scuole popolari venne decisa senza motivazione, senza discussione; il parere perché si tolga la messa in ginnasio venne invece «motivato», ma lo sragionamento fu tale, che per l’onore di Trento sarebbe meglio fosse rimasto accuratamente involuto nella protuberanza metafisica dell’illuminato ragionatore. Non ci proponiamo oggi di discutere la legalità della deliberazione comunale, né di supplire alla mancata discussione del Consiglio. Fuori di dubbio, essa contraddice al paragrafo 5 della legge dell’impero per le scuole popolari, ove si parla esplicitamente della istruzione religiosa e delle pratiche religiose debitamente notificate; non tiene conto del paragrafo 64, per il quale gli scolari sono obbligati ad assistere agli esercizi religiosi della loro confessione, debitamente notificati dall’autorità ecclesiastica ed ignora che la legge provinciale del ’94 col richiamo alla legge generale obbliga i docenti a sorvegliare gli scolari «durante gli esercizi religiosi regolarmente prescritti per la scuola popolare» (paragrafo 44). Ma delle norme legali e della posizione giuridica del conchiuso ci occuperemo eventualmente un’altra volta. Noi deploriamo oggi e combattiamo la tendenza. La deliberazione municipale non può risalire che alla convinzione della nocività o almeno dell’inutilità della santa messa. O dobbiamo ammettere che tale deliberazione sia stata presa non solo senza ragionamento palese, ma anche in uno stato soporoso degli spiriti consigliari? No. Non possiamo credere che le medesime menti, le quali poco dopo addimostrarono sì vivace interesse per la «Pubblica Nettezza» siano rimaste atone, quando si parlava della messa. Il suono che echeggiò in ciascuna coscienza non ci venne manifestato, né noi erigiamo qui tribunale sulle convinzioni peculiari delle singole persone. Ma giacché queste vogliono essere i consoli della nostra repubblica e giacché malgrado tutto, una certa logica deve pur sussistere anche nelle deliberazioni municipali, ci è lecito designare il deplorato conchiuso quale un atto di indifferentismo religioso, se non di miscredenza. Non si creda con ciò che noi vogliamo erigere la messa quotidiana nelle scuole ad istituzione di fede o che siamo sordi a certe ragioni di opportunità. Né l’una cosa né l’altra. Ma la messa riteniamo il più importante, il più essenziale fra quelli esercizi religiosi che l’autorità ecclesiastica, in armonia alla legge per le scuole, ha stabilito quale corollario pratico dell’istruzione religiosa, quale mezzo potente di educazione morale. L’abolire totalmente la messa è non solo intaccare il patrimonio religioso tramandatoci dagli avi, ma è levare una pietra angolare da quell’edificio che l’azione del popolo e l’appello della Chiesa ha costretto lo Stato ad erigere accanto e in nesso architettonico con la scuola popolare moderna. Orsù consiglieri, pigliate il coraggio a due mani e dite francamente che voi avete mosso un passo verso la scuola laica, verso l’istruzione senza l’educazione religiosa, che a voi interessa che lo Stato e la città paghino le scuole, perché i fanciulli imparino la fattura e la storia del pianeta su cui si muovono ma non le opere di Dio che l’ha fatto e che lo regge, le gesta dei guerrieri, la gloria degli inventori, non la missione, i trionfi – nel cuore degli individui e nella storia della civiltà – del Cristianesimo. Per questo voi che erigete in tale profusione lapidi e monumenti a celebrità più o meno effimere e convocate la scolaresca ad ammirare e a commemorare, radiate con un tratto di penna la commemorazione e ad un tempo il rinnovamento del più grande fatto che ricordi l’universo, il Sacrificio del Golgota. Indoviniamo le obiezioni: si tratta d’igiene, di incomodità grave e così via. Ma di queste pare si sia tenuto e si tenga conto in larga misura ora con dispense generali ora con eccezioni personali per l’inclemenza della stagione o peculiare debolezza fisica. Del resto è pur strana, diceva il Greil stesso, quando si trattò per la prima volta la medesima questione nel consiglio di Innsbruck, è pur strana codesta cura meticolosa del sonno mattutino quest’educazione del comodo in un’età, in cui non si cessa di raccomandare ogni specie di sport e sforzo fisico per indurire i giovani. Siate sinceri: le ragioni igieniche fino a un certo punto hanno valore e se ne tiene conto, più in là diventano pretesti che non servono però a mascherare la tendenza dell’indifferentismo religioso, se non anche dell’ateismo. E veniamo al parere. La proposta di cambiare l’orario è partita dai professori. Il consiglio scolastico provinciale volle consultare anche la rappresentanza comunale, e sta bene, quantunque, a dirla di passaggio, il consiglio scolastico sbaglierebbe di grosso se prendesse l’opinione di una rappresentanza di alcune classi di Trento per l’opinione pubblica di tutto il raggio di frequentazione del ginnasio. Come si spieghi che alla discussione sul cambiamento d’orario s’aggiunge immediatamente, spontaneamente la proposta di abolire la messa non sapremo dire. La motivazione che il signor Lunelli fece in appoggio del cambiamento d’orario è quella dei professori; che anche la seconda proposta cui il signor Lunelli mise in nesso con la prima, risalga a loro dev’essere escluso, in ispecie per il ragionamento che il consigliere Lunelli v’aggiunse, ragionamento non solo assurdo, ma anche offensivo per i professori stessi. L’assurdità ci sembra tanto patente che non occorra dimostrarla. Essa viene infatti a dire: l’abitudine forzata al bene educa il giovane al male, oppure: quanto più pratiche religiose, tanto meno religione. Veda, signor Lunelli, forse in qualche lievissima parte siamo d’accordo, nel desiderio cioè che nei nostri istituti e nei nostri metodi si cerchi di più d’educare nei giovani il senso della sincerità e dell’adempimento spontaneo dei loro doveri. Ma, per l’amor del cielo, Ella sceglie un metodo molto spiccio, li cancella codesti doveri, ed è bell’e fatto. Ella ragiona: «La roba fatta per forza non vale una scorza». Applichi il suo principio a tutta l’educazione dei giovani. Quanti esercizi, quanti lavori sa compiere un giovane senza dover far forza contro se stesso? Quante norme scolastiche e ginnasiali sono di tal fatta che non si possa applicare il suo principio? Tutta l’educazione non è che un indurimento dello spirito e del corpo contro le male tendenze morali e fisiche del giovane. E l’obbedienza è la virtù che crea maggiormente il carattere che irrobustisce l’adolescente ad ogni cimento. Tale virtù non verrà meno davvero all’obbedienza, quando si tratti di assistere al più grande sacrificio eroico e d’amore che un Dio rinnova per gli uomini. Il signor consigliere Lunelli s’è anche richiamato ad una circostanza di fatto, che cioè ora la maggior parte di studenti ciarlano, ridono, studiano le lezioni durante la messa. Crediamo che i primi a contestare una simile asserzione saranno i professori, e certo quelli di loro che assistevano alla «discussione» avranno fatte le più alte meraviglie. Infatti, se fosse vero quanto asserisce il Lunelli, converrebbe ammettere che durante la messa non c’è la debita sorveglianza. Si ripete una cosa simile nelle aule scolastiche durante il latino, la matematica, la geografia? No, sicuro perché si sorveglia. E perché dovrebbe accadere ciò in chiesa? Noi quindi non possiamo accogliere la premessa del signor Lunelli. Alla più ammetteremo che un certo numero di scolari – un manipolo esisteva anche ai nostri tempi – approfitterà dell’edizione «diamante» per riparare in chiesa alla negligenza di casa, ma non sarà davvero per quest’esigua parte di negligenti che si dovrà abolire la santa messa per tutto il ginnasio. No, il ragionamento non fila, signori consiglieri, ed è solo un miserabile prodotto di quel liberalismo che da Rousseau in qua predica che l’uomo è buono di per sé e che il male sta solo nelle organizzazioni o nelle istituzioni sociali. Di tale principio le conseguenze didattiche sarebbero che il giovane ha da crescere su libero senza norme, senza costrizioni, senza pastoie. Nessun padre liberale applica questo principio coi suoi figli, ma l’inconseguenza è sempre stata la caratteristica del liberalismo. Logici, ferreamente conseguenti ai loro principii e alla loro fede sono i cristiani quando vogliono che l’esile pianta non si lasci in balia dei venti, ma venga legata a qualche cosa di forte, come la vite all’olmo, perché i frutti siano sicuri e copiosi. E anche voi, liberali, anticlericali, non affannatevi tanto contro la messa. Cristo ha detto: Lasciate che i piccoli vengano a me! Siate generosi, lasciate che vadano a Lui. Ben viene più tardi la triste vita, alleata della vostra miscredenza, negatrice della fede. Ben viene poi la libertà sconfinata, la discussione senza limiti. Lasciate che i dolci ricordi della fanciullezza e dell’adolescenza ricreino lo spirito soffocato, materializzato dagli affari dell’uomo maturo, e la parola di Cristo risuoni almeno come eco lontana all’orecchio di chi invecchia fra gli assordanti rumori di una società febbricitante d’egoismo, appunto perché ha dimenticato il grande sacrificio del Golgota che su ogni altare quotidianamente si rinnova.
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11906-1910
Ieri si è combattuta in tutta Italia – in molti luoghi accanitamente, in moltissimi con non grande entusiasmo – la battaglia per la rielezione dei deputati. È troppo presto oggi per avere un’idea esatta della fisionomia che avrà la nuova Camera, e perciò per dare un giudizio sintetico sulla lotta di ieri. Di una gran parte dei collegi ci mancano i risultati, ed inoltre vi saranno anche i ballottaggi di domenica prossima, i quali potranno arrecare delle sorprese. Una cosa è certissima fin d’ora, la Camera non sarà molto diversa dall’antecedente e Giolitti ha la sua maggioranza sicura. Se uno spostamento vi sarà, crediamo di non sbagliarci indicandolo verso destra. È vero che i socialisti entreranno rafforzati nella nuova Camera, e mentre nella passata legislatura erano 20 in questa arriveranno forse a una quarantina, ma per compenso sono decimati i radicali e i massoni. Anche i repubblicani che erano 20 sembra non abbiano mantenute tutte le loro posizioni. I cattolici, i quali com’è noto votarono con permesso dell’autorità ecclesiastica in numerosi collegi per appoggiare le candidature dell’ordine, e furono elemento preziosissimo, si sono pure affermati brillantemente dove avevano poste candidature proprie. Il successo da essi ottenuto è veramente splendido, tanto più che quasi dappertutto vinsero colle solo loro forze, e in genere si può constatare che dovunque essi lavorarono sul terreno pratico, in mezzo al popolo, sono i padroni della situazione.
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11906-1910
Abbiamo annunciato subito la protesta della società femminile Madri Cristiane aderenti 1187 madri di famiglia di Trento. La società prese l’iniziativa della protesta di per sé, senza relazione alcuna con tutte le nostre organizzazioni. Noi, confessiamolo, non abbiamo creduto necessario una generale levata di scudi ed a chi ci rampognava quasi per la nostra calma abbiamo risposto: Non vi scaldate d’avvantaggio. Anzitutto la deliberazione dei patres patriae è illegale, e poi si sono accorti ormai d’aver mosso una pedina falsa. Riporranno le pive nel sacco. Non avvertite che all’«Alto Adige» hanno messo, in argomento, la museruola? Ma ieri sera, di fronte alla protesta delle 1187 madri... cristiane, capite, non clericali, l’organo municipale rompe la consegna e viene a dirci, sapete che? Potete immaginarvelo. «Le nostre donne hanno troppo buon senso – scrive l’“Alto Adige” – sono i clericali che l’hanno subornate. Il Trentino... di carta [l’egregio confratello ci viene sempre ad enunciare che il nostro foglio è di carta come tutti gli altri, sebbene noi non abbiamo mai affermato che esso sia di seta] ha scritto che si tratta dell’abolizione della messa quotidiana, quasi che il consiglio civico voglia impedire ai sacerdoti di leggere la messa e ai fedeli di ascoltarla... E le donne di Trento sono corse ai ripari e nelle valli si predica la crociata contro gli anticlericali...» . E via di questo passo. Rispondere? Non c’è prezzo dell’opera. Il trafiletto è un documento di presunzione e di vigliaccheria civile. Avvertite: Prima si viene a dire che il pubblico e le donne trentine poterono credere ad un mandato discrezionale dell’illustre consesso municipale, il quale trasformato in sacra congregazione romana, avesse proibito ai preti di disimpegnare l’ufficio loro. Da tale gonfiatura e falsa idea nacque, secondo l’«Alto Adige», anche la protesta delle 1187 firme. Dunque queste 1187 madri «di buon senso» hanno protestato contro i mulini a vento, con la fisima in testa, ficcatavi dentro dai clericali, che illustrissimi consiglieri, trasformati in bonzi con poteri ecclesiastici e liturgici, abbiano mandato le guardie e i pompieri municipali a mettere tanto di catenaccio alle sagrestie! Evidentemente i radicaloidi devono tener per fermo che tutta la saggezza e l’intelligenza trentina sia venuta raccogliendosi stilla a stilla, per adesione, nel pentolone di via Belenzani sì che fuori non restino che imbecilli, i quali non sono in grado d’interpretare le sensate e ponderate deliberazioni dei colendissimi patres patriae. No, no, arbitri della città del Concilio, v’hanno capito benissimo, né furono necessari commentatori o interpreti malevoli. Voi avete deciso in cinque minuti che venga abolita la pratica tradizionale e legale della messa degli scolari, avete decretato che Comune e scuole comunali si disinteressino di tale pratica religiosa ed eminentemente educativa e di motivazioni non si sentì declamare altro che questa: i ragazzi se ne vanno a messa tutti i giorni, la prenderanno troppo alla leggera anche la festa . Ebbene, che volete? Proprio a voi, tanto caldi per il riposo festivo, non s’è potuto in tal riguardo prestar fede e si è detto: costoro manifestano con tale voto una tendenza anticlericale, diretta contro l’educazione religiosa dei nostri figli. Noi non paghiamo le scuole, perché vi si insegni solo l’astronomia, ma perché si addestrino i nostri figli anche alle buone pratiche religiose. Se chiudiamo un occhio oggi, domani i radicali faranno un passo più avanti. È il sistema di tutti i paesi. Si sa dove si arriva. Protestiamo! Ecco il semplice, il naturale ragionamento delle 1187 madri e della grande maggioranza dei trentini, i quali non hanno levata la voce semplicemente perché non vi prendono sul serio, come sul serio – a quanto pare – non vi prendete nemmeno voi. «L’Alto Adige» aggiunge che le deliberazioni municipali sono giustificate anche da ragioni igieniche. Ecco, a noi pare che delle ragioni igieniche si sia ormai tenuto conto più che a sufficienza sia con le «vacanze dalla messa» invernali e con le eccezioni particolari o collettive. L’abolizione totale di una tal pratica religiosa non si può assolutamente scusare con ragioni igieniche. La cittadinanza è commossa per tanta premura del nostro aereopago, e, pur respingendo per questa volta la manifestazione di una così intensa provvidenza municipale, fa voti che in cinque minuti, come si è abolita la messa, si deliberi per le medesime ragioni igieniche di levare la neve o il fango da certe vie, sulle quali si vedono per tempissimo gli scolari e le fanciulle lottare con la mota assorbendosi quegli umidori e quei brividi di freddo, che l’«Alto Adige», sorvolando sulle vie municipali, vede raccolti nelle chiese... clericali, convocatisi lì ad insidiare alla salute delle generazioni bambine. Che cuore di conigli codesti radicali, eh? Vogliono fare dell’anticlericalismo, ma posando a custodi della religiosità vera e, fatto il colpo, ritirano il braccio, si scusano, e ti stampano un’interpretazione ad usum... delle donne che votano per procura. Non siamo stati noi, urlano, sono i clericali che hanno bisogno di «creare un po’ di reagente contro l’anticlericalismo per rinsaldare le fedi e le... cooperative!». Poveracci! Davvero? Il signor Alberti e il signor Lunelli sono dunque degli agenti provocatori clericali, i quali hanno bisogno di sollevare le loro sorti col montare una macchina anticlericale. Tutto l’affare l’hanno fabbricato loro. Ma sì, benedetti cuor di leone, si tratta di uno «scandalo clericale» anche questa volta; abbiamo architettato tutto noi: perfino la necessaria unanimità del Consiglio fu opera nostra. Abbiamo fatto scattare una molla e... La molla, ah! la molla ci fu per davvero e fu la molla dell’anticlericalismo che vi fece scattare tutti in uno spontaneo eccesso di proigiene. Vi lagnate ora, perché ve ne rendono grazie e giurate di non meritarvi tanta roba? Mancanza di coraggio e di coerenza. La quale è tanta, che non ci serve nemmeno come «reagente», e preferiamo ancora e sempre combattervi sul terreno delle vostre glorie civili, delle vostre conquiste politiche, dei vostri successi economici, riservandoci di fare appello all’opinione pubblica trentina contro il vostro anticlericalismo, quand’esso sarà meno viscido, più logico e più coraggioso.
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Tesero, 22 Malgrado il tempo pessimo, si raccolsero nella sala del Ricreatorio un buon numero di soci dell’Unione segantini. Lodevole lo spirito di sacrificio di quelli di Predazzo che intervennero in buon numero. Era invece scarsamente rappresentato il raggio di Castello Molina. Il cassiere Angelo Delladio accenna al lagno manifestato contro alcuni soci i quali si aggiungono un apprendista lasciandolo senza lavoro dei segantini soci della società. Si spera che il caso non si ripeta. Constatato che il presidente Luigi Delugan ritira le sue dimissioni, si conferma la direzione eletta ai 3 gennaio. Il d.r Degasperi tiene quindi una relazione che viene a concludere nei seguenti punti: I soci sono obbligati ad annunziare alla società i nuovi apprendisti, i quali in base al paragrafo 19 dello statuto sociale, nel primo anno non pagano tasse ma vengono calcolati come soci. Nell’anno seguente hanno tutti gli obblighi dei soci ordinari. La direzione ed i fiduciari devono attendere che gli apprendisti vengano annunziati. I fiduciari riceveranno dalla direzione un estratto dal libro «Mastro soci» di quei membri dell’unione che appartengono al loro raggio. Vi saranno segnati in parte a sé quelli che non hanno ancora pagata la tassa sociale del 1908. I fiduciari devono eccitarli ad adempiere i loro doveri sociali. L’adunanza decide che chi non avrà pagata la tassa prima della prossima adunanza generale (probabilmente pentecoste) verrà espulso dal nesso sociale. Ogni socio deve avere lo statuto e il cassiere o il fiduciario deve segnare il pagamento della tassa. S’incarica la direzione a studiare quali effetti avrebbe per la classe dei segantini e per la società stessa l’applicazione della nuova legge industriale. Tale questione va messa all’ordine del giorno della prossima adunanza. Si nominano a firmatari del protocollo Zen e E. Ventura. Sia apre quindi una grande discussione sulla istituenda cassa di mutuo soccorso. Si constata che molti sono gli argomenti pro e contro e grandi le difficoltà di fare qualche cosa di buono; infine a titolo di prova si decide di limitarsi per quest’anno a poco, lasciando ad un altr’anno il compito d’introdurre migliorie. Dopo la relazione del d.r Degasperi si conchiude con l’accettare per quest’anno il seguente regolamento colle rispettive disposizioni particolari per il 1909.
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Il Popolo di ieri stampa che i clericali italiani sono favorevoli al dazio sul grano, quindi, come dappertutto, affamatori. Per il contrario, bisognerà ammettere che i socialisti sono ovunque e sempre dei semplicisti pagliacceschi, che nelle illazioni di una logica strabiliante cercano la conferma non di un dato indirizzo favorevole agli interessi popolari, ma una nuova prova della minore irragionevolezza del loro feroce anticlericalismo. A buoni conti, i deputati che vengono detti cattolici, o parecchi di loro, hanno presentato la seguente proposta, che è proprio il contrario di quanto bugiardamente asserisce il foglio socialista. «La Camera, convinta che la soppressione temporanea del dazio d’entrata sul grano non apporterebbe sensibile diminuzione all’elevato prezzo del pane: e convinta d’altra parte, che le attuali condizioni dell’agricoltura e le necessità eccezionali del bilancio dello Stato, non consentono l’abolizione immediata del dazio stesso: invita il Governo a coordinare l’interesse dei consumatori, dell’agricoltura e delle finanze, riducendo progressivamente il dazio ed integrando il bilancio dello Stato con una riforma democratica dei tributi. – f.ti Nava , Cameroni , Coris , Tovini , Longinotti, Pecoraro , Roberti ». Ma lasciamo la posizione particolare dei deputati cattolici, i quali non v’ha dubbio, sapranno spiegare e giustificare il loro punto di vista che è evidentemente quello della conciliazione degli interessi popolari, e vediamo pure, oggettivamente considerando e discutendo, se anche gli avversari dell’abolizione abbiano delle ragioni, su cui si possa passare senz’altro all’ordine del giorno con quel semplicismo da comizio, tanto comodo ai facili sragionamenti dei demagoghi. I fautori del dazio pongono la questione così: Coloro che vogliono l’abolizione del dazio di L. 7,50 per ogni quintale di grano importato, non riusciranno ad abbassare il prezzo delle farine e del pane. I fatti hanno dimostrato che l’abolizione di tasse a larga base mentre ha danneggiato gravemente il bilancio, non ha prodotto un beneficio sensibile ai contribuenti. Basti ricordare l’abolizione della tassa del macinato e del dazio sulle farine: la riduzione del dazio sul grano avrebbe un effetto simile. A stento si avrebbe la diminuzione di un centesimo o due al chilogrammo sul prezzo del pane, e questa diminuzione non arrecherebbe alcun miglioramento sensibile al bilancio familiare anche dei meno abbienti. La causa dell’aumento del prezzo del pane non è locale, ma generale. Il raccolto del grano fu cattivo quasi ovunque nel 1907, e nel 1908 non fu migliore. Di qui un rialzo dei prezzi, che molto probabilmente continuerà ancora per qualche tempo; sino a che, cioè qualche buon raccolto non venga a ristabilire l’equilibrio nel mercato granario. Non conviene però, a questo proposito, farsi molte illusioni. È ben difficile che il prezzo del grano in avvenire possa scendere di molto, e ciò per molte cause d’indole agricola ed economica che non è necessario enumerare ed indagare. Già gli Stati Uniti, per l’accresciuta popolazione, cominciano ad esportare una quantità molto minore di grano che nel passato. Altrettanto avverrà nella Russia sia per l’aumento della popolazione, sia per le migliorate condizioni economiche della popolazione stessa, che non si accontenterà più di mangiare pane di segala, ma vorrà nutrirsi anch’essa del bianco pane di frumento. E ancora: la riduzione temporanea è stata dimostrata dai fatti non solo inutile ma dannosa. Nel 1898, con decreto del 23 gennaio, fu ridotto il dazio sul grano da L. 7.50 a 5 lire e quello delle farine da L. 12.30 a 8 lire. Quale fu l’effetto? Zero doppio! tanto che con altro decreto dell’11 maggio si credette di salvare la patria, sospendendo addirittura il dazio sul grano e sulle farine. Quale fu l’effetto? Molto semplice. Dopo la sospensione, ossia dopo aver soppresso le 7.50 di dazio sul grano e le 12 sulle farine, il prezzo del grano scese di una lira e soltanto alla fine di giugno, sotto le previsioni del nuovo raccolto e quando doveva cessare la sospensione, il prezzo scese da L. 30 a 27.50! La morale fu questa: che si perdettero parecchi milioni, a profitto della speculazione, dei mugnai e dei fornai e senza un minimo benefizio per la popolazione. Altri fautori del dazio intendono propugnare anzitutto gli interessi agrari. Gli operai delle industrie non devono dimenticare che i loro fratelli, operai della terra, sentono come essi il bisogno di migliorare le proprie condizioni economiche. Gli operai si fanno aumentare i salari; i contadini aumentano i propri salari facendo pagare di più i generi che essi producono. Così tutti si aggirano in un circolo vizioso di miglioramenti fittizi. L’unico vero miglioramento economico che torna utile a tutti, ai lavoratori delle officine e ai lavoratori della terra è quello che è dato da una più intensa produzione agricola. Tutti gli altri rimedi che si vanno affannosamente cercando per curare il malessere economico che tormenta le masse, non sono che gingilli di economisti parolai e di arruffapopoli disonesti. Mettiamo di fronte un contadino e un operaio impiegato in cotonificio. Quest’ultimo dirà al contadino: «Il pane costa troppo: bisogna abolire il dazio sul grano». Il contadino potrà facilmente rispondere: «Si abolisca pure il dazio sul grano: ma siccome io pago troppo cari gli abiti di cotone che porto, voglio che sia abolito anche il dazio sui tessuti di cotone esteri, perché io possa vestirmi a più buon mercato». Protesterà l’operaio che ciò non si può fare, perché l’industria cotoneria sarebbe rovinata, e i padroni dovrebbero o chiudere le fabbriche o diminuire i salari. E il contadino a sua volta gli ricorderà che anch’egli ha bisogno, almeno per ora, di essere protetto, se non vuol lavorare in perdita o con un profitto meschinissimo. È evidente, adunque, che vi è qui un antagonismo molto grave tra l’agricoltura e l’industria, fra la campagna e la città. A ciò si aggiungano ancora altre considerazioni d’indole regionale che in Italia non hanno poco valore. Se si abolirà il dazio sul grano l’antagonismo fra il Nord e il Sud si acuirà sempre più. Se infatti l’Italia settentrionale, che ha una produzione media di frumento per ettaro abbastanza elevata, potrà facilmente sopportare, grazie al basso costo di produzione dovuto all’alto rendimento, la concorrenza estera, altrettanto non potrà fare l’Italia meridionale. Ecco qualche cifra: la media produzione di frumento per ettaro nel quinquennio 1901-1905 fu di 16 ettolitri nella Lombardia, di circa 15 nel Piemonte, di 15.6 nell’Emilia, di 13.6 nel Veneto; mentre nella Sicilia fu di 10,2; nella meridionale adriatica di 9.8, nella meridionale tirrenica di 9.9 e nella Sardegna di 8.9. Queste cifre dimostrano che la produzione di un ettolitro di frumento, anche tenendo conto di tutti i fattori, costa di più nell’Italia meridionale e nelle Isole che nell’Italia settentrionale, e che quindi il frumento dell’Italia meridionale non potrà in alcun modo sostenere la concorrenza del grano estero, quando non sia protetto da un conveniente dazio. Queste in riassunto le principali obiezioni che si muovono ai fautori dell’abolizione. I quali d’altro canto oppongono altri ragionamenti, irti anche quelli di cifre e sorretti da statistiche e da calcoli. Non è affar nostro l’intrupparci con l’una o con l’altra schiera dei contendenti, quando il dibattito non ci interessa per il momento e direttamente, quantunque la futura piega della politica doganale italiana non possa fare a meno di toccare anche gli interessi della nostra regione. I lettori potranno del resto dedurre anche dalla relazione della discussione parlamentare quanto torto abbiano gli estremisti di ingaggiare una battaglia politica su di una complessa questione finanziaria. Quattro sono le proposte formulate per la discussione: abolizione totale e permanente del dazio; diminuzione permanente; totale abolizione provvisoria; diminuzione provvisoria. L’abolizione totale e permanente è sostenuta da deputati di estrema sinistra socialisti; la diminuzione permanente da deputati cattolici; la diminuzione provvisoria dagli agrari di varie parti della Camera, l’abolizione provvisoria da deputati repubblicani. La tesi del Governo è contraria all’abolizione ed alla riduzione. L’abolizione ridurrebbe il bilancio di 75 milioni annui. Mi votate nuove imposte? chiede di rimbalzo l’onorevole Giolitti!
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Il giornale socialista ci fa l’onore di «prender atto» del nostro articolo , intorno al dazio sul grano in Italia. Sentiamo il dovere non solo di ricambiarlo della degnazione, ma di esprimergli anche la nostra gratitudine, perché il suo articolo è una nuova prova che i Don Chisciotti di casa sua hanno bisogno di menar colpi ai mulini a vento. L’attività del partito socialista è così insigne, i monumenti delle sue opere tanto massicci, le prove fatte nelle amministrazioni municipali magnificamente riuscite in tale misura, che i valentuomini hanno ben diritto di maneggiare la lima della critica o meglio l’ascia della demolizione. Se l’andasse a concioni e a ciarlatani, il Trentino dovrebb’essere il paese più fortunato del mondo. E giacché purtroppo quest’ultima circostanza non si avvera, converrà ammettere che i socialisti non ne hanno affattissimo colpa. Sempre pronti a dire il parere loro, non chiamati, a consigliare senza sapere bene di che, a dettar sentenze fuori causa, i signori portano attorno la boria della loro onniscienza, corazzata contro gli occhi degli esaminatori, da un tenace usbergo di sfacciataggine. Quando poi l’impudenza del saper tutto e meglio non basta ancora a soddisfare la gran voglia di mordere gli avversari, allora si ricorre al falso, alterando il pensiero, calunniando le intenzioni di chi si vuole combattere ad ogni costo. Ecco qua un esempio. Il Popolo afferma recisamente che i deputati cattolici in Italia sono fautori del dazio sul grano. Noi ribattiamo, riferendo integralmente la proposta di Nava, Cameroni e Consorti, i quali vogliono la progressiva riduzione del dazio. Questi deputati hanno anche poi votato per l’abolizione. Il Popolo li chiama «affamatori». Nell’articolo del Trentino riportammo oggettivamente le «obiezioni che si muovono ai fautori dell’abolizione». E aggiungemmo: «I quali (i fautori dell’abolizione), d’altro canto oppongono altri ragionamenti irti anche quelli di cifre e sorretti da statistiche e da calcoli. Non è affar nostro di intrupparci coll’una o l’altra schiera dei contendenti, quando il dibattito non c’interessa per il momento e direttamente, quantunque la futura piega della politica doganale italiana non possa fare a meno di toccare anche gli interessi della nostra regione». Che ti fa il Popolo? Leggete: «Prendiamo atto d’una sincera confessione della V.C.». «La Voce fa il panegirico del dazio sul grano nel Regno e ne dà torto marcio ai socialisti e ai radicali italiani che hanno proposta l’abolizione». «Oggi in un monumento di sincerità... pasquale i clericali trentini si dichiararono favorevoli al dazio sul grano nel Regno, dimostrando implicitamente d’essere favorevoli allo stesso dazio nel paese nostro». «È per loro più comodo che le tasse sien tutte riversate sulla polenta e sui mangiatori di polenta. Essi hanno meglio da mangiare... La morale è tutta qui». (Popolo di lunedì). Abbiamo ristampato le parole precise nostre e degli altri. Non c’è bisogno di aggiungere verbo, tutti leggendo «prenderanno atto» della malafede dell’organo socialista. E sono i colleghi che invitano sempre alle oneste dispute, alle calme discussioni, mentre documentano in tal modo che loro manca perfino il senso della dignità di polemisti. Prendete pur nota e prendete anche la parte che vi spetta di codesti metodi briganteschi, che se non v’hanno portato in alto finora, meno ancora vi gioveranno per l’avvenire. In quanto alla polenta, il Trentino sa che la vostra demagogia non l’ha fatta «abbassare» d’un soldo, che voi anzi avete combattuto quelle istituzioni che per opera dei cattolici hanno beneficamente regolato il mercato dei generi di prima necessità. La morale poi più pratica è contenuta nell’augurio che tutti i «borghesi» possano vedere il giorno in cui non debbano mangiare più polenta di quella che inghiottono oggidì certi genuini e grami rappresentanti del proletariato.
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11906-1910
Faticosamente e colla massima circospezione riesce ai socialisti di Trento di conservare l’equilibrio sul trapezio radico-socialista. L’on. Avancini ch’è a cima alla piramide eretta su codesto equilibrio laborioso presta attentissimo orecchio ad ogni politico rumore e scruta con occhio ansioso per tutti i lati, se forse il rumore non sia stato lo scricchiolio che annunzia la fenditura. Il trapezio è appeso alla corda dell’anticlericalismo, la piramide è cementata da una colla buona, «la paura dai clericali». Questa è la situazione del ballottaggio del 1907 . L’equilibrio venne mantenuto per tutto il periodo di ribollimento che seguì alle elezioni parlamentari. L’amarezza della sconfitta, l’esacerbamento per l’energica ripulsa del popolo trentino fecero vedere all’Alto Adige ogni «pecca» dei deputati neri, constatare ogni loro «mancanza», sospettare infine le parole e le intenzioni dei nostri, mentre un velo pietoso ricopriva l’attività del deputato di Trento. Un bel giorno codesta alleanza d’armi si trovò improvvisamente in pericolo, il trapezio oscillò e miseramente cadde. Che era avvenuto? Una cosa semplicissima. Noi, alle elezioni municipali ci prendemmo il lusso di fare gli assenti, al trapezio mancò il sostegno dell’anticlericalismo, alla piramide la colla tanto buona per il parlamento, ed allora è seguito il patatrac delle ultime elezioni comunali, in cui i socialisti in lotta coi liberali, si manifestarono una frazione non grande della cittadinanza. S’aggiunse per loro il malanno che l’Alto Adige, alla vigilia delle elezioni, incuorò i suoi alla lotta contro gli alleati di ieri denunziandoli di poco patriottismo, anzi d’internazionalismo sindacalista, fucinato alla Camera del lavoro, scuola sovversiva ed antipatriottica. Il Popolo reagì debolmente, l’organo ufficiale eruttò una mezza dozzina d’ingiurie, e la cosa finì lì. Ai socialisti trentini non piace la «splendid isolation» dei conservatori inglesi, ma torna loro meglio sfruttare le alleanze. La ricostituzione dell’equilibrio rincominciò. I rossi colsero ogni pretesto per rinfocolare l’anticlericalismo, l’Alto Adige soffiò nel fuoco a due polmoni, lasciando un po’ sfogare l’anima biliosa, e mentre ad Innsbruck i deputati dei due partiti lavoravano di conserva, mentre ad Innsbruck e a Vienna i deputati popolari, richiesti, prestavano solermente l’opera loro a bene della città di Trento e delle sue istituzioni, l’organo municipale urlava contro presunti tradimenti nazionali dei «clericali». I rossi, dal canto loro, evitarono qualunque attacco ai liberali del municipio e, solo quando proprio non ne potè fare a meno, il Popolo ospitò qualche trafiletto, qualche minaccia velata rispetto alle nuove imprese. Vi figurate voi che razza di campagna, se a capo dell’amministrazione industriale fossero i clericali? Ma gli «odiati borghesi» vivano tranquilli. E se alla Camera del lavoro saranno ancora degli ostinati, cerchiamo di ammansarli con 500 corone cavate dall’erario pubblico. La gratitudine però non è riconosciuta come d’obbligo nel programma socialista, e bisogna assolutamente ammettere che almeno qualche volta la Camera del lavoro si fa coraggio e dice l’affar loro anche ai municipali. Ai deputati liberali dà degli «istrioni politici», ai loro elettori regala l’epiteto «d’illusi ammalati di quel morbus sacer che si chiama nazionalismo», ai promotori della rinascenza ginnastica dei cretini e dei «Fisola», ai redattori dell’Alto Adige degli «scimuniti». E non giova che l’Alto Adige pro bono pacis inghiotta tutti codesti complimenti e che il Popolo ricordi al giornale che la consegna è di russare. L’Avvenire torna alla carica: accusa Podestà, consiglieri e pompieri di commettere delle grandi e delle piccole viltà e lascia a tutti questi bellamente la scelta di venir tacciati di gesuitismo e d’essere berteggiati come ingenui. Ma il peggio doveva accadere sabato. I rossi convocano un sinodo alla Camera del lavoro per discutere la faccenda della Messa. Lì nella aule sacre al sindacalismo internazionale anche i «riformisti» non credettero di turbare l’equilibrio, rimproverando ai liberali di non mantenere le promesse fatte ai tempi delle elezioni di non aver schiacciato i rospi clericali, di seguire metodi ipocriti e mezze misure, di aver paura delle scomuniche. Anche la nota antireligiosa risonò più chiara. Avancini pretese di modernizzare la liturgia cattolica e definì la Messa un borbottamento inintellibile, una scuola di ipocrisia. E che cosa di più logico, quando l’Avvenire aveva detto che bisogna combattere la religione come qualsiasi altro strumento di schiavitù umana, quando il medesimo organo della Camera del Lavoro aveva scritto: «Noi tutti, chi per un motivo, chi per l’altro siamo scomunicati, e nessuno di noi prende sul serio la sentenza vaticana»? Ma le prime e le seconde cose s’erano dette per il pubblico della «Camera», per il gran pubblico, per i sostenitori del trapezio si contava invece di convocare un altro comizio, ove non si parlerà più chiaro, ma l’antireligione socialista assumerà quella posa di tolleranza e di richiamo alla libertà, cui nel fatto meglio di noi conoscono i cattolici francesi! Orbene il Trentino mette in pubblico i preliminari della Camera del lavoro. Il Popolo va in bestia e urla: non è vero che noi abbiamo detto male dei liberali! – Ed è invece verissimo. E poi: Voi ci volete porre in contraddizione col municipio, perchè ci neghi il cortile. Ma niente affatto, figuratevi! Anzi, tutto codesto chiasso ci diverte un mondo. Che più? Per conto nostro auguriamo che il podestà e il consiglio municipale intiero sentano il dovere di piegare il groppone inanzi all’ordine dell’Esecutivo socialista e dal balcone del municipio facciano le sue scuse per il mancato schiacciamento dei rospi, promettendo seria ammenda e una ripresa della rude campagna anticlericale visto anche che il Sarca non dà più fastidi. In quanto alla maggioranza di Trento, dubitiamo assai che senta voglia di venir a dire il suo parere proprio a voi, dileggiatori del sentimento religioso, voi che a più di 1000 madri avete dato semplicemente delle «beghine», perché sono insorte per il bene dei figli loro, voi che insultate nel più profondo dell’anima ai credenti stampando proprio in questi giorni in cui si preparano alla commemorazione dei grandi misteri che «la religione cattolica dà da digerire ai suoi fedeli la particola che raffigura (?) simbolicamente (!) il corpo di Gesù» e chiamate questo sacramento «l’estrema spaventevole sentenza di cui sono capaci gli uomini», paragonando poi l’Ostia ad una bistecca! Il referendum popolare? Pienamente d’accordo. Si mandino le schede a tutti i padri e a tutte le madri di famiglia, e la risposta non può essere dubbia. Ma forse nemmeno questa forma è necessaria. Volete sapere come la pensi Trento nella sua grande maggioranza? Guardate alle enormi folle che si assiepano in duomo e piegano il ginocchio attestando la loro fede ed adorando. Il referendum è eloquente e magnifico. Tali manifestazioni poggiano sul granito dei secoli e derivano da una convinzione interiore vivissima, non da malcelate speculazioni di equilibrismo politico.
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11906-1910
Ascoltate! Non vi giunge all’orecchio un cigolio, uno stridore come di ruote che incominciano faticosamente il giro loro sulle rotaie? È l’irruginita macchina dell’anticlericalismo ateo e giacobino che accenna a riprendere la corsa e presto «un orribile mostro si sferra, corre l’oceano, corre la terra». Abbiamo avuto quest’illusione acustica ieri, leggendo il seguente trafiletto del Popolo : «C’è una macchina di dietro, ed è la nostra. È la nostra, quella del proletariato, quella dei lavoratori che, se non possono partecipare con pienezza di diritti alla vita comunale, son capaci di mettersi in coda e spingere avanti il treno e costringerlo a procedere. Dormano pure i liberali, facciano resistenza i neri: ci penseremo noi a metterli in moto. Macchina di dietro e... avanti!». Vengono loro dunque a dar fuoco alla macchina. Vengono loro gli odiatori eterni dello spirito cristiano. Non è cosa nuova, o macchinisti del treno anticlericale, vi abbiamo sempre riconosciuti per quello che siete, anche quando stavate su al vostro posto, con l’abito rosso coperto da altri paludamenti d’occasione, dalle tinte umanitarie liberali, o nazionali. Il treno dell’anticlericalismo è sempre stato spinto o diretto anche a Trento dai tribuni socialisti e nell’interesse di quel partito che considera la religione uno strumento di umana schiavitù. Non crediate quindi di metterci paura. Non è rivelazione codesta per noi, è invece la conferma di quanto abbiamo sempre asserito. Voi volete spingere la borghesia liberale sulla via dell’anticlericalismo militante, perché su questa via i battistrada sarete sempre voi. Il treno infine verrà guidato nella rimessa socialista, dopo aver buttato fuori ad ogni stazione quei liberali che non si lasceranno trascinare a capriccio dai macchinisti rossi. In base all’assioma che i meno tirano i più, i socialisti invitano i liberali a salire sul treno anticlericale. Il Popolo, ora con le buone, ora con minacce e ora con spintoni, s’arrovella perché facciano presto, montino su, che la locomotiva è già pronta, sbuffa, si muove. Ma l’Avvenire del Lavoratore, che fa il fuochista, per i suoi malvezzi da monellaccio e perché ha troppa furia di sferrare il mostro, dal tender lancia sul muso dei passeggeri epiteti così poco incoraggianti, di tali villanie e lazzi, che c’è da temere comprometta tutta la corsa. E prima capitano ansanti i redattori dell’«Alto Adige» con una gran voglia in corpo di lanciarsi sulla macchina per coadiuvare il macchinista rosso e poter dare anche loro una buona strappata ai manubri degli stantuffi. Per amore di questa ambita cooperazione, per affinità di anticlericalismo, l’«Alto Adige» s’è ingoiata in silenzio recentemente una serqua d’ingiurie, scagliategli dall’organo del partito socialista. Ma quel monellaccio ha proprio perso il senso d’ogni prudenza, ogni pudore! Sentite cosa stampa l’Avvenire nel suo ultimissimo numero: «Oh! no, no! Noi in alleanza con gli smidollati sforbiciatori del giornale di via Dordi? Mai più. Appunto perché non abbiamo peli sulla lingua... italiana, non risparmieremo una sola pedata tutte le volte che ci verranno a tiro... i sedicenti divulgatori delle sgrammaticature nell’idioma patrio» (Avvenire del Lavoratore n. 14, 8-4-1909) . A tale risciacquata d’ingiurie i redattori dell’«Alto Adige» restano alquanto perplessi. Salire in un carrozzone qualunque, magari in coda, pur di esserci, o invece, in nome della dignità, rinunciare alla prospettiva dei calci... più o meno italiani degli amiconi? L’indecisione dell’«Alto Adige» è aumentata dalla indecisione dei municipali consiglieri i quali non si trovarono mai come questa volta tanto scarsi di consiglio. Figuratevi che quel rompicollo di Avvenire, sghignazza loro in viso: Arlecchini! Leggere per credere: «I consiglieri furono muti ed il loro silenzio fu vergognoso, in quel momento forse sarà apparso nella mente, come visione cinematografica, piccole viltà, le grandi incoerenze dalle quali è intessuta la vita democratica cittadina. La maschera Arlecchino in molti luoghi è tramontata, qui è nel suo rifiorire» (Avvenire del Lavoratore, 8 aprile). Il Popolo si scalmana per coprire la voce stridula dell’imprudentaccio e grida a squarciagola: avanti borghesi, avanti! Il treno parte! Parte, per dove parte? Piano, intendiamoci; contro il clericalismo sì, ma dove ci conduce infine? E i borghesi discutono, esitano, muovono un passo innanzi e uno indietro, e tra mezzo a quell’urlo, a quel tramestio, si distinguono le parole: rivoluzione sociale e internazionalismo. Si discute specialmente di quest’ultimo. I socialisti non sono patriottici, afferma un notissimo consigliere municipale a voce altissima, ed eccovi qua un’altra prova! E tira fuori, liberandolo da un pulviscolo farinaceo, l’ultimo numero dell’Avvenire del Lavoratore, leggendo là dove il segretario della Camera del Lavoro ha scritto: «Se la Patria è un concetto superato nel mondo dell’intelligenza e dell’economia capitalista, perché non deve esserlo per il mondo del lavoro, per le relazioni politiche fra nazione e nazione? Ecco perché io chiamo morbus sacer il vostro nazionalismo trippaio, il vostro patriottismo claudicante e bolso come la vostra eloquenza, le vostre parate ideologiche che mal celano l’arrivismo e l’affare. Noi rinneghiamo la patria, la “vostra” patria, perché non conosciamo confini» (Avvenire del Lavoratore, 8 aprile, 2ª pag. 2ª colonna) . E noi? Noi stiamo ad osservare. È inutile che il popolo giochi un po’ al martirio, non abbiamo nessunissima voglia d’impedirvi il vostro comizio, né ci inquietiamo punto per le firme che andate raccattando da tutti, dai bambini dell’asilo in su. Ci vuol altro! Non vi abbiamo noi proposto il referendum fra le madri e i padri di famiglia? Figuratevi se ci mettete soggezione! No, no, partenza, partenza, avanti, o treno dell’anticlericalismo! Noi stiamo ad osservare, come si riconfermi sempre più la verità che il socialismo è l’organizzazione dell’irreligione, come le parole «libertà» e «diritto comune» sono frasi per illudere i citrulli, gl’incoscienti della vita pubblica. Anche l’ultimo Avvenire del Lavoratore venne sequestrato per insulti alla religione. In un articolo si studia la «formazione di una nuova morale, laica e religiosa non solo, ma socialista», in un altro si mette in ridicolo l’esistenza del paradiso, ed in un altro ancora si insulta al Ss. Sacramento dell’altare. Oh! Sappiamo dove vuole arrivare il vostro treno e dove volete condurre i passeggeri. Partite pure! Sulla linea troverete una folla che farà saltare le vostre rotaie e le vostre macchine. Questa folla si chiama il popolo trentino, che giudicherà anche sull’incoscienza dei più tirati dai meno.
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11906-1910
La Pasqua è questa volta per davvero apportatrice di pace. La guerra diplomatica è finita, la guerra d’armi e di sangue scongiurata. La primavera ed il sole purificarono l’aria di quel puzzo di polvere e di sangue che vi aveva diffuso un inverno lunghissimo, saturo di sfide e di minacce. Fu in quell’epoca triste che ci sentimmo già sbattere in viso le fredde ali dell’assolutismo, quasi che la minaccia esterna giustificasse un regresso spaventoso della vita interna civile ed inaridisse tutte le fonti del progresso sociale. Ora ritorniamo a dissodare i fertili terreni, torniamo ai telai dell’industria, alla tavolozza dell’arte, alla palestra del pensiero. E sopra quest’industre e rumorosa ripresa aleggi lo spirito di fratellanza cristiana. Ogni avvenimento della storia a cui partecipiamo o assistiamo ci è maestro nella nostra attività sociale. Rotto il guscio dell’umano egoismo, noi sentiamo con tutti gli uomini quella solidarietà che non conosce distanza e confini. Maggiore, più intimo è il legame che stringe la consonanza delle idee, la comunanza dei propositi. Così dalle vicende recenti della storia contemporanea noi deriviamo l’ammaestramento d’una più intensa attività per la penetrazione dello spirito cristiano nel consorzio umano, dell’urgenza che i rapporti sociali ed internazionali siano sottoposti anch’essi ad una legge superiore ai cannoni e alle corazzate, alla legge di Cristo. E poichè d’altro canto la vittoria del pacifismo si può dire un trionfo della democrazia, sentiamo di dover riconfermare, nonostante tutte le aberrazioni e le alterazioni, la nostra fede nella democrazia, nel progresso civile e morale delle masse popolari, la quale democrazia, più che talvolta non sembri, va riavvicinando il mondo al Vangelo e sarà, se tutti i credenti comprenderanno il mondo su cui camminano, la democrazia cristiana.
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11906-1910
La felicità delle feste pasquali fu turbata alquanto dall’annunziato rincaro delle pigioni. Anche a Trento, per una ragione o per l’altra, si verifica la cosiddetta legge di Schwabe: le pigioni aumentano in proporzione maggiore di quello che aumentano i salari e gli stipendi non solo, ma l’aumento della pigione sta, in proporzione inversa all’entità del salario, tanto che la pigione e l’aumento della pigione gravano in proporzione maggiore su chi ha minori stipendi e minori entrate. Ovvero per esprimere il medesimo fenomeno economico con altre parole: i quartieri piccoli sono in proporzione più cari dei grandi. Un altro fatto economico che si ripete a Trento è che il prezzo degli alloggi nelle case vecchie viene a livellarsi col prezzo delle case nuove, cosicché il prezzo di costo di quest’ultime diventa il regolatore delle pigioni in generale. Ora qui c’imbattiamo nella prima causa e forse nella più grave causa del rincaro delle pigioni. Il costo di una casa è nell’ultimo decennio aumentato di molto. Un’area da fabbrica costava p. e. dodici anni fa al Fersina cor. 3.60 al m²; ora nel medesimo posto si rifiutarono cor. 20. In Centa nell’ultimo decennio si è avuto un aumento che va in media da 1 corona a 15 e questi non sono che esempi di una scala generale. Si aggiunga l’aumento del costo dei materiali e della mano d’opera. Cinque anni fa i mattoni si pagavano 34 cor. per 1000, ora costano in media 44. La calce si pagava cor. 4.60 il quintale; ora vale 6.40; i sassi si pagavano cinque o sei anni addietro 18 centesimi il quintale, ora valgono in media 30 cent. Corrispondentemente è aumentata la mano d’opera. Un muratore nel 1903 riceveva in media cor. 3, un manovale cor. 2.40, oggi il minimo per il primo è di cor. 4.10, per il secondo 2.80. Questo aumento del prezzo dei materiali e dei salari è generale anche in Italia. In un recente articolo della «Nuova Antologia» si affermava che nel giro di pochi anni il prezzo delle case è salito del 30 o del 40 per cento. Il prezzo dei fattori di produzione si riversa direttamente sul costo della casa; non abbiamo qui macchine o altri fattori nuovi che permettano per esempio un aumento dei salari, il quale venga controbilanciato da un aumento o un miglioramento della produzione, com’è avvenuto in genere nella grande industria. Il ferro e i cementi armati non sembrano avere avuto grande influenza sui prezzi di costo complessivi. Altre cause dell’aumento del prezzo delle case nuove vanno ricercate nel fatto che ora nel quartiere sono pretese nuove e maggiori comodità, aria, luce, acqua, giardino; altre ancora nelle condizioni del mercato finanziario generale. Ultimamente vi fu un periodo, in cui le nostre banche manifestarono molta riluttanza al mutuo ipotecario; ora vi si ritorna ma le condizioni sono naturalmente mutate e i danari – dopo la crisi americana – rimangono ancora cari. Di più anche a Trento è aumentata la richiesta. Gli inquilini che pure si lagnano tanto dei quartieri, venuti al punto, si fanno concorrenza e rincalzano i prezzi. – E questo daccapo è causato dall’aumento della popolazione e della guarnigione. Ci rincresce che la mancanza di dati statistici ci renda impossibile di calcolare approssimativamente quanto influisca il fattore «popolazione» in quest’ultimo giro d’anni. Ed infine vengono gli aggravi fiscali i quali per la comune gente, perché sono più facilmente calcolabili e controllabili, rappresentano il vero demonio dell’aumento. Ora è indiscutibile che le tasse aumentano e che crebbero anche quest’anno le addizionali provinciali, ma questo solo né questo principalmente giustifica il prezzo elevato che si chiede dei quartieri. Pare tuttavia che qualche proprietario metta le mani innanzi, in vista della minaccia di un nuovo aumento preventivato già nel «provvisorio» per la regolarizzazione degli stipendi ai maestri. Non v’ha dubbio ed oggi mai ne sono convinti tutti i partiti, che l’impresa pigioni e il casatico nella loro presente fattura sono balzelli eminentemente antisociali: solo la circostanza che il sistema tributario provinciale si basa su tutto il sistema sociale dello stato, e che è impossibile premettere la riforma del primo ad una riforma generale può costringere la provincia a cercare i mezzi di soddisfare le nuove ed urgenti esigenze nell’aumento di tali tasse. Comunque non dovrebbe essere lecito ai proprietari di prevenire in via di fatto gli effetti della legislazione. La causa prossima degli aumenti di quest’anno è però l’introduzione dell’acqua. Il municipio tratta coi proprietari i quali dal canto loro devono trattare cogli inquilini. Ora noi non siamo in grado di determinare in forma apodittica il modo diverso che il municipio avrebbe dovuto preferire per riscuotere la tassa sull’acqua. Le difficoltà sono senza dubbio molte. Tuttavia non dovrebbe essere stato impossibile d’impedire che l’introduzione dell’acqua diventasse un nuovo aumento di potere del proprietario di fronte all’inquilino, la cui resistenza è già ridotta quasi nulla da altri fattori. Nel calcolo delle spese di introduzione dell’acqua, nella ripartizione delle spese per il consumo, quando non venga infisso un contatore per ogni inquilino, c’è, come si suol dire, un largo che qualche proprietario – se i lagni sono giustificati – avrebbe già troppo sfruttato. Il meglio sarebbe che l’aumento per l’acqua ed eventualmente il consumo costituissero una sopra tassa o un conto a parte, di facile motivazione. Il proprietario, a quanto pare, calcola in genere di amortizzare le spese di introduzione in 10 anni. Questo breve periodo è forse giustificabile, qualora tutte le spese di riparazione, rinnovazione ecc. siano a carico del proprietario. Tuttavia l’aumento per l’introduzione, supposto pure un contatore per ogni inquilino, non dovrebbe riuscire grave. Abbiamo fatto un calcolo così ad occhio e croce su tre case, poste in tre luoghi differenti della città, non però all’estrema periferia ed è risultato che il proprietario, ammortizzando in 10 anni e con un preventivo sufficientemente largo per l’introduzione, cioè per l’impianto, non dovrebbe chiedere da ogni inquilino oltre un massimo di 12 corone annue. Naturalmente questa cifra non riguarda il consumo, ed è ad ogni modo, molto relativa, dato il grande divario e la molteplicità delle connotazioni. Ed ora, viste le cause, si presenterebbe il problema dei rimedi. Se ne è discusso molto, si sono scritti dei libri, ma i progressi non sono notevoli. E soprattutto anche i rimedi, come le cause del rincaro, devono venir particolarmente ricercati per ogni singola regione ed ogni singolo paese. Il problema dovrebbe almeno essere questo: Come arrestare il continuo aumento delle pigioni? Invitiamo i nostri amici a tentare una risposta; noi pubblicheremo o riassumeremo volentieri quanto può servire a sciogliere il problema nel nostro paese.
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Il Comitato Diocesano vi invita martedì prossimo alla sua adunanza generale. Dev’essere questa non una semplice rassegna dell’attività dell’associazione, ma una breve rivista di tutto il bilancio morale dell’azione cattolica, come si svolse negli ultimi anni. La nostra attività sociale è venuta, per il corso naturale delle cose, a suddividersi in vari rami che, assorbendo da soli le energie di parecchi dei nostri, facilmente li potrebbe staccare da quella concezione unitaria e universale dell’azione cattolica che la deve informare e pervadere tutta. Colgano quindi occasione tutti coloro che lavorano attorno le nostre opere sociali e si riuniscano sotto gli auspici di quella società che fu ispiratrice o moderatrice delle altre, di quell’associazione che deve fornire l’ossigeno dei principii e degli ideali a tutte le organizzazioni di programma sociale cristiano. In mezzo all’attività febbrile delle varie associazioni centrali noi sentiamo il bisogno di sottrarci un giorno al peso sempre più grave delle opere nostre, di liberarci dal complesso meccanismo che ci impone il quotidiano lavoro, per riaffermare in un’atmosfera meno agitata le supreme idealità del nostro operare e i principii immutabili che devono guidarci. Ma anche gli altri soci ed amici che s’occupano meno direttamente dell’azione cattolica sono vivamente pregati d’intervenire. Il rumore della campagna politica, l’urgenza delle opere economiche hanno forse distolto l’attenzione nostra più che non convenisse dai problemi morali dell’educazione del nostro popolo, della preparazione della classe operaia, della formazione della gioventù studiosa. L’adunanza del Comitato Diocesano e l’ordine del giorno che vi verrà trattato vengono in buon punto per ricordarci quanto immenso sia ancora il campo del nostro lavoro, quanto ci rimane ancora da fare per la propaganda delle idee, per la diffusione della coltura, per francare il popolo trentino dagli errori sociali che vengono quotidianamente sparsi e propugnati. Si ricordino gli amici: nell’età ove l’organizzazione ha riassunto un eminente valore sociale, non è lecito affidare l’apologia delle idee e il progresso della propria azione morale all’opera staccata dell’individuo. Solo l’opera associata, organizzata, ridà il suo pieno valore anche al lavoro individuale. Anche nel «far del bene» nelle opere morali ed educative è indispensabile ormai una certa economia, una direzione che garantisca l’azione concentrata di tutte le energie su un dato punto. Venite quindi tutti, o soci delle vallate, vengano specialmente i direttori, i rappresentanti delle società operaie, dei circoli di lettura. C’è bisogno di discussione, di affiatamento, di rinnovare, di restaurare. Ridiamo all’azione cattolica una di quelle giornate che la spinsero innanzi, indicando nuove vie e richiamando l’attenzione dei socialmente credenti e militanti sull’opera degli avversari o sulle tendenze che si manifestano nel momento presente della vita pubblica. E di fronte a codesti avversari, i quali sperano di scusare la propria inerzia col negare all’attività nostra l’aureola di ideali nobilmente e sinceramente sentiti, riconfermiamo solennemente il nostro comune volere di subordinare tutta la varia e molteplice attività delle numerose associazioni all’ultimo e principalissimo fine di mantenere al popolo trentino il patrimonio morale religioso degli avi nostri, usando a sua difesa e a suo incremento di tutti i mezzi che la scienza e il progresso d’oggi ci offrono.
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11906-1910
Dodici o quindici anni fa il socialismo si presentò nel nostro paese con quest’accusa: il cristianesimo con la sua dottrina e con la sua etica ostacola le tendenze progressiste delle classi popolari. Le nuove forme civili e sociali non possono sostituire le vecchie senza dar di cozzo con le istituzioni del cattolicismo, soprattutto senza lottare contro la Chiesa. I membri di questa sono nemici del progresso ed ostili all’elevazione intellettuale ed economica del quarto stato. L’accusa non era nuova né il ribatterla più difficile della secolare polemica che gli apologisti del cristianesimo sostenevano con le dottrine del liberalismo. Ma questa volta alla dottrina s’aggiungeva la propaganda del fatto. Sorgevano istituti, si foggiavano delle forme sociali, che corrispondevano a bisogni ed a tendenze popolari, ma che venivano meditatamente penetrati e circonfusi da uno spirito anticristiano e di ribellione alla Chiesa. Qualcosa più agevole poi, al cospetto di un pubblico interessato o superficiale, di presentare come causa quello che era effetto cercato e voluto, di stabilire una incompatibilità logica ed assoluta fra cattolicismo ed istituzioni popolari, mentre in realtà non esisteva che quella contraddizione incidentale e temporanea che i propagandisti venuti dalla borghesia atea e rivoluzionaria vi avevano messo dentro, a tradimento? Di fronte a questa tattica nuova i cattolici trentini si richiamarono alla loro volta alla prova dei fatti, ponendosi risolutamente sul terreno reale dell’evoluzione economica e sociale dei tempi nostri. Le mutate relazioni economiche tra le nostre classi e tra i nostri centri abitati richiedevano l’organizzazione del piccolo credito, e sorsero accanto ad ogni campanile quegli istituti finanziari autonomi, che, francando i nostri contadini dall’usura, ridiedero loro la libertà civile e resero possibile la partecipazione di queste vergini forze alla vita sociale. La decentralizzazione dei mercati, la trasformazione del piccolo commercio girovago in negozio permanente con un meccanismo molteplice e dissanguatore di mediazione consigliarono d’applicare la forma cooperativa al commercio interno di consumo; di qui fu naturale il passaggio all’organizzazione della vendita dei prodotti. E piano, piano, il nostro popolo, pur eminentemente agricolo e conservatore, si avvezzò, per l’educazione sociale degli istituti cooperativi, a manipolare i suoi piccoli risparmi come capitale di investizione, quale moltiplicatore di prodotti e fattore d’industria. Che dire di un popolo rurale il quale in brevi anni capisce e favorisce l’industrialismo più che non facciano in cinquant’anni molti capitalisti cittadini? Contadini o artigiani, non ricchi, nemmeno agiati, che alla sera, dopo la lunga e laboriosa giornata, discutono lo statuto di una piccola società industriale, di un consorzio di produzione che giovi al loro remoto paese, e ardiscono di fare come hanno fatto e stanno facendo in val di Ledro, in Primiero, nell’Anaunia, in Fiemme? Oh, non sono questi migliori campioni del progresso di quei cento e cento borghesi che lo decantano tutti i giorni, v’intessono attorno discorsi e logomachie, ma curvano poi il capo e le spalle, dentro i segreti ed amici penetrali delle casseforti a tagliare i coupons della loro inerzia e della stasi economica del nostro paese? E quando nel Trentino si pubblicherà il manifesto per l’istituzione di una Banca Industriale non saranno i signori che hanno dietro di sé cinquant’anni di sviluppo economico i primi, né i più a rispondere all’appello, no, sarai sempre tu, o piccola gente della montagna, tu, l’ultima venuta nel campo delle attività moderne, tu che darai un solenne esempio di ardita solidarietà e di quell’elevazione sociale che ti negano, di quell’illuminato patriottismo che non ti ammettono. O audaci accusatori di dieci anni fa, sostate un momento e guardate all’Anaunia! Eccola la reazione, ecco il regresso che cammina, che corre... avanti sulle rotaie della prima ferrovia trentina, pensata, costruita da trentini, con denari trentini, coi risparmi degli emigranti, dei campagnoli, dei montanari che hanno voluto essere fautori del proprio progresso e padroni in patria loro, mentre altri, custodi gelosi delle proprie casse e degli stendardi della patria, da vent’anni assistettero inerti all’evoluzione economica che ci portò in casa il capitale e il dominatore straniero. Guardate ancora: chi sta ai motori, chi dirige? Sono i neri, sono i tenebrosi che prima hanno costruito la fonte della luce e poi l’hanno trasformata in forza viva; ed ora stanno lì, i reazionari, a dirigere l’ultima macchina dei progresso. Ed eccoci qua dopo dieci anni, a chiedervi: ci è riuscita la prova dei fatti? Indoviniamo quello che gli avversari appassionati vorranno ancora opporre. Voi avete, ci dicono, seguito le ultime fasi dell’evoluzione capitalistica, trascorrendo quest’evoluzione più rapidamente della borghesia liberale, ma voi, attenendovi alle vostre dottrine, ed ai vostri principii, rimanete avversari dell’elevazione del quarto stato – ed intendono dire dei «lavoratori dell’industria». Anche qui giova a noi richiamarci alla prova dei fatti. I cattolici trentini hanno aggiunto alle loro associazioni di previdenza, di mutuo soccorso e di patronato le società di cultura operaia, le casse di assicurazioni, le leghe di classe e di resistenza, addestrando gli operai a tutte le forme giustificate che assume la lotta fra capitale e lavoro, fino allo sciopero. Una rete di organizzazioni nuove che corrispondono ad una situazione nuovissima, si distese dai nostri pochi ed esigui centri industriali fino alle desolate colonie dei lavoratori emigranti. Moltissimi operai, – come abbiamo rilevato dalla relazione del Segretariato – hanno giurato fede alla nostra bandiera, e se in questo campo non possiamo vantare uno sviluppo così celere, successi così magnifici come nell’organizzazione del credito o nella cooperazione commerciale o industriale, la colpa va ricercata non nell’asserita incompatibilità della nostra etica o della nostra dottrina coi progressi del quarto stato, ma nell’irreligiosità, nell’odio contro la Chiesa, predicato agli operai, versato a larga mano nell’anima loro, dai profughi della borghesia. Abbiamo così nelle nostre città dei nuclei di operai i quali dopo dieci anni di prove e di agitazioni, attratti sul principio nell’orbita socialista dall’odio di classe e da nuove ardite speranze di riscossa civile, se ne stanno ora apatici, in preda allo scoraggiamento, sfiduciati di ogni sorta di organizzazioni, abbastanza oggettivi per non seguire più incondizionatamente il barbaro rosso, ma non più integri né incorrotti abbastanza per intravedere entro il sommuoversi della nuova società il fulgore dell’ideale evangelico. Ben possiamo provare dunque che anche in quest’ultimo riguardo, dopo dieci anni di lavoro, l’accusa era infondata, l’accusa era una calunnia. I cattolici non sono nemici del progresso, ma ne sono i fautori, le nuove forme della cultura del secolo ventesimo non vengono ostacolate, ma accolte e la Chiesa, secolare maestra delle genti, domina sovr’esse. Si vorrà forse ancora obiettare che l’atteggiamento dei cattolici trentini non fu più di una felice mossa tattica, senza logico nesso coi nostri principii. Ma anche qui noi riaffermiamo senza tema di smentite, che il nostro atteggiamento progressista venne preso in logica continuità col pensiero della Bibbia e del cristianesimo e con la storia della Chiesa. Il primo comando di Dio nella Bibbia è un comandamento sociale e di coltura: Crescite ac multiplicamini, et replete terram et subjicite eam (Gen. 1, 28). Conquista questa terra col progresso, col lavoro, con le arti e con la scienza. Non rinchiuderti nel tuo microcosmo individuo, disse il Creatore all’uomo, ma vivi una vita sociale e dedica le tue cure alla terra e alla collettività. Il mondo, dice ancora l’Ecclesiaste, coi suoi beni, con le sue ricchezze, coi suoi misteri affidò Iddio agli uomini, alle loro disputazioni, ai loro sforzi di progresso e di ricerca del vero e del buono. E dopo la lunga storia del popolo eletto, che è pur storia di coltura e di progresso sociale venne Cristo, non per modificare, ma per completare il testamento antico. Si oppone all’influsso civile della Chiesa e all’attività sociale dei cattolici che il nostro Maestro disse: «Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia». «Ma non aggiunse, risponde Leone XIII nella sua enciclica sul Rosario (1893): Lasciate stare tutto il resto. Ché anzi – continua il Pontefice – l’uso dei beni terreni può servire anche per aumentare e ricompensare la virtù. Il fiore e la civiltà dello stato terreno sono anzi un’immagine dello splendore e della magnificenza del regno celeste». No, Cristo, quantunque ci inculchi l’interno distacco dalle cose terrene, non ci comanda l’assenteismo da ogni attività sociale, né la stasi di fronte alla continua dinamica delle cose e delle classi, Egli che disse: «Bisogna versare il nuovo vino dell’Evangelo in otri nuovi, altrimenti il vino nuovo rompe gli otri vecchi, il vino viene sparso e gli otri vecchi vanno a male. Così invece si mantengono entrambi». E tutti i grandi santi sociali da Paolo ad Agostino, da Leone il grande a Gregorio Magno, da Tommaso a Francesco Saverio, intendono questa dottrina e si valgono dei mezzi che offre la cultura a loro contemporanea. A buon diritto quindi anche noi asseriamo di fronte ad avversari malevoli o a cristiani pusilli che vorrebbero opporci come ideale un loro cattolicesimo incorporeo, segregato da tutto quello che non è puramente individuo o è contingente, che l’azione sociale non diviene solo un voluto argomento di fatto per l’apologia dei principii e delle tendenze della religione, ma è un movimento che trova la sua ragione d’essere nella stessa missione morale e civile del cristianesimo, come va svolta nelle attuali condizioni della società umana. Su tale via possiamo procedere sicuri verso attività nuove e nuove conquiste sì che il nostro pensiero cammini parallelamente alla diffusione della cultura, il nostro lavoro ai progressi della tecnica e dell’economia, il nostro influsso civile proceda parallelo ai gran passi della democrazia. Una cosa, una gran cosa, però, dobbiamo qui avvertire, o amici. Il tram della nostra azione sociale non procede non potrà correre alacre e superare le curve difficili e le ardue pendenze senza il funzionamento regolare della centrale, ove la forza si crea e si rinnova. E la sorgente dell’energia per il nostro treno sociale è il cristianesimo creduto, applicato, praticato anzitutto in noi stessi. Non dobbiamo essere come il trovatello smarrito sulla via che del padre ricorda appena il nome. L’azione sociale nostra si chiama cristiana non solo perché si dirige secondo i principii del cristianesimo, ma perché deve svolgersi con la cooperazione di cristiani integri, sinceri, praticanti secondo l’ideale evangelico e i precetti della Chiesa. Quel medesimo cristianesimo che giustifica ed ispira la nostra azione sociale c’impone durante tutta la nostra attività un sacro dovere: il ritorno costante dalla periferia delle nostre azioni pubbliche al centro morale del nostro interno, all’educazione del nostro spirito, alla rigenerazione della nostra volontà. Solo se preceduta da tale cristianesimo interiore e pratico la nostra opera di riforma sociale sarà logicamente ed intimamente cristiana. Poiché rimane sempre vero che il più grande contributo che può dare il cristianesimo alla soluzione della questione sociale è la rigenerazione dell’individuo, il suo affrancamento dal predominio della materia e dell’interessato egoismo, l’amore a Dio e per l’amore a Dio l’amore al suo prossimo. Di tali uomini e non d’altri si può formare la falange dei riformatori. Ricordiamolo anche nella nostra propaganda: senza la rigenerazione interiore dell’individuo non ci riuscirà la riforma delle istituzioni e dell’organismo. I nostri padri, i primi cristiani, i più grandi riformatori del mondo, non incominciarono con l’organizzazione degli schiavi, dei poveri, del proletariato, ma elevarono in mezzo al disordine sociale, al dominio degli sfruttatori una croce e dissero all’uomo, chiunque fosse: Fratello, Cristo è morto per te! E dalla croce venne poi il concetto dell’umana fratellanza, la riorganizzazione sociale, il vincolo di quella grande solidarietà che noi, venti secoli dopo, cerchiamo di ricostituire sulle rovine di una società rifatta pagana nell’anima e nelle istituzioni.
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1,909
3Habsburg years
11906-1910
La festa del 1° maggio non è più esclusivamente una festa del socialismo come, nonostante, le sue origini più ampie e generali, era divenuta per una dozzina d’anni. È sempre tuttavia il partito socialista, eccettuato i paesi anglosassoni, che le dà il colore e l’intonazione. Cosicché quando i battaglioni operai battono i selciati delle gran vie e gli oratori festaioli urlano la loro rettorica d’occasione, anche gli assopiti, gli eterni assenti dai dibattiti sociali vengono alla finestra e mettono fuori il capo a guardare la fiumana che si riversa sotto il bandierone sanguigno. Sono pochi momenti di considerazione, abbuiati dalla paura, poi le finestre si rinchiudono e dopo un sospiro che vuol dire «è passata anche questa» si rimette corpo ed anima nella comoda tana dell’egoismo, detto anche filosofia pratica. La quale filosofia permetterà poi di concludere a costoro che quest’anno la dimostrazione è stata magra assai, che il socialismo è in ribasso, e che la questione sociale non esiste se non nel cervello dei demagoghi e nel sangue dei rivoluzionari. Codesti filosofi appartengono in genere al liberalismo, non a quello di Adamo Smith o di Davide Ricardo , ma a quello più semplice e più comodo di Gournay , quando disse a Luigi XIV : Laissez faire, laissez aller, – le monde va de lui même – E badano ai fatti loro, sorpassando tutto l’anno ai fatti sociali, o avvertendone qualcuno come fenomeno immediato, quasi un temporale che scroscia e diluvia per dieci minuti e poi se ne va com’era venuto, senza si sappia donde, dove e perché. Costoro stanno a vedere anche oggi come sempre dalle finestre, noi invece guardiamo e consideriamo dalle trincee. Per noi che combattiamo da tempo nella vita sociale la dimostrazione non è un fenomeno isolato, ma un effetto di cause note, noi sappiamo donde vengano quei lavoratori, perché abbiano issata quella bandiera, perché applaudano al nuovo vangelo della rivoluzione sociale. Il socialismo e il movimento socialista hanno perduto per noi quell’impronta di fenomeno elementare che ha incusso tanta paura ed ha provocato tante repressioni. E rifacendo col pensiero il cammino secolare delle idee che crearono il socialismo e ricostruendo con la logica dei fatti quella macchina che da sessant’anni, scattando, produsse il movimento socialista, concludiamo che anche il lavoro di quelli che tentano di spostare la corrente fuori del chiuso e torbido alveo socialista verso i campi più vasti della sana democrazia deve essere non opera d’oggi né di domani, ma lavoro paziente e costante di secoli. Se il movimento socialista fosse creato semplicemente da Lassalle , Jaurès , Adler, Costa , Hyndman , ecc., ci dovremmo spaventare dei suoi progressi, come dovremmo meravigliarci se le cause prossime economico-sociali che ne hanno favorita la diffusione, non fossero già superate dall’evoluzione economica sopravveniente. Ma risaliamo più su con gli anni, esaminiamo gli effetti del Rinascimento e della riforma protestante nel rispetto sociale politico, ricordiamo il rifiorire del centralismo statale parallelo alle conquiste del capitalismo, prodotto dall’immenso sviluppo del commercio e dalla colonizzazione delle nuove regioni, ricordiamo le guerre dei contadini e la reazione sociale contro l’atteggiamento politico del luteranesimo. Erasmo da Rotterdam, accennando agli anabattisti, rivolgeva a Lutero quello che più tardi rinfacciarono ai borghesi i socialisti di Francia: Voi avete fatta l’eguaglianza innanzi al cielo; costoro s’incaricano di farla innanzi alla terra. Ricordiamo ancora la creazione della borghesia bancaria inglese accanto ai Lords nelle cui mani verso la fine dell’Ottocento si accentra la grande proprietà terriera, la bancarotta del capitalismo di borsa di Colbert e contemporaneamente la vittoria della filosofia enciclopedistica fino a Rousseau , propugnatore della libertà umana assoluta entro la quale il progresso e il bene sono sicuri, ed inspiratore della dichiarazione dei diritti dell’uomo che dal 1789 in poi ha fatto il giro del mondo. Alla grande rivoluzione sociale seguì un’era che parve precipuamente politica e fu invece il periodo della preparazione dei grandi conflitti sociali. Non fate le meraviglie di certe incongruenze che trovate nei principii del movimento socialista. Per quanto abbiano travestita la forma loro, vi ravviserete sempre in fondo i prodotti delle officine filosofiche del secolo XIX. Vi pare strano che accanto al supremo postulato del collettivismo assorbitore e centralizzatore venga accarezzato lo spirito individualista fino all’anarchia? Eppure non sono in fondo che le due correnti di Kant e di Hegel che vennero ad incrociarsi, a stranamente fondersi in Lassalle, come la concezione materialista di Marx era stata preceduta dalla filosofia di Feuerbach e come i principii economici di Engels e Brousse , Hyndman risalgono ai liberali inglesi. È tutta una grande officina in cui si lavora dal Rinascimento in qua, lavoro che ha i suoi effetti sociali, quando nel secolo XIX nell’ambito dell’economia familiare e pubblica si va costituendo, per la trasformazione tecnica delle industrie, il quarto stato. Venne su questo proprio quando la legislazione liberale aveva distrutto ogni organismo sociale ed all’assolutismo centralizzatore era seguito il dominio dello Stato borghese, oligarchico e spogliatore. Dovremmo meravigliarci noi se il primo impulso della reazione fu la riorganizzazione sociale? Rimpetto allo Stato liberale ed individualista, ed all’egoismo della classe industriale una sola potenza sarebbe stata in grado di compiere il necessario lavoro di riorganizzazione e di riforma, senza scuotere i cardini dell’ordine sociale, la Chiesa. Ma da tre secoli il liberalismo al potere le aveva strappato ad uno ad uno i mezzi d’influsso sociale e proprio nel momento critico, quando il quarto stato alzando la testa, chiedeva giustizia e riforme sociali, i nuovi parlamentari s’occupavano di legislazione anticlericale ed antichiesastica. Chi sa dire, per esempio, quale movimento avrebbero creato le dottrine di Ketteler se la sua scuola non fosse stata ritardata per quindici anni dal Kulturkampf? Così la Chiesa e i cattolici dovettero e devono tutt’oggi combattere su due fronti, dividendo così quelle forze che applicate tutte e a tempo sul terreno sociale ed economico avrebbero dato diverso indirizzo a tutto il movimento democratico ed all’opera della riorganizzazione. Infine in tutti questi secoli che ci hanno fruttato il socialismo vediamo che «le dottrine religiose pervertite corrompono le istituzioni sociali in senso antipopolare e che poi, in causa delle stesse dottrine, il popolo reagisce con le organizzazioni rivoluzionarie». Il nostro dovere è quindi chiaro e deve riguardare tanto le istituzioni quanto l’individuo. Fu questo specialmente il compito dei cattolici negli ultimi cinquant’anni di azione sociale. I risultati del loro lavoro ci incoraggiano a perseverare. Il monopolio delle organizzazioni operaie è strappato al movimento socialista, la legislazione sociale è in massima parte ispirata dai nostri principii. E mentre il socialismo ha perduto come sistema il carattere scientifico di cui menava vanto contro il cristianesimo, si manifesta sempre più nella vita pubblica la necessità di risalire a principii morali, e nei migliori dei socialisti (vedi recenti discorsi di John Burns ) perde l’attrattiva quel concetto materialistico della vita, che è la cappa di piombo che Marx impose al proletariato. Il grande lavoro della ristaurazione cristiana sarà opera secolare, come secolare fu la demolizione, ma viene fatto, si sta facendo, e noi, cattolici trentini, possiamo vantarci di avervi dato il nostro contributo, relativamente né piccolo né disprezzabile.
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11906-1910
L’alleanza della Germania con l’Austria e con l’Italia, o più precisamente i rapporti tra questi due ultimi stati furono negli ultimi mesi, e saranno ancora tra breve oggetto delle più vivaci e appassionate discussioni. È, il fenomeno che si ripete ad ogni nuovo avvenimento internazionale, e trova le sue cause nella singolarità di un patto di pace e di amicizia tra due potenze che hanno molte ragioni – vere o apparenti non importa – di diffidare una dell’altra, e che infatti si considerano reciprocamente come il più probabile tra gli eventuali nemici. Mentre l’alleanza della Germania con la monarchia è non soltanto proclamata dagli uomini di governo, ma anche dalla stampa e dall’opinione pubblica come un legame intimo, omogeneo, duraturo, non v’è in Italia alcuno che parlando di una possibile guerra non supponga che in questa il nemico da combattere sia l’Austria; e viceversa in Austria v’è un non disprezzabile numero di profeti di malaugurio i quali evocano continuamente lo spettro di un’Italia pronta ad assalire, magari a tradimento, l’Impero. Paura ridicola questa, ma che nonostante ciò – o forse per ciò? – sembra abbia tuttavia la sua influenza in certi indirizzi di governo e in certe misure poliziesche che si usano un po’ troppo largamente nei paesi di confine. La verità vera, invece, è questa: che nel vicino Regno v’è una forte corrente contraria bensì all’Austria, ma non con intenti guerreschi, ma soltanto diplomatici e politici. È la voce del paese che in certi casi si fa forte e soverchia anche quelle dei governanti, i quali tengono ancor fermo alla politica tradizionale. La Triplice non fu mai, nemmeno per brevissimo tempo, popolare in Italia. L’adesione alla duplice che era stata conclusa già nel 1879 fra i due stati tedeschi, avvenne com’è noto nella primavera del 1882 più che tutto per l’attitudine minacciosa della Francia, la quale dopo la conquista della Tunisia aveva iniziata la guerra doganale e non pareva aliena anche da una guerra con altri mezzi. Ma fu necessità di stato, non sentimento di popolo. Anche ora così, e mentre i nostri connazionali del Regno vanno in tripudio se possono fare una cortesia alla Francia, gli offici che devono prestare per assoluto dovere all’alleata vengono fatti a denti stretti e con evidente malcontento. Il Governo italiano finge di non accorgersi di tutto ciò e già si parla di un rinnovamento della Triplice la quale scade soltanto nel 1912. Non si sa se essa sarà almeno mutata in qualcuna delle sue clausole, le quali nel caso nostro sono: benevola neutralità dell’Italia in una eventuale guerra dell’Austria con la Russia, benevola neutralità dell’Austria se l’Italia entrasse in conflitto con la Francia. L’alleanza con la Germania importa invece per l’Italia l’obbligo di entrare in campo contro la Francia, e il diritto di avere eguale assistenza, quando essa fosse assalita. Tutti sanno poi perché se ne è parlato molto in uno dei momenti più critici della crisi balcanica, e anzi la cancelleria di Berlino ne fece una dichiarazione – ufficiale – che l’alleanza austrotedesca è diretta principalmente contro la Russia. Il proposito della diplomazia di rinnovare il patto, che dopo ventisei anni d’esistenza non entrò ancora nella coscienza di un popolo, non incontrerà certamente molta opposizione in Austria, dove si è avvezzi a lasciare che la politica estera se la sbrighi quel qualunque Aehrenthal (il nome non conta) che si trova in poltrona. In Italia invece si farà del chiasso, ma si finirà col lasciare anche qui che s’accomodi il Governo. Due sistemi diversi, dei quali non sappiamo quale sia il migliore, e nemmeno quale il buono. In una rivista viennese che va per la maggiore – la Oesterreichische Rundschau – e precisamente nel numero del 1° maggio giuntoci oggi leggiamo in proposito un articolo, non molto sereno invero, in molti punti, come si potrebbe pretendere da una pubblicazione che vuole dare il là alla stampa nelle questioni scottanti, e da un personaggio che occupa un posto distinto. L’articolo è infatti nientemeno che del Feldmarschall barone Förstner e si occupa degli attriti tra Austria e Italia che potrebbero impedire o rendere difficile l’alleanza. Il più critico, secondo l’autore, sarebbe l’irredentismo, che però è alquanto in ribasso per i lodevoli sforzi del Governo italiano e perché non trova presa tra noi. Ma vi fu un tempo in cui – sempre come dice il signor Feldmarschall – l’irredentismo fioriva nel Trentino persino tra i preti, e l’autorità austriaca si illudeva di liberarsene con un sistema affatto sbagliato, quello delle repressioni poliziesche, mentre il vero sistema è quello di favorire l’altra nazionalità confinante, in modo che diventi forte e schiacci l’italiana, come avvenne p. e. in Dalmazia. L’altro attrito è per l’università. Anche qui il Governo austriaco è in colpa. Appena s’accorse che la questione era matura doveva scegliere esso una città italiana, mettervi l’università, tutto alla svelta, senza aspettare le agitazioni, che per il suo contegno dovevano venire. La terza ragione degli attriti sono gli armamenti che l’Austria fa continuamente ai confini meridionali. Ma qui l’amico se ne sbriga con poche parole affermando che – per quanto sa lui – sono tutti di natura difensiva, e necessari per la sicurezza, e per non perdere i denari spesi in quelli che c’erano prima... Concludendo egli spera che la Triplice duri ancora a lungo. Noi anche – e perché non dovremmo dirlo? – lo speriamo. Gli italiani in Austria staranno sempre meglio quanto più le relazioni col Regno dei loro connazionali saranno buone. Se tra la Monarchia e l’Italia nascesse quella tensione che vi fu già per tanti anni con la Francia, – e ciò avverrebbe inevitabilmente, tolta l’alleanza, – noi non avremmo che a perdere. Ma appunto per questo auguriamo anche che l’Italia aumenti sempre più la sua forza perché la sua partecipazione alla Triplice non sia soltanto onoraria ma efficace e effettiva per tutti gli italiani.
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1,909
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11906-1910
Venti righe di prosa congestionata, che vorrebbero essere un articolo di fondo nel Popolo di ieri , ci danno lo spunto per ritornare sulla questione della Triplice, o meglio dell’alleanza tra l’Austria e l’Italia, nella quale siamo noi pure, come italiani appartenenti allo Stato austriaco, in molteplice modo interessati. Naturalmente, poiché a noi mancano i lumi dei quali rifulge la redazione del giornale socialista, non presumiamo di sciogliere la gran questione se per l’equilibrio del mondo e per il benessere dei popoli sarà meglio che l’Italia aderisca alla Triplice Alleanza o alla Triplice Intesa . Crediamo con ciò che i pareri siano alquanto divisi, e che vi siano tra gli stessi italiani del Regno, uomini molti e gravi e riconoscenti patriotti, ai quali il problema non sembra di così facile soluzione, come apparirebbe loro forse se fossero illuminati dalla luce del Popolo, la quale, tra parentesi, a risparmio di spese postali, potranno procacciarsi dal loro tabacchino con cinque centesimi, comperando Il Secolo o Il Resto del Carlino o qualche altro giornale della lega. Si tratta semplicemente di vedere se per il nostro piccolo paese giovi o nuoccia questa alleanza, o se almeno siano da sperare da essa maggiori vantaggi che danni. Il Popolo tripudia perché ci siamo detti favorevoli alla Triplice e ne fa un avvenimento quasi storico. A dir vero non c’era nemmeno passato per la mente né di fare una grande confessione, né di dire una grande eresia. Noi siamo triplicisti. E perché no? Vedrete che cascherà il mondo per questo o che il Trentino diventerà terra di barbari! C’è da ridere e c’è da compatire quando un giornalista arriva a scrivere a Trento della roba come questa che si leggeva ieri nell’organo dei patriotti internazionali: «Si dicon dunque triplicisti. Essi godono di veder Tittoni genuflesso davanti ad Aehrenthal. Essi sono beati di constatare gli effetti di una politica che avvilisce l’Italia dinanzi alle nazioni civili e mantiene noi – italiani dell’Austria – in uno stato di opprimente miseria. La Triplice ha voluto dir per l’Italia: spese militari eccessive ed in continuo aumento, freno al libero espandersi delle forze nuove, cieca e supina rassegnazione di fronte ad ogni prepotenza tedesca: sia che si straccino i trattati internazionali o si neghi a noi il diritto alla cultura italiana e all’amministrazione autonoma. Tutto questo piace ai clericali che mercè il vassallaggio della Triplice sperano nel trionfo del papa re. Con una frase riassuntiva la Triplice potrebbe definirsi: gli italiani picchiati all’estero e... all’interno. Ricordiamo questo e ricordiamo la candida confessione dei nostri clericopopolari». Se la cultura politica dei trentini può avere un indice in queste elucubrazione sanguigne e poco cerebrali, non c’è davvero da essere lieti. Notiamo intanto, appena di passaggio, a proposito del Tittoni genuflesso che noi avevamo scritto espressamente: «Ma appunto per questo auguriamo anche che l’Italia aumenti sempre più la sua forza perché la sua partecipazione alla Triplice non sia soltanto onoraria ma efficace e effettiva per tutti gli italiani» . Un’idea un po’ differente, nevvero? Ma via, la malafede farà da salsa al fritto. Per noi il Tittoni non entra in discussione. Domani potrebbe essere un altro il ministro degli esteri d’Italia, e la Triplice restare, perché essa non è affatto l’opera personale del ministro ultimo venuto, il quale si dice (sarà o non sarà) farebbe una buonissima politica se invece di essere un clerico-moderato, fosse putacaso un radicale. La partecipazione dell’Italia alla Triplice fu decisa dal ministro Mancini sotto il ministero Depretis e si mantenne attraverso ventisei anni quantunque uomini di più diverso pensare, di destra e di sinistra fossero passati per la Consulta. De Robilant , Crispi , Di Rudinì , Brin , Blanc, Visconti-Venosta , Prinetti , Guicciardini , e quello stesso San Giuliano che si vuol rappresentare come l’avversario di Tittoni, non furono rischiarati nelle loro tenebre diplomatiche dalla luce del Popolo. Ma, ripetiamo, tutto ciò importa poco o nulla. I rapporti internazionali non si annodano o si mutano con facilità, con la quale si possono scrivere alcune sciocchezze su di un giornale. Noi saremo curiosi di sapere, per dirne una, perché mai l’unione con gli imperi centrali abbia causato all’Italia quelle eccessive spese militari che non vi sarebbero state in caso contrario. State un po’ a vedere che se ora l’Italia spende per essere forte in ogni eventualità, specialmente contro l’Austria (e non abbiamo noi sentito che tutte le discussioni si fanno per la difesa del confine orientale e per il possesso dell’Adriatico) quando con questa fosse in stato di tensione o di ostilità potrebbe rimanere tranquilla nella quieta sicurezza di non essere molestata. Forse affidandosi a nuovi alleati? Ma è cosa risaputa che l’Italia, e così qualunque altra nazione, sarà accettata in un’altra combinazione europea solo a patto di essere militarmente forte. I sentimentalismi hanno fatto il loro tempo. Ancora più curiosi saremmo di sapere come il vassallaggio della Triplice preparerà il trionfo del papa-re . Forse tra qualche giorno un corpo d’esercito austriaco andrà a Roma a ristabilire il potere temporale? Speriamo che questi volonterosi domanderanno, prima di mettersi in via, il consenso del Papa, chi sa che egli non mandi loro un bigliettino pregandoli di non disturbarsi? Comunque domandiamo di nuovo: che cosa potrebbe sperare il Trentino nell’ipotesi di un mancato rinnovamento della Triplice e della conseguente inimicizia dell’Austria col vicino regno? Niente di buono certamente. Finora, questo è pure certo, noi gli effetti dell’alleanza poco abbiamo sentiti. Ma una più avveduta politica della nazione potrà giovare, non v’ha dubbio, anche ai suoi appartenenti di là del confine politico. In ciò dipenderà molto dalla abilità del ministro e se Tittoni ha peccato, espii, noi non lo rimpiangeremo che di volta in volta sappia sfruttare la posizione, ma v’è sempre come premessa necessaria che esista l’alleanza. Ponete invece l’antagonismo aperto, dichiarato, riconosciuto. L’università, l’autonomia, la giustizia nazionale vi verranno per la cappa del camino? Sarà l’era nuova allora, quando soli, senza un appoggio neppure morale, sospettati, invisi dovremmo difendere quello che abbiamo senza neppur pensare a nuove conquiste! Ovvero, ce lo dicano chiaro i patrioti dell’internazionale, sperano essi in una guerra? Padroni, gli antimilitaristi, di versare... l’inchiostro per la patria, noi la guerra non ci sentiamo davvero di augurarla. E con noi sono di uno stesso pensiero tutti quelli che parlano e scrivono con la coscienza d’una responsabilità, e primi di tutti gli italiani del Regno, i quali sono convinti che un’azione militare alle condizioni presenti sarebbe una follia. Ne chiedano pure, se credono, gli eroi mancati del Popolo ai loro uomini grandi del partito, i quali in questi giorni trattano ampiamente nell’Avanti delle spese militari, e se non ne hanno abbastanza, ebbene si rivolgano per consiglio al V. Pittoni.
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11906-1910
Il signor ministro delle Finanze consacra tutto il suo tempo preziosissimo ad escogitare nuove imposte. Da uomo pratico e positivo, Bilinski ricorse prima alle tasse indirette cercando nell’acquavite e nella birra un cespite sicuro e abbondante. Ciò facendo, Bilinski, l’arguto e dotto autore di economia politica, ammise d’essere alquanto in contraddizione con Bilinski tesoriere dello Stato, mentre costui proponeva l’aumento di quelle tasse che il sociologo vorrebbe escluse. Il ministro ha superato facilmente questo contrasto teoretico, confessando semplicemente di non saper far meglio e che ad ogni modo, la pratica pesava più che la grammatica. Fin da principio tuttavia dovette parergli che le opposizioni degli altri non sarebbero così facili a soffocare come i suoi scrupoli privati. Specie il rincaro della birra di 2 cent. il litro provoca nuove agitazioni di protesta da parte dei socialisti. Ma anche nei partiti governativi si sollevarono non pochi scrupoli. Cercate i danari altrove, tassando il capitale, aumentando le imposte dirette, si gridò da tutte le parti. E il ministro presto prestissimo accondiscende al desiderio dei democratici, annunziando una nuova serie di imposte. Per sostituire la prima? Nient’affatto; da aggiungersi a quella, quasi per una perequazione dei nuovi pesi. Così venerdì, e noi l’abbiamo già annunziato telegraficamente sabato, il ministro presentava ai deputati della commissione del bilancio un vario bouquet di tasse, questa volta risorgeva Bilinski, il politico-sociale. Il finanziere non vi trova troppo gusto. Sono puri 20 milioncini che si ricavano dalle nuove imposte. Sono pochini davvero... e converrà subito provvedere ad una filza. In cambio le annunziate riforme hanno quasi tutte un sapore moderno ed un’indole politica-sociale. Della tassa ereditaria progressiva il ministro non ha ancora detto verbo in particolare. Ha parlato chiaro invece dell’imposta rendita personale, la quale subirebbe due riforme nel senso della progressività. Sopra le 20.000 Cor. è proposto un aumento progressivo dal 5 al 20 per cento del piede d’imposta presente in modo che il risultato finale sarebbe l’aumento dell’imposta rendita personale dal 5 al 6 per cento. La seconda riforma è la cosiddetta tassa sugli scapoli e sulle zitellone. Niente di comico, signori miei. Non è a credere che Bilinski abbia pensato a favorire il matrimonio, ispirandosi alla celebre legge d’Augusto. È notorio tuttavia che a questa imposta, proposta recentemente in Inghilterra ed in Germania, vengono attribuiti anche degli effetti morali. Comunque, sembra corrispondere ad un concetto d’ampia giustizia distributiva. Bilinski propone che l’imposta rendita venga calcolata del 15% più alta per quelle persone che non hanno da provvedere a nessuna persona e del 10 per cento più alta per quelle persone che hanno da provvedere ad una persona sola. Vi pare errato il principio? Il ministro non spera tuttavia di far danari con una simile tassa e noi d’altro canto siamo anche del parere che non devono fondarvi troppe speranze nemmeno le ragazze da marito. Se aggiungiamo un’imposta sulle tantiemes ed un aumento dell’imposta sui dividendi, il mazzo è completo. I commenti sono oramai molti e variissimi. La Neue Freie Presse e tutti gli organi dell’alta finanza designano il secondo piano di Bilinski una riforma demagogica che aggrava l’industria e intralcia il libero sviluppo del capitale. La Presse si scalda anche per la morale e, perduta d’un tratto la sua programmatica statolatria, leva la voce contro la prepotenza dello Stato ch’entra perfino dentro le sacre mura della famiglia naturale, tassando coloro che non hanno moglie o figli nel senso giuridico o confessionale. Quello che più brucia è però la tassa sulle tantiemes – e si capisce! Intanto i deputati ritornando – pare ai 3 giugno – alla Camera dovranno occuparsi sul serio anche di questo secondo ingrediente che il ministro delle Finanze ha posto dentro l’amara pietanza principale, l’aumento delle imposte indirette.
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1,909
3Habsburg years
11906-1910
Dopo quel tal incontro all’incrocio delle due viottole di rimpetto al tabernacolo delle anime del Purgatorio don Abbondio non era più lui, lo diceva anche Perpetua. Gli rintronava sempre all’orecchio l’intimazione terribile accompagnata da quel gesto che gli occupò siffattamente la fantasia da procacciargli un febbrone in tutta regola. Chi, anche senza il lungo ragionamento del narratore, si sarà meravigliato se il povero parroco, a differenza del principe di Condè, ebbe i brevi sonni popolati di fantasmi? Nessuno, perché don Abbondio era un vile inerme ed il suo avversario un forte prepotente. Pare strano invece che la grande, la gloriosa Albione, dopo l’incontro di questa primavera sia scossa tratto tratto da qualche sussulto di febbre o patisca d’insonnia. La Gran Bretagna diventa nevrastenica, ecco l’ultima novità del secolo ventesimo. Come avvenisse l’incontro nessuno lo sa di preciso e non se ne è occupato ancora nemmeno un romanziere. Ma appunto per questo giornalisti, deputati, agitatori politici lo descrivono a linee larghe, benché non definite, benché interrotte, come tutte le cose ricostruite nel sogno. E i giornalisti inglesi, parlando con fare misterioso del bravo coi baffi alla Haby (es ist erreicht!) lo chiamano oramai «the master of Europe», ricordando il gesto di minaccia che chiuse il giuoco balcanico, il brindisi nella Hofburg, il telegramma a Vittorio. E intorno a quest’incontro che sogni, che fantasmi! S’è detto per mille anni: «freddo come un inglese». Che ci tocchi rovesciare l’aggettivo? È un fenomeno stranissimo, un caso di psicopatia collettiva. Abbiamo visto alcuni giorni or sono un gruppo di inglesi, sempre misurati e quasi di ghiaccio, guardare alle rovine del palatino, mentre noi e tutte le altre «genti minori» compresi i tedeschi davamo maggiore o minore espressione di voci e di gesti alla nostra ammirazione. Poco dopo li abbiamo rivisti in un caffè ed un amico comune ci spiegava la loro animazione straordinaria: leggevano lo Standard e precisamente la solita rubrica, ove si parla di invasioni germaniche, di spionaggi, di Dreadnoughts , di aeronavi e di Guglielmo. Non fatevi più le meraviglie di niente, quando dovete leggere nero sul bianco che un deputato interpella il lord dell’ammiragliato sui seguenti fatti: Un’aeronave misteriosa appare e dispare lungo la costa e fino sopra Londra. Una notte da una torre i vigili udirono che nell’aeronave si parlava tedesco. Trattasi di uno Zeppelin? Un altro deputato, sir George Doughty sa di preciso che alle foci dell’Humber s’è visto non solo una nave tedesca, ma anche una flotta intiera che vi manovrava pacificamente. Quali provvedimenti intende V. E. di prendere per ...? Nessuno ha risposto, è vero, ma le notizie fantastiche, a cui abboccano uomini seri, non cessano, tanto che sabato il ministro del commercio Churchill , uomo moderno e antimilitarista, tenne a Manchester un discorso, in cui fece appello al buon senso ed al sangue freddo della nazione. Alla madrepatria vengono poi in soccorso anche le colonie. Figuratevi che si scaldano perfino in Australia. Lo Star, giornale di Sidney, propone, per finirla davvero, il boicottaggio delle merci germaniche. Se le colonie inglesi vogliono, la Germania, perde subito un quinto della sua esportazione. Dunque niente comperare, fino che la Germania fabbrica navi da guerra. come si vede i turchi fanno scuola perfino nel nuovissimo mondo! Sono fantasmi, ribattono gli antiimperialisti, sono sogni. E chi nol vede? Sì, ma dietro a queste ombre c’è qualche cosa di reale, di vero. Le proporzioni sono ingrandite, esagerate, ma la cosa esiste. È la potenza politicocommerciale della Germania che aumenta, è il nuovo impero marittimo che si espande non per torre ma per contrastare alla regina il dominio assoluto dei mari. Gugliemo poté essere chiamato talvolta un mattoide, tal altra un genio, ma non v’ha dubbio che il capo del forte impero impedisce all’Inghilterra di governare il mondo come ai tempi di Lord Palmerston , Gladstone e Disraeli . L’egemonia è perduta. Gl’inglesi possono compiangerla, ma gli europei devono essere lieti che le egemonie tramontino tutte, che nessuno riesca ad acquistarla. Peccato che il nuovo equilibrio o la nuova tensione costi a tutti gli stati centinaia di milioni. È una paura che reca più guasti di quella di Don Abbondio. Né giova alcun appello alla giustizia, all’equità, al buon senso. La va di bravi, di micheletti, di lanzichenecchi e le «ragioni morali» vi vengono trattate come Fra Cristoforo nel palazzotto del prepotente. Che bisogni invocare la peste a rimettere le cose a posto?
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1,909
3Habsburg years
11906-1910
Le condizioni della questione universitaria in questi ultimi giorni si sono notevolmente migliorate e se n’ha un indice eloquente nella manifestazione della stampa tedesca, tanto liberale, quanto cristiano-sociale. La Neue Freie Presse nel numero di Pentecoste osserva che non soltanto gli italiani combattono la proposta di Vienna e sostengono Trieste, ma anche i tedeschi dai vari partiti dividono ormai in buona parte il parere degli italiani. I tedeschi liberali non possono tollerare che nell’Austria inferiore sorgano istituti d’insegnamento con una lingua diversa dalla tedesca. Nei cristiano-sociali che da principio sembravano propensi al progetto governativo, si fa ora valere la corrente contraria che si accorda pienamente coll’idea dei tedeschi liberali. I socialisti e i ruteni furono sempre favorevoli a Trieste; ed ecco con ciò assicurata la maggioranza all’emendamento chiesto dagli italiani. Il nuovo indirizzo preso dai cristiano-sociali trova conferma in una dichiarazione del deputato cristiano-sociale d.r Schlegel dell’Austria superiore il quale, come riferisce la Reichspost, si è espresso nel senso che si dia una buona volta agli italiani la Facoltà giuridica a Trieste, togliendo di mezzo una questione che ha cagionato abbastanza disordini. In tutto questo nuovo orientamento hanno buona parte le condizioni politiche interne e c’entra pure la politica estera. I tedeschi, benché pongano la massima fiducia nella duplice austro-germanica, desiderano tuttavia vivamente di mantenere buone relazioni coll’Italia e rafforzare la triplice, del che fu chiara dimostrazione la visita di Guglielmo a Brindisi e lo scambio di telegrammi fra Vienna e Roma quand’egli subito dopo si recò a visitare Francesco Giuseppe. Ma più importanti ancora nel momento presente sono le ragioni parlamentari. Il governo presente, sostenuto dai tedeschi e dai polacchi, è fieramente osteggiato dai socialisti, dai cechi e dagli slavi meridionali e dai ruteni. Questi due gruppi, tedesco-polacco e slavo-socialista, si stanno di fronte con forze pressocchè uguali, e il tracollo alla bilancia viene dato dall’Unione latina. L’importanza che in tali circostanze l’Unione latina ha assunto già da parecchi mesi viene accresciuta dal fatto che in seno ai polacchi si è manifestato un vento di fronda che spira dall’infido gruppo popolare dello Stapinski, il quale nelle ultime votazioni, e di recente in quella sul ministero della giustizia, si assentò coi suoi, mettendo il governo sull’orlo del precipizio. Tanto la Neue Freie Presse quanto il d.r Schlegel, le cui parole, come dicemmo, vengono riportate dalla Reichspost, credono perciò necessario che i tedeschi cerchino di attirare a sé gli italiani e mantengano con loro buone relazioni per assicurare la maggioranza parlamentare contro l’opposizione. Per amicarseli, sarebbero disposti a votare per Trieste. È vero che lo Schlegel richiede perciò che gli italiani assicurino in cambio un rinforzo dell’elemento tedesco in quella città; vero ancora che lo stesso deputato afferma esservi ancor molti tedeschi che aborrono Trieste, ma altrettanti, egli dice, sono contrari a Vienna epperò raccomanda di soddisfare il desiderio degli italiani. Tutto sommato, si deve ritenere che le condizioni per gli italiani sono molto più propizie che qualche mese fa e che, persistendo l’attuale costellazione dei partiti alla Camera, vi sono maggiori speranze di buona riuscita. Buona parte dell’opposizione, socialisti e ruteni, si sono già dichiarati per Trieste, né potrebbero onestamente ritirarsi, i tedeschi combattuti dall’opposizione ceco-sloveno-croata, e bisognosi dell’aiuto degli italiani, danno segni di mutato indirizzo, ed anche il governo, come dice la Presse, sotto la pressione della maggioranza non si incoccierebbe in Vienna. Sotto questi auspici ci avviciniamo alla discussione della Facoltà giuridica nella commissione della bilancia. Che la fortuna una buona volta ci arrida?
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1,909
3Habsburg years
11906-1910
Il Popolo, per chi nol sapesse, è l’organo dell’on. Avancini; ne fu anzi il creatore, quando in sull’inizio dei tempi nuovi, chiusa per sempre la serie dei deputati vili, infingardi o sciocchi, Trento assurse all’onore di chiamare suo rappresentante l’augusta persona del candidato socialista. Da quella fausta giornata il Popolo, feroce demolitore degli obsoleti costumi clerico-liberali, inaugurò la cronaca dettagliata dell’attività parlamentare del suo eletto, invitò tutti a discuterla liberamente e segnò giorno per giorno con crescente orgoglio i discorsi, i successi, i trionfi dell’homo novus. I cittadini della capitale trentina leggono, commentano e plaudono ed ogni giorno chiamano beata questa verde generazione che piantò a far da cariatidi delle istituzioni gli uomini vecchi alla Tambosi, sollevando invece nelle alte sfere della vitalità politica i campioni della democrazia sociale. È forse la chiara coscienza di codesto unanime consenso, di codesta entusiastica ammirazione in aumento per il suo deputato, che permette al Popolo qualche rarissima volta d’occuparsi anche degli altri dei minorum gentium. Poniamo il caso dei deputati popolari. E tanta è la sicurezza che il raffronto fra i nostri e il suo riuscirà a maggior gloria di quest’ultimo, che per i nostri non risparmia le critiche più acerbe, le condanne più decisive, oltrepassando i confini di quella che i vecchi (oh! anime vili!) chiamavano modestia o di quella che i filosofi (oh! babbuini!) dissero logica. Per alcun tempo parve tuttavia a molti che negli attacchi del Popolo un filo di ragionamento vi fosse, e doveva essere questo: se l’on. Avancini è all’opposizione, segno che votare per il Governo è politica funesta, traditrice o per lo meno imbecille – per la ragione dei contrari. E il Popolo schernì i giannizzeri, i trabanti, i lacchè governativi, quei clericali trentini accasciati sempre, tutti i giorni ai piedi dei ministri, a leccare le punte dei loro stivali. Ma venerdì i popolari e i liberali trentini si sono astenuti. Il governo ora in pericolo, pochi voti bastavano a salvarlo: gli emissari della maggioranza frugano dappertutto ma i trentini non si lasciano scovare. Ah! cani urla il Popolo e chiede, correndo col pensiero all’ex uno disce omnes, vi state rincantucciati in cantina? Fuori, venite in soccorso del governo! Si tratta «d’impedire una crisi o il conseguente arenamento dei lavori parlamentari». Si tratta di «giovare ad una causa che interessa tutti gli italiani dell’Austria: alla causa universitaria». «È noto – argomenta il Popolo di ieri – come, specialmente per influenza dei socialisti, molti deputati non italiani avessero dichiarato di accettare come sede la facoltà di Trieste... Tutto questo però era fattibile a una condizione: che l’attuale Governo non dovesse cadere o ingolfarsi in una crisi lunga» . Badate bene, o lettori, è il Popolo che scrive così, l’organo dell’on. Avancini. Avancini ha votato contro il governo con tutti i socialisti; il partito internazionale rosso è parte di quella coalizione slava che ha giurato la morte a Bienerth, al ministero reazionario. Fino a pochi giorni fa il Popolo sulla falsariga dell’Arbeiterzeitung e del Lavoratore gridava morte al governo e voleva la crisi e a chi gli opponeva che si avrebbe di conseguenza l’«arenamento dei lavori parlamentari» sghignazzava sul viso. E i socialisti tutti, compresi Avancini, Scabra, Pittoni e compagnia misero in moto ogni leva per abbattere quel ministero, la cui caduta – secondo il Popolo porterebbe con sè la rovina o il ritardo della questione universitaria. Dunque una delle due: o il Popolo ha ragione ed allora Avancini ha agito male, o il deputato di Trento ha votato logicamente ed allora è il Popolo che sragiona. O celebratori del patriotismo internazionale diteci voi: se astenersi dal votare per il governo riesce di pregiudizio alla causa universitaria, qual danno recherà alla medesima causa il votare contro il governo, cercando di abbatterlo, provocando la crisi, l’arenamento dell’attività parlamentare? Il Popolo non poteva stampare una condanna più recisa della politica dei suoi deputati. È il caso in cui l’internazionalismo nega gli interessi della propria nazione. Gli italiani, dice il Popolo, in questi momenti, farebbero cosa buona ad appoggiare il Governo; i socialisti italiani, invece, contro gli interessi dell’italianità e del proprio paese, devono obbedire ai cenni di Adler, Schumeier e Nemec; marciare, intruppati cogli altri, contro il governo, senza un pensiero per gli interessi della nazione, senza preoccupazioni per l’eventuale vittoria dei croati che hanno messo il veto a Trieste. È la medesima logica, lo stesso amore di patria che permette a Pittoni di dirsi il più sincero propugnatore dell’università italiana a Trieste, mentre apre col compromesso elettorale le porte della città al cavallo di Troia donde sbarcheranno gli slavi a proclamare la fine di quell’italianità che hanno sempre e pertinentemente negata.
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1,909
3Habsburg years
11906-1910
«Vuole l’antico costume che alla sera delle grandi e delle piccole vittorie si raccolgano a lieta brigata quelli che parteciparono alla battaglia. Così dagli eroi d’Omero agli eroi di Garibaldi. La nostra guerra è diversa nelle armi e negli scopi da quante guerre furono mai combattute; per questo l’antico costume si purifica perpetuandosi in noi che alla sera della vittoria non abbiamo rimorsi di sangue versato né ricordi di tradimenti o di viltà». (Il segretario Mussolini nella festa dei falegnami alla Camera dei Lavoro). Non sappiamo se le spoglie opime o le rosolate coscie di buoi della Camera del Lavoro abbiano mosso la fantasia del signor segretario «del risonante mar lungo la riva» fino alle trincee dei coturnati Achei, combattenti sotto le mura di Troia. C’è da scommettere però che a codesta ellenica rinascita abbia contribuito più l’esaltazione della fantasia che il fumo dell’arrosto proletario. Comunque, per quanto mi dispiaccia di concedere altri cinque minuti di celebrità al signor Benito Mussolini, dobbiamo convenire che egli non ha rievocato il paragone a sproposito. Eroi, eroi omerici sono i capitani della moderna socialisteria. Pensate a certi comizi, e ricorderete il Parlamento dei greci, ove Tersite «di scurrili indigeste dicerie pieno il cerebro» provocava le genti; pensate a certi congressi, e vi parrà di riudire le invettive e le sanguinose ingiurie che si scagliavano in viso l’Atride e il pie’ veloce Achille. Si ritirarono poi gli sdegnosi sotto la tenda, per uscirne non mossi da doni espiatori, né attratti dall’imminente rovina del partito, ma per riprendere quel campo, ove ormai non risuonava più la campana col suo «Batocio» ammonitore dei proletari contro le tresche borghesi dei capi. Il campo dell’equivoco si riapriva dinanzi sgombro. Ed eccovi di nuovo la rievocata scena omerica fra il Xanto e lo Scamandro. Quante volte il fuoco nemico avrebbe arse le navi, se gli dei non si fossero precipitati dall’Olimpo in aiuto. Si capisce, l’antico costume va purificandosi ed alla difesa d’uno scudo si sostituirà ora nel rinnovato costume l’avallo di una firma. E grati gli eroi a codesti «dii ex machina» limiteranno la pugna ad un torneo di ingiurie contro la borghesia, respingendo il grande acciaro nel fodero quando converrebbe dar tregua alle ciance e por mano al ferro. Poiché qui veramente, ci è forza di confessarlo, una differenza, una piccola differenza tra gli eroi omerici e gli eroi del partito socialista trentino, esiste, né si può negare. Entrambi pronti alle ingiurie ed alle invettive, garritori e verbosi come femmine «quando li prende di bombar la voglia» gli eroi contemporanei hanno ben diritto di ripetere le parole di Enea quando disse all’assalitore: Entrambi Possiam d’ingiurie aver dovizia e tanta Che nave non potria di cento remi Levarne il pondo. Ed alle ingiurie s’accompagna il fiero aspetto. Entrambi «guatano bieco», scuotono i corruschi elmetti e squassano le gravi aste. Disse (conclude Omero la verbosa sfida), e fulminò la ferrea punta o le «funeste quadrella»... finché l’avversario piegando le ginocchia cadde rumoroso nella polvere. Ma degli eroi proletari in lotta contro la borghesia, Omero dopo la bombata di prammatica dovrebbe conchiudere: Disse... e non fece niente. Ed è questa la piccola differenza, a cui non ha forse pensato l’ultimo segretario della Camera del Lavoro. Il penultimo potrebbe già informarlo meglio, il terzultimo meglio ancora e così via, sempre più addentrandosi nei misteri della casa di vetro, fino al giorno in cui «Il Batocio» chiedeva che differenza vi fosse fra «Il Popolo» e il liberale borghese «Alto Adige», e che cosa restasse di antiborghese nel partito socialista ufficiale del Trentino. O forse i tempi sono mutati, poiché è permesso al signor Mussolini di «far della letteratura» radico-socialista? Gli eroi se ne vanno, signor segretario, quando si vedono di faccia le porte Scee delle imprese municipali e le lotte del capitalismo borghese. Gli eroi riservano i loro strali per il partito dei 50.000 contadini e lavoratori, per le Cooperative e le istituzioni economiche che hanno raccolto tutte le energie sparse per far opera di rinnovamento sociale e democratico del nostro paese. Codesti eroi sanno forse che le granitiche mura rintuzzano gli strali imbelli senza scosse, ma che importa? A loro basta di servire gli interessi di quel capitalismo, a cui prestano sempre sì celere aiuto; ed hanno ragione, poiché non è dalle nostre rocche che discendono gli dei dell’Olimpo.
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1,909
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11906-1910
La nomina del nuovo cancelliere è generalmente accolta con benevolenza. L’uomo, quantunque da molti anni nella vita pubblica, non s’è ancor guastato con nessuno, e tutti sperano di avere in lui o un amico o almeno un avversario poco energico. Infatti le sue origini politiche sono conservatrici, la sua tendenza personale moderata, i suoi modi concilianti. Perciò i conservatori lo considerano come uomo proprio, il Centro gli si pone innanzi con benevola neutralità. Il grande partito, per mezzo dei suoi organi più autorevoli, si limita semplicemente ad osservare che da 30 anni a questa parte nessun cancelliere, – nemmeno Bismark, – ha potuto a lungo governare senza il Centro, e che il Bülow, il quale volle provarvisi cadde nella lotta. Bethmann terrà conto dell’ammaestramento e dell’esperienza sua propria, fatta durante il tempo in cui resse il ministero dell’interno. E questo si spera perchè specialmente nell’ultimo anno egli aveva assunto una attitudine molto cortese verso il Centro, pur rimanendo fedele al suo signore e padrone Bülow. I liberali, a loro volta, non lo vedono di mal’occhio perchè in questi due ultimi anni egli adempì zelantemente il suo ufficio, al quale era stato chiamato dal suo predecessore, di ministro fiduciario del blocco. Complessivamente, se s’ha a dire il vero, il Bethmann fa l’impressione di non essere una grande personalità ma piuttosto un abile e fortunato burocratico, e soprattutto un fedelissimo suddito di S. M. il quale avrà così l’occasione di farsi sentire un po’ più che non gli fosse concesso quando l’amico Bernardo occupava la Cancelleria, e sapeva a tempo e luogo anche dire il fatto suo all’amato ma troppo vivace sovrano. È questo forse il maggiore pericolo che può venire dal mutamento di cancelliere: la ripresa del regime personale, la quale, per quanta stima si possa avere delle doti di Guglielmo, si deve pur ritenere pericolosa e dannosa, e che può causare delle spiacevoli conseguenze. C’è anche l’aggravante che il Bethmann è affatto nuovo alla politica estera, e che la Germania oggi abbisogna per questa di una persona di altissimo valore, essendo la sua posizione in Europa difficilissima, tanto che lo stesso Bülow diplomatico sagacissimo e consumato ebbe più volte a subire degli scacchi. Tuttavia questi pronostici potrebbero anche essere smentiti dagli avvenimenti, e il Bethmann non ostante il suo passato burocratico e pedantesco e la sua cultura filosofica, divenne un uomo di stato di primo ordine. Staremo a vedere.
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11906-1910
Faticosamente, ma con una tenacia mirabile il gruppo dei cattolici italiani che si schiera intorno al prof. Toniolo cerca la via della organizzazione delle forze cattoliche italiane. Le difficoltà sono tante e di tale natura che solo l’entusiasmo più costante, la fede più indiscussa nell’ideale possono spiegare uno sforzo così perseverante ed un’insistenza così energica. All’estrema sinistra le rovine del modernismo, all’estrema destra polemisti intemperanti assorbiti tutti dal mestiere di abbattere il modernismo anche dove non esiste, in mezzo, di fronte e di dietro una folla di sfiduciati e di disorientati, una folla senza capi, poiché di questi solo pochi hanno la coscienza dei tempi che si preparano all’Italia e sentono la necessità di agitare, di scuotere, di prevenire: questo il triste quadro del campo cattolico italiano. A ricostruire prima l’unità di pensiero l’Unione popolare promosse le settimane sociali di Pistoia, Brescia, Palermo, e, prossimamente, a Napoli. Contemporaneamente l’Unione organizzò il suo segretariato di propaganda, pubblicò un milione e duecentomila copie di soli foglietti volanti e bollettini, il settimanale la Settimana sociale, il Bollettino dell’Unione popolare per i soci, ed una biblioteca interessante di questioni del giorno che raccomandiamo vivamente ai nostri amici 1). Accanto alla Semente quindicinale, alla Domenica e alla bibliotechina del Mulo di Rocca d’Adria, le pubblicazioni dell’Unione popolare sono quasi le sole che affrontano con successo l’immensa propaganda scritta dei radicali. Le conferenze furono numerosissime. D’un canto si tenta con discussioni e con discorsi programmatici di rinnovare e purificare le fonti del pensiero cattolico italiano, dall’altro e su tutta la linea si oppone la viva propaganda della parola alle agitazioni dei sovversivi. Di tali conferenze popolari il solo amico Pasquinelli negli ultimi sei mesi ne tenne più di duecento. Ora si annunzia per il prossimo anno un congresso generale dei cattolici italiani. È molto, è moltissimo dopo il disfacimento universale degli ultimi tempi. La propaganda ed i progressi degli anticlericali finirà col vincere sullo scoramento il sospetto reciproco e l’indolenza dei più. Il papa nella lettera diretta recentemente per mezzo di Merry del Val al prof. Toniolo parla chiaro: «Conscio intanto dei pericoli gravissimi che sovrastano agl’interessi più vitali della religione, mentre conferma all’Unione medesima il mandato affidatole, e, con esso, la piena Sua fiducia, il Santo Padre si rivolge ai cattolici tutti d’Italia ed in special modo ai Vescovi, ed agli uni e agli altri raccomanda vivamente che con una cooperazione proporzionata alla gravità del momento, aprano all’Unione Popolare ampia la via per la esplicazione del suo nobile programma e per i più lieti successi». L’avvenire si presenta infatti tutt’altro che roseo per il cattolicismo in Italia. Il periodo giolittiano di relativa tolleranza non deve illudere. Dietro Giolitti viene avanti la generazione nuova che si sta scorzonando secondo le regole della Massoneria nelle scuole e nei ricreatori laici. Non è improbabile che l’Italia rinnovi gli esperimenti anticlericali della Francia. Non c’è quindi tempo da perdere. Si è indugiato tanto in accademie, in guerre fratricide! Con interessamento di fratelli noi seguiamo i progressi e constatiamo i segni della rinascita dei cattolici italiani e di tutto cuore ripetiamo l’augurio che Trimborn rivolgeva al rappresentante dell’Unione popolare italiana al Congresso di Würzburg . Per noi l’augurio ha però anche delle ragioni... egoistiche. Le onde della vita cattolica d’Italia sono sempre venute a battere fino alla nostra sponda, e noi ne abbiamo sentito gli effetti. Ebbene, anche noi oggi in mezzo a tanto grave lavoro politico, economico-sociale e di organizzazione, desidereremmo che un’ondata di entusiasmo venisse fino qua su a ravvivare la fiamma delle idealità nostre. 1) L’ufficio centrale delle pubblicazioni è a Firenze, Via del canto de’ Nelli, 9.
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3Habsburg years
11906-1910
Clemenceau è di pessimo umore. Ha letto or ora i dispacci dei prefetti che gli comunicano le dichiarazioni sovversive dell’arcivescovo di Bordeaux, dei vescovi di Cahors, di Quimper. E l’incendio pare si allarghi e divampi da una diocesi all’altra. Il presidente del consiglio è nervoso, eccitato, sembra abbia perso la calma con cui da 3 anni dirige le sorti della Francia con la dispotica sicurezza che gli dà lo Stato assorbitore ed onnipotente, il quale a sua volta ha detto: La società sono io! Non che il cancelliere della repubblica francese nutra dei reali timori per i nuovi sovversivi. Sono preti e frati inermi, indeboliti economicamente e nel loro influsso sociale dalla legale persecuzione che dura da 6 anni. No, né i vescovi né i curati di campagna lo faranno cadere, lui, l’uomo ancora saldo e sicuro sulla larga base radico-socialista. Non è la sua situazione parlamentare che gli dà fastidio, è piuttosto la sua situazione morale. Il presidente dei ministri sente di essere in una posizione illogica, falsa; egli capisce che i suoi maestri, che egli stesso hanno insegnato il contrario di quello che gli odierni scolari praticano, e gli brucia che i cattolici possano rintuzzare contro i figli della rivoluzione le armi che vennero fabbricate per distruggere il mondo morale e politico del passato. Non c’è dubbio, la contraddizione esiste ed è enorme. Ecco qua, per esempio il maestro sommo dell’attuale maggioranza parlamentare: «Quando una legge è abusiva i cittadini debbono, col trasgredirla, fornirle l’occasione di imperversare contro di essi; giacché più spesso sarà essa applicata, e più risulterà, agli occhi del giudice stesso, il difetto che deve portare alla sua abrogazione». Non pare scritta ad uso e consumo del card. Andrien? Eppure l’ha scritta più di un secolo fa Gian Giacomo Rousseau. Ma c’è di peggio; tali principi ebbero formale sanzione di legge. «Quando il governo viola il diritto del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ogni frazione del popolo, il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri». (Dichiarazione dei diritti dell’uomo). «La Repubblica francese riconosce diritti e doveri anteriori e superiori alle leggi positive». (Costituzione del 4 novembre 1848). Clemenceau si consola un istante col pensiero che tali enunciazioni non hanno che un relativo valore storico; ora la società ricostituita definitivamente in repubblica pensa diversamente. Ma no, ecco un libro moderno. È Beniamino Constant che scrive: «La volontà di tutto un popolo non può rendere giusto quello che è ingiusto. Nessuna autorità sulla terra è illimitata, né quella del popolo, né quella degli uomini, che si dicono suoi rappresentanti, né quella dei re, né quella della legge... I cittadini posseggono diritti individuali, indipendenti da ogni autorità politica, e ogni autorità che viola questi diritti diventa illegittima». È chiarissimo. Non si richiamano anche i vescovi cattolici alla libertà della loro coscienza, ai loro diritti individuali? Voglio vedere che cosa facciamo insegnare nelle nostre scuole, continua il ministro, e sfoglia un trattato di morale laica, pubblicato nel 1902, con prefazione di un autorevole capo dell’attuale maggioranza governativa, Ferdinando Buisson. E Clemenceau legge: «Se il suffragio universale fa la legge, cioè la giustizia scritta, non ha per questo il diritto di fare leggi ingiuste; non ha per questo il diritto di legalizzare il furto; non ha il diritto di ledere uno qualunque dei diritti imprescrittibili dell’uomo, giacché non v’è diritto contro il diritto. Se il suffragio universale viola il diritto, può ben per qualche tempo imporre suoi decreti, perché ha per sé la forza. E se l’ingiustizia commessa non porta una offesa irrimediabile alla dignità umana, un cittadino può anche, per amor della pace sociale senza la quale nessun diritto sarebbe tutelato, rassegnarsi pel momento a questa ingiustizia, adoperandosi nello stesso tempo perché venga abolita; tuttavia questa ingiustizia legale è sempre una causa di turbamento e di disordine per la società. Infatti l’ingiustizia è la violazione delle facoltà essenziali alla persona umana, e se per un certo tempo si possono ridurre all’impotenza le facoltà umane, esse non possono però venire distrutte. Quando sono oppresse, si ripiegano su sé stesse, e, come i vapori condensati in una caldaia, c’è sempre pericolo che esse facciano scoppiare l’armatura che le soffoca». Il presidente chiude il manuale in furia e lo sbatte violentemente sul tavolino. Le ombre dei classici dell’89 e dei padri del ’48 pare vengano su minacciose dietro i lunghi scaffali, ove stanno raccolti i libri della Bastiglia, della Salute pubblica, del ’48, della Comune della terza repubblica, da Leone Gambetta a Combes, da Briand a lui, a lui stesso, lo scrittore, il romanziere, il giornalista Giorgio Clemenceau.
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1,909
3Habsburg years
11906-1910
Ieri sera nella breve ora di ricreazione concessaci tanto spesso dalla nostra vita di borghesi o sfruttatori abbiamo preso in mano quel giornaletto paradossale che non senza una punta d’ironia si intitola Avvenire del lavoratore . Abbiamo letto e, come il solito, concluso con un amen e così sia, senza che ci passasse pel capo nemmeno l’ombra del pensiero di contraddire, di polemizzare, di dubitare. Oramai codesto sacrificio dell’intelletto, codesta rassegnazione alla sentenza fermissima ed incancellabile ci è divenuta una seconda natura. I lettori non ignorano come i giacobini di Via S. Pietro siano riusciti a ridurci a tale stato di perfetta e supina sommissione: prima hanno proclamato l’aforisma della nostra ignoranza, tanto larga e profonda che va dai limiti primi del senso comune fino ai rudimenti della grammatica e del bello stile; poi, ad una nostra replica, hanno dimostrato in maniera intuitiva la nostra balordaggine e cretineria; infine, perché arrischiamo alcune parole di dubbio intorno alla giustezza delle sullodate sentenze, ci hanno minacciato prima in forma privata poi in forma solenne e collettiva di finirla a bastonate. Quest’ultimo argomento fu decisivo. D’allora in poi la lettura dell’amabile foglietto ci serve come reagente negli scarsi momenti di ipertrofia nervosa e di assoluta atonia dei nostri organi volitivi. Così nemmeno ieri sera la nostra psiche si è arrischiata di rompere la consegna di russare, quando abbiamo letto nell’Avvenire i seguenti assiomi: «Il Vaticano odierno è identico al vaticano del secolo XVI. È il covo dell’intolleranza e di una banda di rapinatori. Come ai tempi di Lutero, anche oggi il papa scomunica i preti che rifiutano di credere agli assurdi mostruosi della teologia cattolica, anzi clericale; come ai tempi del buon Lamennais che si vide proscritto dalla Chiesa anche oggi per le sue coraggiose Paroles d’un croyant, anche oggi la sacra congregazione dell’indice condanna i libri dei modernisti e ne proibisce la lettura ai fedeli, colla minaccia – ormai ridicola – degli eterni e roventi castighi infernali». E più sotto: «Certi giganteschi sauriani dell’età preistorica, sono giunti a noi perché furono custoditi e preservati da un impenetrabile strato di ghiaccio. Ma non appena sono posti a contatto dell’aria, l’involucro esterno scompare, la maschera cade: le mostruose carcasse si piegano e si spezzano; lo scheletro si riduce a un mucchio di ossa, che gli scienziati riportano poi nelle posizioni primitive, ricostruendo l’animale. Così è della chiesa di Roma. È un grande cadavere». Amen, aggiungemmo noi, pensando con orrore alle botte conclusionali. Ma stamattina, – vedete un po’ quel che può accadere – abbiamo rimesso un tantino di coraggio in corpo ed in un momento d’energia abbiamo deciso di ... osare la contraddizione. Infatti «ambasciator non porta pena» ed è da ammettersi che ciò valga più che mai di fronte al signor Mussolini che un bel giorno ci ha tenuto una lezione sul codice cavalleresco. Dunque al maestro e dono dell’Avvenire mandiamo l’ambasciata che a contraddire alle sue sentenze s’è incaricato uno dei più autorevoli socialisti austriaci, il d.r Renner , nella rivista socialista Der Kampf, giuntaci stamattina. Vi leggiamo infatti un articolo che condanna expressis verbis la tattica dei socialisti i quali concentrano le loro forze nella campagna contro la Chiesa e contro le sue dottrine. In tale «Kulturkampf», dice il d.r Renner, il socialismo non è che un pedissequo della borghesia liberale volgarizzando per le masse i principi fucinati dai liberali da un secolo e mezzo. Lo scrittore ed il deputato socialista nega che il concetto anticlericale della Chiesa, copiato dai socialisti, sia vero. È falso che la Chiesa sia un cadavere, che sia «uno spettro del XIII secolo che bisogna finalmente portare alla sepoltura». La Chiesa ha superato ben altre crisi che le presenti, ha superato tempi in cui tutti gli intellettuali le erano avversi. Lo scrittore socialista ammonisce i suoi compagni di non seguire la falsa via del «Kulturkampf». Il socialismo, secondo il Renner, deve semplicemente dedicarsi alla lotta di classe. Bisogna creare la libertà economica. Si vedrà poi quali piante fioriranno su questo nuovo terreno, quale nuova coscienza religiosa si formerà. Ma oggidì non si deve spingere l’operaio ad una lotta con la sua fede. Dall’articolo si deduce che il Renner per suo conto ritiene che l’evoluzione economica, prodotta dalla lotta di classe, scuoterà anche le basi della Chiesa cattolica. Ma quale differenza fra il suo modo di giudicare e quello dei nostri giacobinucci. Quale indipendenza marxistica di fronte alla schiavitù volteriana degli anarcoidi dell’Avvenire! Il Renner osserva che la Chiesa, questo cadavere, ha sempre saputo adattarsi ai tempi e che oggi è più viva che mai e che molte età che i suoi avversari chiamarono tenebrose e di morte furono per il vigore suo salutari al popolo. Il secolo XIII che i giacobini chiamano tenebroso è illuminato dal sole di Assisi; quando sorse l’autorità dei feudali e di stato la Chiesa era l’organizzazione democratica del popolo e quando i principi volevano abolire gli stati generali furono gesuiti che difesero la sovranità popolare. Non è vero, dice il Renner, che la Chiesa istituì feste sopra feste al tempo dell’opposizione democratica contro i principi tanto per ridurre la possibilità di guadagno ai poveri, fu invece per sgravare dai troppi pesi i dipendenti. Oggi, continua il Renner, la Chiesa eleva a papa il figlio di un servo comunale! Così lo scrittore socialista, volendo dimostrare che la forza della Chiesa consiste nella sua adattabilità di fronte alle classi sociali, mentre il presupposto gli ottenebra il ragionamento, giunge però a tanta oggettività dall’ammettere certi grandi fatti storici che i suoi compagni rinnegano ed a stabilire della Chiesa perlomeno un concetto molto diverso da quello dei propagandisti briachi d’odio giacobino .
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1,909
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11906-1910
Continuano a giungere dalla Spagna le notizie di eccessi contro chiese, conventi, religiosi e suore. Si assale, si demolisce, si abbrucia. Persone che null’altro chiedono se non di poter esercitare in pace la loro missione di carità vengono insultate, dileggiate, percosse. È l’anticlericalismo teppistico della Comune. Certi giornali (e uno ve ne fu anche tra i nostrani), mal dissimulando la gioia del proprio odio settario per queste violenze, parlano della giusta reazione del popolo contro il Governo clericale. Si tenta di trovare una connessione tra il numero grandissimo di religiosi che popolano la Spagna, la supposta loro influenza economica e politica, e l’odio delle popolazioni. È la vecchia canzone, udita mille volte che la Spagna è stanca del dominio dei preti e dei frati. Or tutto ciò posa sul falso per eccellenza. Al pari di ogni altro paese retto a sistema parlamentare, la Spagna ha leggi elettorali liberalissime, quanto quelle dell’Inghilterra e della Francia. Essa è padrona di sé; può darsi un Governo come meglio le talenta, né sono certo i conventi che ne paralizzano gli indirizzi parlamentari. Se il Governo spagnuolo è al presente conservatore, ciò significa soltanto che la grande maggioranza elettorale è conservatrice: il che per un altro lato potrebbe dimostrare quanto è assurda la supposta stanchezza della Spagna dell’immaginario dominio dei frati. La verità è ben diversa. Mentre il clero secolare e regolare è benevisto ed apprezzatissimo in Ispagna da tutti gli elementi civili della nazione, anche di carattere avanzato; in alcuni operai, parte del popolo sobillata da un’acre, pertinace propaganda religiosa e rivoluzionaria, odia il prete fino al parossismo. Ma questa parte dell’elemento operaio è la stessa che cospira quotidianamente contro lo Stato, che agogna alla cosiddetta repubblica sociale, peggio ancora, che fa professione della più selvaggia anarchia. Barcellona, famosa già per le bombe scagliate in pieno teatro come vendetta per le impiccagioni degli anarchici di Chicago, famosa ancora perché vi fu tramato il complotto che doveva far saltare in aria Alfonso XIII e la sua consorte il giorno delle nozze, famosa per gli scoppi di bombe che ivi avvengono quotidianamente, quasi si trattasse di innocui passatempi, è il centro da cui principalmente si diramano le orde saccheggiatrici dei conventi e delle chiese. Non adunque stanchezza o ripugnananza di popolazioni miti, ma odio feroce di ribelli ad ogni autorità è quello che ha segnato le nuove e nere pagine nella storia della Spagna. È quell’odio che ha per suo culmine il regicidio, e colpisce il religioso perché rappresenta l’autorità divina, come colpisce l’agente della forza perché rappresenta l’autorità umana. Contro entrambe queste autorità l’anarchia dirige i suoi sforzi. E nella sua opera nefasta ha per suo alleato il socialismo, il quale ancora una volta si è rivelato per quello che veramente è, un partito dissolvitore, il nemico più accanito, e che non indietreggia nemmeno dinanzi alle stragi e alle rovine della religione e del sentimento di patria.
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11906-1910
[...] Riportiamo semplicemente per la cronaca questa notizia , la quale – quantunque si riferisca a pretese informazioni della Consulta – ci sembra a dir poco prematura. Non già che non vi sia, in Austria in special modo, una corrente federalista, e che non si sia parlato molto e di frequente di trialismo e altri simili rimedi alle eterne contese nazionali dell’Impero e al conflitto periodico coll’Ungheria, si assicura anzi che l’Arciduca ereditario sia fautore di simili idee, ma dal dire al fare c’è di mezzo il mare. E gli ungheresi non si lasceranno così facilmente privare di quelli che loro chiamavano i loro diritti storici, né d’altra parte, a questi lumi di luna, con un tratto di penna, si può cambiare una carta geografica. Il fatto vero è che l’idea federalista è ancor assai poco popolare e diffusa. Si sono scritti degli opuscoli, se ne occupano talvolta, in tempi di magra, i giornali, ma senza molta convinzione e senza entusiasmo, perché da tutti si comprende che i tempi non sono ancor maturi per questo grave avvenimento storico. Il quale non giungerà – se mai giungerà – se non attraverso a lunghe lotte che dureranno molti anni ancora in Ungheria, fino che le «nazionalità» – cioè tutti i popoli non magiari – abbiano conquistata la loro parità politica. Per intanto esse sperano nel suffragio universale che è anch’esso di là da venire, quantunque la Corona ne abbia fatto un punto principale del suo programma, e dovendo pensare all’esse non hanno tempo di adoperarsi al bene esse. Del resto la vera idea federativa, come la intendono gli austriaci del Gross-Oesterreich è ben più vasta ancora; nella futura confederazione dovrebbe entrare la Rumenia e forse anche qualche altro Stato danubiano. Abbiamo detto sopra che l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando è ritenuto, non sappiamo se a ragione o a torto, entusiasta di questo grande sogno d’un’Austria rinnovellata e accresciuta nella sua potenza, e perciò non passarono inosservati né il suo viaggio recente alla corte di re Carlo, né le fervorose accoglienze dei rumeni, né le cortesie che continuamente vengono scambiate tra Vienna e Bucarest. Specialmente i magiari se ne mostrarono allarmati, e i magiari sono appunto i più irreconciliabili avversari d’una confederazione. A (N. d. r.)
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11906-1910
Da parecchi giorni è cominciata e viene condotta con maggior o minore fortuna nel giornale del mattino e in quello della sera una campagna contro le feste di Innsbruck . Questa campagna – la quale specialmente nel suo principio sembrava preoccuparsi in particolare dell’intervento dei tiratori di bersaglio e che fu per ottenere l’effetto alimentata con molte chiacchere di danari distribuiti, di promesse mirabolanti, ecc., questa campagna era invece diretta contro l’intervento dei deputati in genere e sopratutto contro l’intervento dei deputati liberali alle feste. Fu perciò che si tirò in campo la questione autonomistica. Mentre, infatti, a nessuno era nemmeno passato per il capo che tale atto potesse contenere una rinuncia dei diritti unanimemente richiesti dagli italiani, ecco che certi giornali con evidente intenzione di intorbidare le acque gli danno questo significato. Ma poiché non sono i giornali – e tanto meno i giornali che si scrivono da irresponsabili e che vengono sconfessati dai rappresentanti politici del proprio partito – quelli che possano determinare la portata delle azioni altrui, sta bene precisare: – né i deputati che si recheranno ad Innsbruck intendono minimamente rinunciare ai postulati del Trentino, ma intendono semplicemente omaggiare l’Imperatore, – né là fuori si pensa di intepretare l’intervento in altro senso. Ciononostante – secondo i medesimi giornali, di cui abbiamo accennata la tattica – i deputati liberali alla Dieta in unione coi podestà di Trento e di Rovereto avrebbero deciso in una conferenza tenuta lo scorso martedì di non prendere alcuna parte alle feste di Innsbruck, ma di chiedere – e ciò ritenevano loro «dovere» – un’udienza speciale all’Imperatore. Con ciò essi avrebbero deviato dai propositi espressi di fronte ai deputati popolari ed agli accordi presi alcuni giorni prima, giusta i quali gli italiani, invitati al pranzo di Corte, vi sarebbero senz’altro intervenuti e nell’udienza che dopo il pranzo l’Imperatore avrebbe concessa a tutti i deputati dietali italiani e tedeschi avrebbero per mezzo del Capitano provinciale presentata la supplica per la ferrovia di Fiemme, firmata dal Presidente della Magnifica Comunità Generale e dai podestà di Trento e di Bolzano. L’Alto Adige di ierisera e il Popolo di stamane riferiscono che l’udienza speciale chiesta dai deputati liberali fu rifiutata, come del resto era facile prevedersi. Anzi l’Alto Adige scrive che «a quanto si afferma conseguenza di questo rifiuto sarà l’astensione dei deputati e podestà liberali da tutti i festeggiamenti di Innsbruck» . Anche questa volta non si tratta che di un pio desiderio del giornale della sera. Da principio egli voleva imporre ai deputati e ai podestà liberali l’astensione, trasformando l’omaggio all’Imperatore in una pretesa rinunzia all’autonomia, adesso si appiglia al rifiuto di un’udienza speciale e se ne crea una nuova arma per intimare un’altra volta il suo ukase. Noi possiamo però con tutta certezza affermare che i deputati e i podestà liberali interverranno al pranzo di Corte e subito dopo prenderanno parte all’udienza, alla quale conforme agli accordi già presi e all’assenso dell’Imperatore di cui demmo notizia, verrà presentata nella forma già detta la supplica per la ferrovia di Fiemme. Come morale della storia, resta il deplorevole dissidio fra i rappresentanti politici del partito liberale e i reggitori dell’Alto Adige che vorrebbero menarli per la dande, minacciando in caso di riluttanza crisi e putiferi, per indurli alla politica del nullismo e delle dimostrazioni che finirebbe col rovinare gli interessi del paese e col rivoltare le vallate, tradite nelle loro più vitali questioni, contro la città menata a naso da quattro agitatori. Per buona fortuna il trucco dell’Alto Adige non è riuscito e a protestare resta solo l’Avancini che rappresenta se stesso, e non ha bisogno di pensare a responsabilità.
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11906-1910
Avevamo l’altro giorno formulato l’augurio che le dicerie che si propalavano attorno allo strascico politico del grosso furto – dicerie che non abbiamo raccolto – non si avverassero, perché altrimenti si affaccerebbe il pericolo che se ne facessero patire le conseguenze a tutto il paese. Fummo facili profeti. Già ora buona parte della stampa tirolese, in vista delle recenti dimostrazioni e più ancora di quanto – vero o falso – si va dicendo intorno ai risultati politici delle perquisizioni chiede al governo misure repressive contro tutti gli italiani ed un atteggiamento diverso – meno condiscendente – scrivono essi, nella dieta e nel parlamento. Le esagerazioni e le gonfiature sono enormi. Si vedono dappertutto società d’irredentisti. La Meraner Zeitung p. e. intorno all’arresto del Castelli ad Innsbruck fabbrica un vero romanzo, affermando si sapeva da tempo esistere ad Innsbruck una congrega irredentista, ma s’ignorava dove, fino che il caso volle si mettesse le mani addosso al Castelli, ed ora è tutto scoperto. La gazzetta di Merano rifà poi a modo suo la storia dell’irredentismo e degli irredentisti, fra cui mette anche il clero con a capo il Principe Vescovo e finisce col domandare al governo caldo appoggio per il Tiroler Volksbund e diverso contegno di fronte ai deputati italiani nella dieta tirolese. Anche un «eminente uomo politico» in un’intervista colla Neue Freie Presse dice che il contegno dei signori trentini in occasione delle feste hoferiane in contrasto coll’atteggiamento delle vallate e le recenti scoperte devono consigliare al governo un mutamento di tattica e l’incondizionato appoggio al Tiroler Volksbund. In Germania poi si ricorda che il Colpi fu uno dei dimostranti di Calliano, e si «ragiona»: «Ecco provato che l’opposizione alla famosa gita non era altro che roba da irredentisti». Infine la Vossische Zeitung di Berlino «riceve da Vienna che la polizia di Trento avrebbe fatto una gravissima scoperta. Secondo quanto si dice, il furto alla Banca di Trento sarebbe stato commesso da un gruppo di cospiratori in relazione col Governo italiano al quale rendevano servigi di spionaggio. Sarebbe provato oramai che i denari rubati servivano anche all’agitazione contro l’invasione dei touristi e degli albergatori tedeschi sul lago di Garda. La società ginnastica e la società Dante Alighieri sarebbero state le vere organizzatrici dello spionaggio». Così a furia di malevoli amplificazioni si arriva a mettere in relazione i danari della Cooperativa... colla questione dell’italianità del Garda! Ma le amplificazioni e le inesattezze di fatto possono anche interessare meno, quando oramai le conclusioni dell’istruttoria che ridurrà la cosa ai suoi veri termini, non si faranno attendere più a lungo. Quello che c’impressiona è piuttosto la tendenza colla quale la stampa tedesca sfrutta il caso. Si vorrebbe coinvolgere tutto il paese in una politica di rappresaglia. Il curioso è che codesta stampa bene informata in questo mese ha preso addirittura la patente delle scoperte. In occasione delle feste giubilari si è scoperto che la popolazione delle vallate trentine non è irredentista. Bella scoperta! Non l’avevamo sempre asserito noi e non eravate invece voi che dicevate l’opposto per dimostrare al governo essere necessaria l’opera del Tiroler Volksbund? Viceversa ora si vede dappertutto l’irredentismo in città, in campagna, nelle canoniche e nell’episcopio. Il nostro giornale poi è in una posizione tutta speciale. La Meraner Zeitung ci chiama irredentistisches Hetzblatt; viceversa a Trento abbiamo l’onore che dell’estetica del nostro palazzo si occupino gli sporcamuri del radicalismo nazionale. La verità è che non solo il nostro partito ma tutta la popolazione seria del Trentino respinge recisamente il tentativo di accollare alla maggioranza del paese la corresponsabilità di dimostrazioni o di fatti a cui non partecipò e che deplora. Nessuno prende sul serio quelle piazzate diurne e notturne, di quei pochi che infischiandosi degli interessi del paese e degli effetti delle loro provocazioni, agiscono contro le intenzioni e le tendenze dei più. La verità è ancora che se si volesse prendere a pretesto tale politica da fanciulloni per appoggiare le tendenze germanizzatrici di certi propagandisti, in tal caso entrerebbero in campo le altre forze sane del paese ad imporre un risoluto: alto là! In quanto agli interessati consigli di alcuni giornalisti tirolesi che il governo voglia cambiare atteggiamento, non sappiamo a che si voglia alludere: se la memoria non c’inganna, la posizione degli italiani alla Dieta è fattura loro, non un regalo o una concessione di chicchessia. Concludendo: il partito popolare e con lui la stragrande maggioranza del Trentino fa ed intende fare una politica semplicemente costituzionale, come hanno diritto di fare tutti gli altri popoli dell’Austria. Il risorgimento economico nazionale del popolo, il libero sviluppo delle sue attività nel campo della coltura e del progresso sono i capisaldi del nostro programma. A questo programma non siamo mai venuti meno né nella via percorsa né nei mezzi scelti per raggiungere la meta. Ma come ci dichiariamo estranei ad un radicalismo avventuriero, così ci sapremo difendere coll’energia di tutto un popolo che sa quello che vuole, quando si attentasse al nostro patrimonio nazionale o si conculcassero i nostri diritti.
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11906-1910
L’affare della Banca cooperativa è divenuto nella fantasia dei giornalisti d’oltrebrennero il fulcro, attorno al quale s’aggira l’irredentismo organizzato, congiurato e scoperto. Esso proietta la sua ombra fino alla vigilia delle feste insbrucchesi e si distende poi fino ai nostri giorni, all’infinito. Per quanto riguardava certe tendenze generalizzatrici e certi consigli di rappresaglie, abbiamo a suo tempo levata la voce. Oggi occupiamoci, per sollazzo, delle evoluzioni della stampa socialista. L’organo dei socialisti tirolesi, quando la Neue Freie Presse stampò che l’on. Avancini aveva partecipato alla dimostrazione di Trento contro i veterani ed i corpi di bersaglieri che si recavano ad Innsbruck andò su tutte le furie. Pubblicò a caratteri grassi che la notizia della Presse era una mera menzogna (erfunden und erlogen), che la bega alla stazione era stata inscenata da sciovinisti nazionali e che l’insinuazione contro l’Avancini a una sua compartecipazione qualsiasi era una vile calunnia (gemeine Verleudung). Da Trento la Tiroler Volkszeitung venne tranquillata con un comunicato in cui è detto che l’Avancini è bensì un partigiano dell’autonomia amministrativa ma che colla dimostrazione non ebbe affari di sorta. Con tale assicurazione in mano la Tiroler Volkszeitung intimò ai giornali tirolesi di rettificare la notizia riprodotta dalla Neue Freie Presse, altrimenti «noi – scrive il giornale tirolese – dovremmo disporre che Avancini metta in funzione il § 19» (3 sett.) Con tutte queste smentite e dichiarazioni che lasciano intravedere quali relazioni di sudditanza esistano fra il deputato di Trento e i compagni di Vienna la stampa tedesca non era però ancora soddisfatta. Così che l’on. Avancini ritenne opportuno di spedire all’Arbeiterzeitung più ampie e solenni spiegazioni. Una lunga lettera pubblicata nel giornale viennese constata che la partecipazione dell’on. Avancini fu affatto passiva, quella di un quieto osservatore (stiller Beobachter). Rileva ancora l’Avancini che chi lo conosce sa benissimo ch’egli, quale deputato socialista, è convinto di dover dedicare il suo tempo e la sua attività a ben altre cose che a beghe nazionali. Del resto era stata passata la parola d’ordine agli operai di non intrigarsi in eventuali dimostrazioni (sich vorkommendenfalls nicht zu beteiligen). Così la stampa tedesca era tranquillizzata e si poteva smentire recisamente la nera calunnia che i socialisti trentini ed in special modo il loro deputato si fossero mescolati coi sciovinisti nazionali. Anzi l’Arbeiterzeitung si credette così sicura da poter occuparsi impunemente di accuse contro altri. Domenica infatti il giornale socialista racconta in corsivo ai suoi lettori, a proposito dei recenti arresti, che a capo dell’Irredenta trentina sta presentemente il vescovo di Trento, D.r Endrici, che il suo organo il Trentino si compiace di accendere sempre le beghe nazionali più violente e che fra gli arrestati vi sono parecchie colonne del partito cristiano-sociale italiano. (Mehrere Saülen der italienisch-christlichsozialen Partei). «Il mondo dovrebbe dunque godersi lo spettacolo che un vescovo sta alla testa di un partito di congiurati, i quali si procurano i danari, rubandoli alle Banche». I socialisti non s’accontentano dunque di proclamare all’universo intiero in lunghe dichiarazioni la loro assoluta innocenza, ma lanciano le più gravi e le più insulse accuse contro gli avversari politici. Non sappiamo come sia rimasta la gazzetta del d.r Adler, quando le giunse la notizia dell’arresto del compagno Mussolini , il quale, benché coll’affare della banca non stia in nesso veruno, ebbe l’effetto di scuotere l’on. deputato di Trento dalla sua decantata passività. A Vienna non si va tanto per il sottile: tutti gli arresti vengono messi in relazione coll’irredentismo; quindi il d.r Adler, colle mani nei capelli, avrà davvero faticato a racapezzarsi. Caro d.r Adler, si consoli, è cosa vecchia, ne chieda al d.r Ellenbogen che conosce un po’ l’ambiente. Anche qui si tira avanti come si può, transigendo a sinistra, incurvandosi a destra, dando assicurazioni da una parte e protestando il proprio attaccamento dall’altra. Avete visto, per esempio, che faticoso equilibrismo in occasione delle elezioni pittoniane? Ed ora volete sentir l’ultima? Leggete il Resto del Carlino d’oggi. Vi troverete affermato che il Mussolini è un convinto difensore dell’italianità e che per questo la polizia si occupò di lui e che per questo il ministero degli esteri italiano dovrebbe intervenire. Come, direte voi, non si tratta del Mussolini, segretario dell’internazionalista Camera del lavoro, redattore dell’Avvenire, sterminatore dei nazionalisti, feroce propagandista del sindacalismo e dell’internazionalismo più puro? – Proprio lui, egregio capoccia viennese, ma che volete? Viva arlecchini E burattini E gl’indovini; Viva le maschere D’ogni paese Viva Brighella che ci fa le spese 1). 1) Per Brighella può intendersi anche il popolo che paga per tutti gli imbroglioni della politica. – Nota di C. Romussa all’edizione Sonzogno del Giusti.
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11906-1910
Due ideali affascinano soprattutto i giovani: libertà e patria. Ma al primo può spingere oltre l’amore del bene anche l’istinto del male, il secondo viene troppo facilmente identificato coll’interesse di fazione o di classe. L’ideale di libertà assoluta non basta all’educazione dei giovani, anzi spesso nella pratica viene tradotto in sfrenatezza e licenza. Nel campo del pensiero poi libertà nel senso storico della filosofia del sec. XIX fu negazione, ed anche oggidì nei suoi templi e nelle sue aule domina lo scetticismo. E quante delusioni toccano ai giovani nel culto dell’ideale patriottico! Prediligono, è naturale, le aspirazioni più radicali ed estreme e s’imbevono di un romanticismo nazionale che trionfa nei brindisi alati, nelle volate liriche, nelle pose che sarebbero eroiche se non ricordassero quei quadri plastici dei varietés che riproducono per gli ammiratori lontani gli dei e i semidei antichi delle gallerie vaticane. Sono forme lievi e fugaci di una politica del sentimento, sincera nei brevi istanti della spontaneità tradizionale e vuota come la storia d’un’accademia, nell’altre lunghe giornate in cui tedia la nostra vita pubblica. Ma questa politica è soprattutto facile, fa appello più al cuore che alla ragione, richiede più l’entusiasmo del momento che il sacrificio diuturno e la costanza dell’opera. Quindi i giovani l’abbracciano subitamente con fervore e vi agiscono con una spensierata baldanza quasi si trattasse di uno sport dello spirito e della parola. Essi corrono la Maratona della politica giovanile, fra gli evviva trionfali. Ma venuti via, nel primo slancio, per un buon tratto di corsa si fermano e si sentono soli. Avvertono che i plaudenti non erano una folla, ma una funzione interessata, che il popolo, il grande popolo cammina su altre vie. Ed allora i giovani, colle adulazioni ancora negli orecchi, non sentono il dovere di rivolgersi su sè stessi, di esaminare se la loro strada è sbagliata, se l’impeto non li trascinò troppo lontano o troppo alla deriva, ma imprecano subito contro questo popolo, ingiuriandolo con feroci invettive. Reazionari, antipatriotti, pecore matte!... Ma dalla folla si risponde: Che volete voi da noi? Non vi conosciamo. Non vi abbiamo visti né nelle nostre chiese né nelle nostre assemblee. Siete colti, studiosi? – Che cosa ci avete insegnato? – Siete patrioti? – Che cosa avete fatto per l’interesse nostro e dei nostri figli? – Ci parlate d’ideali nazionali? Non vi intendiamo, perché ci ripugnano i vostri metodi, non abbiamo fiducia nei vostri sentimenti, siete divenuti estranei alla nostra coscienza ed alla nostra vita. La risposta è vera, è logica, ma non convincerà i giovani. I quali, divisi oramai moralmente dal popolo, esaurita l’attività pubblica sportistica, si richiuderanno nell’egoismo della loro carriera e mendicheranno, giudicheranno, abbevereranno il popolo senza comprenderne l’anima, retrivi ad ogni attività per il pubblico benessere, eterni biascicatori d’inutili querele, ricopiatori delle sterili proteste e delle pose antiche. Ed eccovi costituita per un processo naturale, la classe dei siori, quella borghesia superficiale che visse e in buona parte vive ancora in un nazionalismo astratto ed impopolare. Pochi fra i giovani che abbiamo descritto si sottrarranno a questa sorte, pochi ritroveranno più tardi l’energia di fare il cammino. Gli è che anche la vita sociale richiede una seria preparazione come la vita individuale. Non è vero che allo studente appena uscito dal ginnasio per quello che riguarda la sua opera avvenire rispetto alla patria, basti inculcare l’amore alla libertà e l’entusiasmo per la propria nazione. Egli abbisogna della libertà, ma anzitutto delle garanzie che impediscono che la libertà sia negata dalla passione. È quindi necessario che una società di studenti si proponga di riaffermare e coltivare i principi e l’etica del Cristianesimo. Questo sarà il vincolo più forte, che stringerà i giovani al popolo e li educherà alla democrazia. Ed è poi la democrazia che rinnova il nazionalismo che gli dà il contenuto sociale e popolare. I giovani devono avezzarsi per tempo all’analisi della vita popolare, a penetrare coll’occhio della mente nel labirinto delle cause e dei rapporti sociali. Solo con tale studio e con tale osservazione comprenderanno anche il popolo trentino e la sua vita pubblica, le sue debolezze e le sue energie, che sapranno più tardi compatire o, rispettivamente, guidare. Ma a tal uopo è indispensabile nei giovani un profondo senso di responsabilità e quell’accortezza d’animo che non respinge con fanciullesca iattanza i consigli dei vecchi, ma questi prepone a guida dell’entusiasmo e del coraggio giovanile. È vero, una tale via è più difficile, meno accompagnata forse dal chiasso degli applausi, meno poetica, meno cavalleresca, direbbe Lodovico Ariosto, ma si ricordi: nell’età di mezzo non furono i cavalieri erranti che aprirono la via al progresso civile e sociale, furono delle associazioni religiose che con diuturna fatica dissodarono e coltivarono quei terreni su cui sorsero cattedrali e università. E poiché gli amici dell’Associazione cattolica universitaria, pur senza l’austerità dei benedettini medioevali, ma colla allegra vivacità dei loro vent’anni si propongono di fare nel campo intellettuale e sociale un lavoro serio e maturo di preparazione ai loro doveri sociali, quali richiedono i bisogni presenti, noi mandiamo loro da questo foglio ch’è il portavoce della grande maggioranza del popolo trentino, il nostro augurale saluto.
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1,909
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11906-1910
L’ultimo giorno dei grandi congressi è in genere destinato a fare «piazza pulita». Si passano frettolosamente le proposte, i voti, le risoluzioni e tante altre cose più o meno platoniche, sulle quali si mette lo spolvero con benigna indulgenza. Non così avvenne invece a Lipsia nell’ultima giornata del Congresso socialista. Vi fu anzi discussione vivace e animatissima. E non a caso. Si trattava della posizione del partito verso i suoi due maggiori avversari la religione e il capitale. Ricordiamo i principî. La religione è cosa privata. Il capitale è il nemico. Nessuno ne dubita, sia marxista, integralista, revisionista o che so io. Sono i principî immortali, i capisaldi... e le frasi fatte. Ebbene. I soci di Breslavia si incaricarono, per conto loro, della cosa privata. Interpretando acutamente la breve formula e facendo un logico ragionamento ne tirarono la conclusione in un ordine del giorno presentato al congresso, con cui si raccomandava con calore (dringend empfohlen) ai compagni l’apostasia dalle rispettive chiese. Naturalmente non per ostilità alla religione la quale rimane cosa privata. Tutt’altro. E ciò riesce evidente, purchè si voglia seguire un po’ il ragionare del compagno Hoffmann che motivò la proposta. Religione e chiesa sono due cose affatto distinte, e nulla ha di comune l’una con l’altra. Uscire dalla chiesa non significa altro che uscire da un’istituzione governativa, che lo stato usa per mantenere la classe lavoratrice nell’ignoranza e nell’oppressione, ma non vuol dire affatto staccarsi dalla religione. La logica di Hoffmann andava a filo diritto, ma tuttavia non ebbe fortuna. Ci fu chi osservò che molti degli operai affigliati al partito credono ancor ingenuamente alla verità di quella tal formola della cosa privata. Scoprire apertamente gli altarini sarebbe un enorme errore di tattica. Molti operai passerebbero senza altro al Centro. E così la tattica e l’amore alle marche dei contributi sociali salvarono questa volta la religione dei socialisti germanici. Anche per il capitale essi ebbero un sorriso buono. C’era una risoluzione, già approvata, in cui si diceva che mai i socialisti avrebbero stretto accordi coi liberali «traditori e sfruttatori della classe operaia», perché un tale accordo sarebbe stato (parole testuali) «un sanguinoso insulto al partito». Ma via, perché essere così crudeli? Anche i liberali sono spesso buoni alleati, e se l’è visto anche recentemente alla Camera, perché dunque aggredirli così bruscamente? E con tutta la fede nei «principi», con tutto l’odio per il capitale i miti delegati di Lipsia sono tornati sopra alla loro deliberazione feroce, e poi... l’hanno respinta. Dopo di che Singer – il grasso birraio milionario – ha detto il discorso di chiusa che fu tutto un inno alla saldezza e alla fecondità dei principi socialisti i quali dovranno immancabilmente condurre il proletariato alla vittoria, e si compiacque di conchiudere apocalitticamente predicendo la rovina di tutti i partiti borghesi e specialmente del Centro. E chi ne dubita?
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11906-1910
Quando vengono riconvocate le Diete, i regni e i paesi rappresentati al Consiglio dell’Impero risorgono nel loro storico costume. Pare quasi, che i duchi, i conti principeschi, i re, i margravi si ripresentino alla ribalta della storia. Ma né in Istria, né in Moravia, né in Carniola, né in Boemia c’è chi intende la loro lingua e che accetti senza proteste e senza ilarità codesto enorme anacronismo. Cosicchè dopo una rappresentazione breve, interrotta da fischi e scappellotti il governo si rassegna per la centesima volta a rimettere nei loculi funerari le mummie del «nesso storico». Vedete un po’ quello che è accaduto giovedì e ieri. Nella Dieta stiriana un deputato sloveno, per la prima volta, ha parlato sloveno. Fischi, urli, proteste dei tedeschi. Il capitano provinciale pregò l’oratore a parlare tedesco, non comprendendo egli l’idioma sloveno. Urli e fischi degli sloveni: Lo sloveno è una lingua, non un idioma, abbasso! La seduta è interrotta. Gli sloveni si radunano in fretta e decidono stante pede di fare l’ostruzione, quando non venga data loro soddisfazione. In Moravia i socialisti danno l’assalto alla tribuna presidenziale perché il presidente non legge una loro interpellanza prima della trattazione delle proposte d’urgenza. Il capitano chiude in fretta e furia e si precipita fuori dell’aula a salvamento. In Carniola gli sloveni chiedono l’elaborazione di una legge contro le scuole tedesche, copiando il testo dalla lex Axmann, votata alla dieta austriaca contro le scuole slovene. Tumulti contro il luogotenente Schwarz: Siamo sloveni, fuori i tedeschi! E nel regno di S. Venceslao? Qui tanto e tale è il nesso storico che si teme di metterlo alla prova anche per una seduta sola. Eccellenze esperimentate, uomini di Stato consumati alla politica, conti, baroni, principi con molte medaglie e molte tradizioni e – cosa moderna – molto argent concentrano tutta la loro potenza, tutta la loro intelligenza per stringere una tregua, mettere in moto il carro almeno una giornata sola. E pur non si muove! Una lunga relazione telegrafica ci annunzia che anche le trattative corse ieri furono senza risultato. La conferenza dei capiclub non significò avvicinamento alcuno. Tuttavia il principe Lobkowitz – dice il nostro telegramma – espresse l’opinione che si arriverà ad un accordo. Sarebbe il millesimo che si raggiunge in Boemia senza che la formula scovata con tanta arte abbia mai avuto un significato di pacificazione o tregua nazionale. La verità è che le Diete, costituite come sono, rappresentano un anacronismo il quale si trova ad ogni passo in conflitto colle esigenze e colle condizioni reali della vita moderna. Solo l’autonomia nazionale col suffragio universale può restaurare la vita delle rappresentanze provinciali. Ma a tale meta la via è lunghissima e su essa vanno lasciati addietro gli idoli infranti di parecchi secoli.
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1,909
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11906-1910
Non mai forse nei tempi moderni la Camera dei Lords ebbe come oggi la coscienza della propria importanza e responsabilità, posta nel bivio o d’approvare una legge di finanza che uno dei più illustri suoi membri qualificò di «rivoluzionaria», o di provocare, respingendola direttamente od indirettamente, un grave conflitto costituzionale ed una perturbazione nella pubblica amministrazione. Non è facile per i Lords prendere una risoluzione in uno od altro senso. Parliamo, s’intende, della grande maggioranza che è conservatrice ed arbitra dei progetti di legge che i Comuni mandano all’alto consesso. La minoranza liberale è esigua e non conta. Dunque i Lords, se volessero agire secondo i loro principi e le loro inclinazioni, respingerebbero senz’altro quel famoso budget di Lloyd George , del quale – ricorderanno i lettori – altra volta ebbimo occasione di occuparci e che fece tanto rumore per la sua tendenza alla finanza democratica; ma d’altra parte si comprende che s’arretrino davanti alle conseguenze d’un atto sì audace e pensino anche ai propri interessi, ben sapendo che in un conflitto tra i due rami del Parlamento la peggio toccherebbe al più alto, qualora il paese, consultato, desse ragione al Governo ed al partito liberale. E quando pure la Camera dei Lord si sia decisa a fare il proprio dovere anche si fractus illibatur orbis, non può non chiedersi in grave dubbio qual sia il suo dovere? Un filosofo francese disse che il dovere è ciò che non piace. In tal caso, il dovere dei Lords potrebb’essere quello di votare il finance bill che dispiace loro. Ma molto più dispiace loro approvare una legge che li tocca nella borsa e che essi chiamano socialistica. Tutto il loro conservatorismo vi si ribella. Eppure la riforma finanziaria di Lloyd-George non è affatto determinata da idee di rivoluzione sociale. Fuori dell’Inghilterra nessuno si sognerebbe di menarne tanto scalpore. Invero: il tesoro ha bisogno di 400 milioni. Llyod- George li ha trovati tassando i ricchi nella loro proprietà, i poveri sui loro vizi – l’alcool e il tabacco. I tre cardini del suo budget, contro cui si è scatenata più furibonda la guerra della grande stampa conservatrice sono: l’imposta sopra gli incrementi di valore della proprietà fondiaria non dovuti all’opera del proprietario ma della collettività (una tassa questa proposta anche da noi, e che è già applicata a Vienna e altrove col nome di tassa sulle aree fabbricabili); l’aumento progressivo dell’imposta rendita per i grandi redditi; l’aumento progressivo delle tasse ereditarie per le grandi fortune. Ora questa non è rivoluzione. Llyod-George ha trovato l’imposta progressiva nell’arsenale finanziario della sua patria. Ve l’aveva introdotta William Harcourt nel 1894. Non fece che accentuarla. Sull’equità di una tassa sugli incrementi di valore della terra dovuti a cause collettive, non c’è bisogno di insistere. Ma quantunque a noi sembri così, i Lords che preferirebbero cercare le nuove entrate dello Stato nei dazi non sanno decidersi a entrare in un ordine di idee così contrario alla loro mentalità abituale. E se ne rimangono perplessi. Né lo sono meno i loro amici della Camera dei Comuni i quali non osano dar loro consigli positivi. Nel suo recente discorso di Birmingham il Balfour pose al paese il dilemma: socialismo, di cui il budget è la prima applicazione, o riforma della tariffa per supplire alle necessità del bilancio, ma non esortò i Lords a respingere l’opera di Lloyd-George. Il Chamberlain, in una lettera a Balfour, affermava che la Camera alta ha il dovere di provocare un consulto del paese. È un invito indiretto a respingere la legge di finanza, ma il coraggio dell’invito diretto nessuno l’ha, di quelli, s’intende, che per la loro posizione sentono la responsabilità dei loro atti e delle loro parole. È vero che il bill, essendo tuttavia in discussione nella Camera dei Comuni, può subire nuove modificazioni oltre quelle che il Cancelliere dello Scacchiere consentì ad inchiudervi, ed assumere, infine, un aspetto meno ripugnante alla Camera alta, onde ai membri di questa come ai leaders del partito conservatore-unionista s’impone ora il riserbo. Ma è d’uopo constatare che più la discussione del «bill» s’approssima al termine nella Camera dei Comuni e più si radica l’impressione che i Lords lo respingeranno quando verrà davanti a loro. Ch’essi siano in vena di combattimento appare dalla vivacità con cui discussero in seconda lettura la nuova legge irlandese, introducendovi non poche modificazioni non volute dal Governo. La sorte dei «bill» è incerta. Se da quest’attitudine dei Lords si dovesse argomentare quella che spiegheranno di fronte al bilancio s’arriverebbe alla conclusione che una crisi costituzionale, la più grave dopo quella del secolo XVII, sia inevitabile. Tant’è che oggi, non solo si parla di elezioni generali, ma i partiti già vi si preparano, poiché l’appello alla nazione seguirebbe da presso il voto ostile dei Lords, cioè in dicembre od al più tardi in gennaio. Un fatto che può influire sulla condotta dei Lords è l’agitazione del ceto bancario e commerciale contro il bilancio. La voce della «City», dove per iniziativa delle più celebri Banche va coprendosi di firme una petizione alla Camera dei Lords perché respinga il budget sarà un buon pretesto di più per il ramo del Parlamento. I Lords sentono formarsi via via intorno a sé un ambiente morale che li incoraggia alla resistenza, ma sentono in pari tempo l’enorme responsabilità che s’addosserebbero scatenando un conflitto costituzionale. E più che la responsabilità essi pensano forse al danno irreparabile che deriverà per la loro importanza legislativa se le elezioni generali daranno ragione alla Camera bassa, perché ciò significherebbe per i Pari d’Inghilterra l’esautoramento immediato e duraturo. Ed è perciò che nella storia del costituzionalismo inglese – il costituzionalismo classico – è questo un momento veramente storico.
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11906-1910
L’ultimo tentativo non era l’ultimo per il bar. Bienerth, e a Praga si tenta e si tratta ancora. Ora non è solo la Dieta boema che bisogna salvare, è il parlamento cui minaccia la sorte stessa. Al salvataggio lavorano i feudatari boemi affaticando i propri crogiuoli per combinare la pietra della pace, e con altri metodi ma col medesimo intento lavorano i partiti democratici in Boemia, a Vienna e dappertutto. Accentuano questi i problemi economici e la minaccia di una crisi industriale e finanziaria che si disegna lontana, lontana nell’orizzonte grigio. In Inghilterra si prepara la vittoria del protezionismo doganale. Migliaia di disoccupati invadono le vie di Birmingam, Manchester, Leeds, Londra e leggono con avidità e con un sussulto di speranza i proclami elettorali dei protezionisti, i quali dicono: Tarif Reform means full time! La riforma della tariffa doganale vuol dire occupazione e lavoro. Se il ministero liberale cadesse, se vincesse il protezionismo? Una crisi economica più terribile di quella americana, colpirebbe l’Europa. L’Austria-Ungheria che esporta ora in Inghilterra per un quarto di miliardo si vedrebbe ricacciata buona parte di merce dentro le barriere doganali. Lavorate quindi, deputati, concludono gli ammonitori, provvedete e prevedete! Dall’altra parte si levano voci di controllo contro le speculazioni del capitalismo. La crisi del mercato finanziario, provocata dal disagio industriale americano è finita, le borse ricominciano l’attività ad alta tensione, il pubblico specula di nuovo e volentieri, i corsi salgono, i cartelli e i trusts riprendono il vigore della loro feroce dittatura. Lasciate lavorare il parlamento, concludono le Cassandre, poiché il popolo ha bisogno delle difese della legislazione sociale. Ed infine una voce fortissima si leva dalle grandi masse: Dateci le assicurazioni sociali! I progetti giacciono indiscussi sui banchi dei deputati eppure furono proclamati in cento e cento comizi la cosa più urgente, più necessaria dell’ora che corre. Sono voci che si sperderanno senza eco? Eppure l’appello delle necessità economiche finirà col portar vittoria sulle ragioni politiche e i popoli austriaci dovranno comprendere che la difesa e l’acquisto dei propri beni ideali è da farsi di conserva col progresso economico; ovvero se questo s’addimostra impossibile, si dovrà ammettere che gli ideali erano fantasmi di un’ideologia astratta o idoli falsi di una demagogia traditrice.
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11906-1910
Eccoci nella solita posizione, fra due fuochi. Abbiamo appena reagito contro gli attacchi del signor De Frenzi e dell’impiegato al socialistoide Ufficio del Lavoro di Roma nonché corrispondente dell’«Alto Adige» dr. Marchetti, ed oggi ci tocca di rispondere ad un giornale tirolese, intorno allo stesso argomento. Le ragioni dell’attacco sono, per vero dire, alquanto diverse. I due giornalisti romani ci accusano di essere punto italiani anzi antiitaliani, i tirolesi invece ci attaccano perché siamo troppo italiani, e feroci aizzatori delle lotte nazionali. Il De Frenzi ha scritto che il clero trentino muove una campagna d’odio e di denigrazione contro l’Italia, la Meranerzeitung vede nei preti trentini agitatori dell’irredentismo (irredentische Hetzer). Ed anche tu, caro Longinotti , in quella tua rapida visita al nostro paese sei capitato nell’incrocio dei fuochi italotirolesi. Poiché il De Frenzi rimproverava al simpatico deputato bresciano troppa freddezza nazionale, ed oggi lo scrittore di Merano denuncia quella sciagurata lettera come un documento di solidarietà fra deputati del regno e gli irredendisti trentini. Vi pungerà poi la curiosità di saper che cosa sia nel linguaggio dei due avversari il giornale che propugna siffatti principii. Due cose sole, amici lettori. Per certa gente siamo la succursale della polizia austriaca e per l’altra genia d’oltre Salorno un foglio di propaganda irredentista, un provocatore del nazionalismo più acuto. Ebbene, non turbiamoci, amici, non insistiamo a rintuzzare i colpi degli avversari. Il loro fuoco s’incrocia sopra le nostre teste, senza ledere i nostri corpi, senza ostacolare d’un palmo il nostro cammino. Andiamo risolutamente ed energicamente avanti, poiché la nostra via è giusta e sicura. Che importa se un giornalista romano ignora la nostra vita nazionale e nella sua ignoranza lancia false incolpazioni contro i nostri preti e contro il popolo nostro? Che importa? La guerriglia etnica, che è il problema nazionale del Trentino d’oggi, non si combatte in piazza Colonna né si vince al caffè Aragno. E noi combattiamo non per guadagnare gli allori del Campidoglio o riscuotere l’approvazione degli osservatori, lavoriamo per il popolo nostro, per questa patria viva di carne ed ossa, che cerca il suo avvenire in se stessa, nelle proprie energie intellettuali, e nei propri muscoli ingagliarditi. Fuori sta chi tale avvenire ritiene maggiormente assicurato se è augurato nei brindisi, sospirato negli articoli, significato nelle epigrafi e nei monumenti. È il romanticismo nazionale che ritorna, è il garibaldinismo di vecchio stampo, sono i costumi della borghesia rivoluzionaria del quarantotto, rimasti ancora quassù tra i monti come anacronismo storico, favorito, lo concediamo, da altri anacronismi e da altri ricorsi. Se tutto questo è l’irredentismo, noi ne siamo immuni, lo diciamo francamente tanto allo scrittore del Giornale d’Italia quanto a quello della Meranerzeitung. La tristezza della nostra vita economica, la concezione realistica della vita sociale, il contatto colle classi popolari ha imposto a noi quel carattere di sincerità democratica che c’impedisce, come fa cert’altri, di inaugurare due politiche, quella cioè della realtà quotidiana e quella delle segrete riserve, col risultato di perdere la dignità in mezzo alle contraddizioni richieste dall’una e dall’altra. Noi ci siamo posti nettamente sul terreno costituzionale e vogliamo su tale base concentrare i nostri sforzi per conquistare al popolo trentino il suo massimo sviluppo, il suo vigore più bello nell’italianità, nella forza economica, nell’educazione cristiana. Fuori di tali basi il partito popolare non agisce e non esiste. Abbiamo scritto altra volta, e se lo noti anche il signor De Frenzi: la politica estera coi suoi esperimenti è lasciata liberamente ad altri. Ma dentro i nostri confini il clero ed il partito popolare faranno nazionalmente il loro dovere, anche questo senza transigere né con governi né con avanzi di partiti antidiluviani che ammettevano la difesa nazionale solo fino che non seccava troppo la nazione vicina. A noi invece piace constatare che il nostro agire energico e ribelle contro i germanizzatori ci attira l’odio dei prepotenti alla Meranerzeitung. E serva questo rancore ad eccitamento per continuare la nostra via che è giusta perché si dirige contro la prepotenza, ed è vera perché codesta prepotenza cerca a tutta possa di traversarla.
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11906-1910
Abbiamo seguito con piacere l’attività della rivista «Adige ed Adria» e, conoscendo l’equanimità dell’editore, l’abbiamo fin da principio raccomandata. A noi più che la reclame descrittiva della nostra regione parve bello e degno della massima considerazione il compito che il signor Schmalix si proponeva, di rompere la diga di egoismo economico e le mura cinesi impastate di odio nazionale che la stampa e le associazioni tirolesi avevano eretto oltre Salorno. Orbene, oggi possiamo constatare che la breccia è stata fatta e che giorno per giorno si allarga. Perfino le Münchener Nachrichten non prestano più fede assoluta agli interessati travisamenti dei signori di Bolzano e di Innsbruck. Con tanto maggior diritto possiamo quindi insistere anche presso gli organi governativi, perché piglino il loro coraggio a due mani e impediscano una propaganda calunniosa e brutale contro la nostra religione dal punto di vista dei forestieri. Non bastavano gli appelli volanti lanciati in tutta la provincia dalla consorteria rohederiana, non bastavano le denuncie e lo spionaggio dalle colonne dei quotidiani contro quegli albergatori che non si inchinano innanzi ai profeti della germanizzazione; ora è l’organo ufficiale di un’associazione potente che pubblica le liste di proscrizione. Accenniamo alle Mitteilungen della società alpina austro-tedesca. Nel supplemento al n. 20 del 1° ottobre è ricomparsa una prima parte di quella lista rohmederiana ormai famosa, naturalmente in edizione riveduta e corretta . Fra l’altro vi si legge «che a Bronzollo sono raccomandabili solo il restaurant alla stazione e l’Aquila nera. Tutti gli altri vanno evitati». Di Egna (attenti fiammazzi!) si raccomanda la Corona e non si oppugna il tedeschismo del signor Ueberbacher, quantunque venga notato che la Posta è frequentata anche da molti italiani. Dei pochi non si raccomanda più l’ex Buchholzer Hof perché passato in mani italiane. Di San Michele all’Adige si nota come tedesco fidato (zuverlässig deutsch) l’Albergo all’Aquila Nera e si loda anche la Corona perché proprietà del tedescofilo Ress. In quanto a Lavis, il germanizzatore avverte: «Fu fino al secolo XVI paese tedesco, ora è italianizzato, ma la gente del contado che è tedesca lo chiama ancora Neves. Comunque non si dimentichi che la Corona è ora affidata ad uno svizzero tedesco». A Giovo di Verla e a Mezolombardo fra le «deutsche und deutschfreundliche Gaststätten» viene messo il Marchi, rispettivamente l’Hotel Vittoria. Di Trento si accolgono nella lista la Stella d’oro, restaurant civile tedesco in piazza San Pietro, il Caffè Europa, le birrerie che vendono birra di fabbriche tedesche e il Mayr, l’Hotel Trento, l’Isola Nuova; a Rovereit l’Hotel Centrale; a Mori (povero Mori) il proscrittore nota che «non vi è nessun albergo tedesco». Veniamo in Valsugana. Dopo una viva raccomandazione per l’Hotel Girardi e per l’osteria al Ponte si nota che l’Hotel Voltolini è deutschfreundlich! Di San Cristoforo si raccomanda la restaurazione Paoli, a Caldonazzo (Galnetsch, naturalmente!) degna di più alta considerazione per chi non lo sapesse è la «trattoria alla villa» del signor Bort ed a Tenna non si dimentichi il Cervo del Beniamino Betti. L’Hotel Caldonazzo è neutrale. E per questa volta la rassegna si ferma qui. Ne abbiamo parlato anzitutto per sottoporla all’illuminato criterio delle autorità inquisitoriali innsbrucchesi. Noi chiediamo: Esiste o non esiste una legge contro i proclamatori del boicottaggio? E non è recente l’ordinanza ministeriale in cui si invitavano le autorità a procedere col massimo rigore, appunto con riguardo alle lotte nazionali? Ripetiamo: Tale ordinanza non ha vigore se non contro gli italiani? O forse si può mettere in dubbio il carattere di proscrizione che riveste la lista delle Mitteilungen? Benché sia scritta in pessimo tedesco, riteniamo tuttavia che ad Innsbruck si intenderanno simili frasi: «Alle anderen sind zur meiden», oppure: attenti all’antitedeschismo ecc. ecc.? Se le autorità governative fanno per il bollettino della società austro-tedesca delle eccezioni pensino anche a difendersi dalla accusa di connivenza e di corresponsabilità cogli eterni nostri odiatori e provocatori. Comunque, provvediamo noi in quanto ci spetta alla nostra difesa. Gli esercenti che ricevono simili elogi faranno bene a scrivere alle Mitteilungen che ad una tale reclame rinunziano volentieri perché toglie loro il rispetto e l’appoggio della regione che è la loro patria o terra ospitale.
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11906-1910
I giovani liberali L’oratore ricorda qui il radicalismo e l’anticlericalismo della scuola del Popolo, di cui furono alunni i cosiddetti «giovani liberali», fondatori della Lega democratica. Ogni pretesto era buono per far dell’anticlericalismo di piazza. Il più celebre fu l’imbrattamento del busto a Canestrini, accaduto al 23 settembre 1903. Benché La Voce Cattolica protestasse contro l’autore di tale atto e fosse probabilissimo l’intervento di qualche agente provocatore (fatti recenti ci hanno confermato dove stiano di casa gli imbrattatori), gli anticlericali di tutte le gradazioni mossero all’attacco. I consiglieri comunali della Democratica, con pensiero altamente geniale, proposero di ribattezzare l’antica via San Pietro in via Canestrini, e in piazza e per le vie si inscenarono dimostrazioni violente. La ragazzaglia insultava i preti e i pochi che avevano il coraggio di dire il proprio biasimo, la polizia lasciava fare, fino che ad un suo membro influente parve che i «preti i ghe n’avessa abbastanza». In protesta i deputati conservatori alla Dieta presentarono al 9 novembre un’interpellanza in cui era detto: «Per quanto sia da deplorarsi e riprovevole l’atto vandalico di chi ha sfregiato il busto a Canestrini, è ancor più deplorevole che dell’atto di un singolo, di cui ignorasi a qual partito appartenga e che ogni partito certo disdegna e sconfessa, si tragga argomento, per inveire contro un intero partito e contro un intero ceto di persone». I democratici trovarono l’interpellanza offensiva per la città di Trento e telegrafarono al podestà, dr. Brugnara, capo del club dietale, un aperto biasimo. Perché aveva egli permessa la presentazione della interpellanza da parte dei conservatori, perché non aveva levata la voce contro simili attacchi? In protesta l’«Alto Adige» annunziava la candidatura dietale del candidato avv. Silli, in sostituzione del dimissionario Bertolini. Si accusava in genere i deputati liberali di troppa cedevolezza di fronte ai «clericali», ed i due capi d’accusa principali erano questi: primo, l’omissione della protesta suddetta, poi la firma ad un telegramma di condoglianza per la morte del principe vescovo Valussi . Tali le solenni origini della nuova democrazia. Il Popolo stava in cattedra ed augurava che da parte degli anticlericali si cancellasse non solo la macchia del busto, ma «si lavori a cancellare anche dal paese l’onta e la vergogna di un partito che della verità della scienza e della libertà è e sarà implacabile nemico» . Invero alla loro messa anticlericale i democratici vollero più tardi dare anche un’interpretazione di radicalismo nazionale diretto contro il fatto che tutti i deputati dietali avevano sospesa l’ostruzione per votare gli aumenti di stipendio ai maestri. Così, l’«Alto Adige» dei 23-24 dicembre, riassumendo, stampava: «I democratici hanno protestato a ragione contro un indirizzo della politica provinciale sommamente dannosa al paese e se la loro protesta ha fatto prendere cappello alla moderateria trentina, i democratici non hanno che vederci. Con molto maggior ragione si potrebbe, caso mai, asserire, che la causa dello stato presente si fu il procedere dei deputati della Dieta, del tutto contrario agli impegni da essi presi di fronte agli elettori». Le conseguenze politiche sono note; rottura del compromesso liberaleconservatore, proclamato una volta il patto della concordia e della dilezione contro il nemico comune, venuto oggi in disprezzo quasi fosse un vergognoso connubio, il disgregarsi in due frazioni del partito liberale, la vecchia delle quali, forte specialmente in Rovereto, non volle mai ammettere la fondatezza delle accuse mosse dai democratici, e nel campo cattolico il fortificarsi dell’idea essere necessario ed urgente di organizzarsi politicamente in base ad un programma popolare e proprio. Siamo ai natali dell’unione politica. Ma a noi oggi interessano soprattutto le conseguenze dell’attacco anticlericale nell’ambito dell’azione comunale di Trento. Il dr. Brugnara che aveva deposto il mandato dietale, al 23 novembre dimise la carica podestarile. Lo seguì il vicepodestà conte Manci che, alle ragioni del podestà, aggiunse le sue preoccupazioni per la finanziazione della nuova impresa: la centrale del Sarca; e poi la Giunta che fece atto di solidarietà col primo cittadino. Dopo parecchi tentativi di ricostituzione arrivammo al commissario governativo che per il marzo del 1904 indisse le elezioni generali. I democratici, decisi ormai ad assumere il potere, si allearono coi socialisti. La lista conteneva parecchi i.r. impiegati e (ahi, somma sventura!) un ex guardia di polizia di parte socialista. Questa grave circostanza doveva riuscire fatale alla novella democrazia! Caratteristico è che dei candidati comuni non comparve un programma comune. Ciascuno pubblicò un’edizione propria colle specialità dell’officina. Il Popolo prometteva senz’altro l’abolizione e la riduzione di tasse, l’«Alto Adige», più guardingo non prometteva niente, ma a chi domandava come si farebbe poi a finanziare la centrale, rispondeva sdegnosamente che a questo ci penserebbero loro. Comune era invece l’intonazione anticlericale. Alla vigilia delle elezioni, nel comizio, il dr. Battisti, volgendo lo sguardo alla nuova era, augurava che a Trento «invece di guglie, di chiese e campanili si vedessero fumaiuoli e camini, la ricchezza di Trento» . Alla coalizione radicale si oppose una coalizione conservatrice. Nel suo programma erano i seguenti caposaldi: rispetto ai sentimenti della cittadinanza, unione di Trento con le valli, evitare attriti per questioni religiose. In affari amministrativi i due programmi erano identici, solo che in quello dei conservatori si accentuava la necessità delle economie. Al 14 marzo si svolse la lotta del terzo corpo. I radicali vinsero con un massimo di 626 voti, la coalizione moderata soccombette, raccogliendo sui capilista Brugnara e Peratoner non più di 551 voti. Con tale votazione incomincia l’era democratica in comune. L’oratore non vuole indugiarsi a descrivere la storia, perché è cosa di ieri e perché si può racchiudere in poche parole: nessuna democrazia (si pensi al contegno del Municipio di fronte ai padroni fornai col conseguente rimipicciolimento del pane, si pensi alle tasse sull’acqua ed al modo con cui venne imposta), nessuna discussione pubblica ed una notevole paura del socialismo al quale anche quando l’idillio è rotto si concedono non solo sovvenzioni materiali ma si fa largo per ogni manifestazione che non sia direttamente antiliberale. L’oratore tocca alcuni episodi elettorali dell’era democratica. Nel dicembre del 1895 i cattolici, all’ultimo momento, con brevissima preparazione, raggiunsero nel terzo Corpo 300 voti, la metà circa dei voti radicali. Nel secondo corpo si ebbe una votazione-protesta degli impiegati, i quali riunirono sul nome di Antonio Tambosi 61 voti. Gli impiegati raccoltisi, in adunanza all’Hotel Europa rispondevano alle provocazioni dell’«Alto Adige» con una risoluzione nella quale si protesta contro «un sistema a base di intollerante invadenza, di intemperante soperchieria, di demagogica tracotanza da noi non temuto, sistema che già da troppo tempo perdura e che inasprisce e nausea la parte più sana ed eletta della città e delle valli, che, indignate, rifuggono dal loro centro. È ora di finirla!». È a questo turno di tempo che risale la rottura coi socialisti in causa di quella malaugurata ex guardia, che i democratici avrebbero magari tenuta per buona come comandante degli agenti municipali, ma non come consigliere. E veniamo al 1907. In maggio i democratici o buona parte di loro levano sugli scudi il socialista Avancini, ma in dicembre, alla vigilia delle elezioni comunali, ai medesimi «compagni» viene dato il bando, perché antinazionali. «Il socialismo trentino avverte l’Alto Adige (30 novembre) – si ispira a quelle idee sindacaliste ed internazionalistiche, alle quali nessun trentino potrà mai dare quartiere finché il terreno non sia completamente sbarazzato da tutte le piccole e grandi insidie che minano la nostra esistenza nazionale». E più innanzi, parlando della sovvenzionata Camera del lavoro: neghisi il voto ad «una istituzione che si apparta ostentativamente quando si tratta di combattere i nemici della nostra patria e qualifica come gazzarra una nobile lotta ingaggiata nel nome del principio di nazionalità». Tale rottura coll’ala socialista dell’antica alleanza parve consigliare uno spostamento verso destra. Ma i moderati, alle sollecitazioni di parecchi di ritornare almeno nel Consiglio, risposero con un diniego, osservando che il Consiglio deve condividere le responsabilità della Giunta dalle quali i moderati rifuggono (Unione, 14 novembre) e il barone Salvotti , al quale si rinfacciava un trapasso troppo immediato dal Comitato Diocesano alla Lega democratica, si vantava ad elezioni fatte, d’aver saputo tener lontani dal Consiglio comunale «certi faziosi che avrebbero tirato addosso al partito democratico il rimprovero di aver fatto un passo indietro, con grave suo danno, relegando invece i moderati nell’abbandono oblivioso in cui li ha lasciati la cittadinanza trentina». Caratteristico è il disinteresse, con cui si svolsero queste elezioni. Si ha infatti la seguente statistica: III corpo: elettori iscritti 1900, votanti 587, cioè il 30%; Il corpo: elettori iscritti 595, votanti 136, cioè il 24%; I corpo: elettori iscritti 60, votanti 13, cioè il 21%. E si noti che fra i 587 votanti del III corpo sono comprese circa 200 procure! Non entra a discutere la gestione finanziaria dell’era democratica, non intendendo oggi il partito di presentare una propria lista con un programma economico dettagliato, ma fa semplicemente osservare che il partito dominante, in 5 anni di amministrazione, lasciando da parte tutto il resto è arrivato ad un sorpasso di un milione128 mila, ad un nuovo debito di un milione e mezzo e quel che è peggio ad un deficit che risulta tutt’altro che provvisorio di almeno 100 o 120 mila corone annue, da coprirsi con nuovi balzelli. Ma forse è migliore e più favorevole il bilancio morale della era nuova? Non vogliamo dire l’opinione nostra che potrebbe parere troppo soggettiva. Leggete Il Popolo di giorni fa. Si tratta degli alleati e dei commilitoni di 5 anni or sono. «A Trento – stampa il foglio socialista – c’è un Consiglio comunale in cui prevalgono i poltroni, gli inerti, gli eterni muti. Non discutiamo l’indirizzo (qualche volta si potrebbe dire il non-indirizzo) del partito che tiene le redini del Comune, constatiamo che fra i 36 consiglieri ci sono troppe teste vuote, troppe animucce imbelli, troppa gente che tien la carica come un gingillo. Il Consiglio comunale non è in massima composto dalle migliori forze, non diciamo della città, ma neppure del partito dominante. A Trento – e purtroppo l’abitudine è antica – nel Consiglio civico per un consigliere intelligente ci sono quattro o cinque che si lasciano tirare pel filo come le marionette. Tutto quello che sanno fare due terzi di essi è – quando lo sanno – votare, secondo gli ordini del padrone. Le discussioni sono state abolite nel consesso di Trento. Tutt’al più si fa qualche discorsetto rettorico – da qualcuno magari imparato a memoria sul manoscritto di terzi – o un po’ di pettegolezzo sulle questioni di minor importanza». Ma non migliore giudizio ci pare risulti dalla posizione che oggidì assume l’organo municipale, l’Alto Adige. Nella settimana testé decorsa sono comparsi tre articoli, che sembrano scritti dalla Maddalena pentita . L’Alto Adige si rivolge a quella che un tempo fu chiamata «moderateria» e: taccian, pare ripeta. Taccian le accuse e l’ombre del passato Di scambievoli orgogli acerbi frutti Tutti un duro letargo ha travagliato Errammo tutti. Oggi in più degna gara a tutti giova Cessar miseri dubbi e detti amari Al fiero incarco della vita nuova Nuovi del pari. Questa volta il «fiero incarco» sarebbe naturalmente quello di pagare i debiti. O meglio ancora la posizione dell’«Alto Adige» ricorda il «Mira, o Norma – ai tuoi ginocchi questi cari pargoletti, Deh! pietà...» . Leggete infatti gli articoli di fondo sopralodati, in cui si fa appello a coloro che «per ragioni di coltura, di censo e di aspirazione dovrebbero dare l’indirizzo nel seno del partito liberale» e si parla della necessità di richiamare in consiglio i moderati per dargli l’autorità ed il valore voluto dal momento attuale. Bel complimento ai consiglieri d’oggi! La finale poi è commovente come quella dei drammi degli oratori. È un inno alla «nuova era di pace e di lavoro concorde, la quale sarà apportatrice di nuovi benefici alla nostra città diletta» ed un sacro giuro di voler collaborare «all’opera benedetta della concordia cittadina». In tale lacrimevole ed umile intonazione dunque doveva finire dopo un lustro appena la fanfara di guerra della democrazia liberale? Ma a noi poco importa se dinanzi a tale compunzione – dice qui il relatore – Norma s’impietosirà o meno e se i moderati si sobbarcheranno al nuovo «fiero incarco», a noi importa rilevare con quali intenti si tenta la concentrazione delle forze liberali rispetto al nostro partito, l’«Alto Adige» non vi lascia in dubbio. La preoccupazione prima è sempre quella che i clericali non entrino in Municipio. «Teniamo le polveri asciutte!» avverte l’«Alto Adige»: non si sa mai! Per questo sforzo anticlericale, per questo bando da mantenersi ad ogni costo contro i nostri aderenti, invano cercherete ragioni plausibili. Forse che siamo un manipolo trascurabile? Le elezioni parlamentari del maggio 1907 hanno dato 960 voti a noi e 934 ai liberali. Forse che non paghiamo imposte in misura ragguardevole? Si pensi solo a quello che pagano le istituzioni centrali del nostro movimento. A mo d’esempio la Banca cattolica di tasse comunali paga 20.700.16 corone annue, la Banca Industriale, il cui capitale è anche in gran parte dei nostri consenzienti, paga 21.489.79. Forse che i deputati del nostro partito combattono gli interessi di Trento? O non è vero invece che in molti problemi di capitale importanza per la città, l’opera dei deputati popolari è ricercata e largamente data? Nessuna ragione oggettiva quindi, ma solo lo spirito di fazione cagionano l’ostracismo che si vuole a qualunque costo mantenere contro di noi. Di fronte a che noi non ci inchiniamo per chiedere delle concessioni, ma domandiamo ad alta voce il nostro diritto. Diritto che si risolve in una protesta contro un sistema elettorale che dà mandato assoluto ad una minoranza d’imporre balzelli sulla maggioranza. E qui il relatore si diffonde a spiegare il vigente sistema che risale al 1889 e la riforma votata per l’ultima volta nel Consiglio comunale ai 3 settembre 1903, e che ora è in Dieta, aspettando l’approvazione della rappresentanza provinciale. La riforma introduce un quarto corpo coi caratteri della vecchia quinta curia parlamentare. Noi temiamo però che anche con tale riforma con pretesti anticlericali si riesca ad escludere dal Municipio il nostro partito, non per la forza dei nostri avversari presi a sé, ma per le coalizioni che si formeranno in odio contro di noi. Chiediamo quindi che il nuovo sistema permetta la rappresentanza delle maggioranze. In Italia l’articolo 74 della legge 4 maggio 1898 prescrive che «ciascun elettore ha diritto di scrivere sulla scheda tanti nomi quanti sono i consiglieri da eleggere, quando se ne devono eleggere almeno cinque. Quando il numero dei consiglieri da eleggere è di cinque o più, ciascun elettore ha diritto di votare pel numero intero immediatamente superiore ai quattro quinti». In tal maniera un quinto di eletti apparterrà ad un partito di minoranza. Ma più equo e più sicuro è il sistema proporzionale. L’oratore descrive la marcia del principio proporzionale nei corpi rappresentativi politici, dove però è ancora discutibile se sia da preferirsi un grande frazionamento di partiti alla base sicura di Governo che dà una forte maggioranza. Ma certamente accettabile è la proporzionale per i corpi amministrativi. Essa fu introdotta anche recentemente in Baviera, in parecchie città austriache e in tutte le città del Vorarlberg che ha copiato il sistema dalla vicina Svizzera. Nel Vorarlberg vige il sistema della lista obbligata. I partiti cioè devono presentare 14 giorni prima al magistrato la lista dei propri candidati. Il magistrato esamina le liste e se qualche candidato è contenuto in più liste, gli chiede se a ciò ha dato il suo assenso o meno: in caso negativo il suo nome viene cancellato dalla lista che egli non accetta. Poi sei giorni prima delle elezioni, le liste vengono pubblicate come liste riconosciute. Nel giorno elettorale gli elettori, se vogliono che il loro voto abbia un valore effettivo, devono darlo ad una delle liste riconosciute. Chiuso l’atto elettorale, la commissione constata il numero dei votanti, divide questo numero per il numero dei consiglieri da eleggersi, il numero che risulta è il quoziente elettorale. Quante volte questo quoziente sta al numero di voti dati a ciascuna lista, altrettanti consiglieri spettano a tale lista. Si fa notare che per quoziente non si prende proprio il risultato netto della divisione suddetta, ma per evitare frazioni, il numero immediatamente superiore a tale risultato. Per esempio: sono da eleggersi 6 consiglieri. Il numero dei votanti è 216. 216: 6 + 1 = 30 e frazioni; il quoziente elettorale è quindi 3 – 1, e le liste vanno divise per tal numero. Il risultato ci dà il numero dei consiglieri che spettano a ciascuna lista. Un altro sistema è quello delle liste libere o di concorrenza, nel quale caso non occorre presentare previamente le liste dei candidati. Il relatore spiega anche questo sistema. Ma senza entrare in questioni di dettaglio, a cui provvederanno i legislatori, l’oratore ritiene che la proporzionale porti tali vantaggi per un’amministrazione controllata e sia così equa, che si raccomandi da sé. Si tratta di dare ad ogni partito quello che gli spetta. Non vuole entrare nella questione se si debba introdurre accanto alla proporzionale il suffragio uguale con un corpo elettorale solo. Tale postulato rinvierebbe la riforma alle calende greche. Nel Vorarlberg si è semplicemente introdotta la proporzionale in ogni corpo, lasciandoli tutti e quattro. Ritiene che anche il partito dominante non dovrebbe opporsi a tale riforma, poiché non si tratta di dare la scalata né di conquistare la maggioranza, e d’altro canto un deputato nazionale liberale l’anno scorso propugnava nell’Alto Adige la proporzionale. Egli si limita a presentare il seguente ordine del giorno: Gli elettori comunali di Trento, aderenti al partito popolare, constatando che né il regolamento elettorale cittadino attualmente in vigore, né la riforma sottoposta per l’approvazione alla Dieta provinciale corrispondono ai criteri di equità, imposti dai moderni bisogni; chiedono che accanto al massimo ampliamento possibile dell’elettorato comunale, si aggiunga l’introduzione della rappresentanza proporzionale di partiti. Tale conchiuso verrà presentato al podestà di Trento ed ai capi della deputazione dietale italiana. Il dr. Lanzerotti aderisce alla relazione del dr. Degasperi ed aggiunge agli argomenti già addotti, che non si potrà certo negare ai popolari la pratica amministrativa necessaria per i consiglieri comunali né ancora si potrà tacciarli di non aver riguardo ai sentimenti nazionali, quando si faccia un salutare confronto fra la Trento-Malè, il cui progetto era in mano della città di Trento, e la Dermulo-Mendola in mano di un nostro istituto. Il dr. Degasperi eccita i consenzienti a raccogliersi più di frequente ed a fare sentire la propria voce affinché non ci si tratti come cittadini di secondo grado, mentre si accumulano colpevoli transigenze verso il partito socialista, L’ordine del giorno venne accolto con prova e controprova ad unanimità. L’on. dr. Cappelletti crede di interpretare il pensiero dei propri colleghi dietali del Club popolare, affermando che si interesseranno della cosa nel senso voluto dall’ordine del giorno. Già nell’ultima sessione dietale l’on. Decarli fece delle riserve a proposito della riforma elettorale presentata alla Dieta per l’approvazione. I deputati non mancheranno di propugnare il principio equo della rappresentanza proporzionale. Con ciò dichiara chiusa la riuscita adunanza.
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Il conchiuso degli elettori comunali di Trento aderenti al partito popolare merita alcuni cenni di commento. Per la città vige ancora il regolamento fissato dallo statuto in base alla legge dei 7 dicembre 1888. Esso concede il diritto di voto oltre che alla cosiddetta categoria degli intellettuali, «ai consorti comunali che per la loro casa od altro stabile situato nel civico Comune o per la loro industria o professione esercitata nel distretto comunale, o per redditi d’altro genere pagano già da un anno un’imposta diretta di fior. 3.15». Il voto è così limitato a chi paga una imposta diretta ed a chi la paga almeno nella misura di fior. 3.15, e con ciò stesso ad un numero assai ristretto di censiti. Nel 1907 gli elettori inscritti in tutta Trento erano appena 2555, di cui solo 736 andarono alle urne. Se si sottraggono i 110 elettori circa che votarono nel terzo corpo per i socialisti, si ha che l’attuale consiglio comunale ebbe il mandato di amministrare la città complessivamente da un 600 cittadini! Che tale condizione di cose si risolva in un ingiusto privilegio non è chi non veda. È ingiusto anzitutto che l’elettorato sia concesso soltanto a chi paga una imposta diretta. Si pensi che l’imposta diretta più grande, il casatico (nel 1908 ha dato un gettito di 147.239.81 corone) è in realtà un’imposta che viene riversata sugli inquilini, non grava quindi sui possessori di case, ai quali è concesso il voto. Si consideri poi che le imposte dirette guadagnarono nel 1908 alla cassa comunale 381.81,62 corone, ma che le imposte indirette e le tasse di consumo ebbero un gettito di cor. 368.342,05, ossia quasi altrettanto delle dirette. E qui si tratta del pane, la cui tassa durante l’éra democratica crebbe da 163.941 corone che era nel 1904, a 200.000 corone tonde nell’anno scorso. Si tratta della carne che dà 70.722,48 corone, della birra che rende cor. 53.061,57, del vino che frutta corone 25.400, per non parlare di altri gettiti minori. Il negare il diritto di voto alla grande massa che paga tali imposte è senza dubbio un peccato grave contro la giustizia distributiva. Il consiglio comunale lo ha riconosciuto già da tempo, ancora nell’éra moderata. Le ultime modificazioni alla proposta di riforma vennero fatte nel 1903, pochi giorni prima che scoppiasse la crisi, da cui sorse il governo della Lega democratica. La riforma dormì lungo tempo negli scaffali del Ministero degli interni e capitò finalmente in Dieta dove, come moltissime altre cose trentine, aspettava il giorno della risurrezione. Dopo molte peripezie ai 15 gennaio di quest’anno il capo della commissione comunale la presentò al pleno dietale, ma l’ostruzione per la legge scolastica, le troncò il non troppo rapido volo. È noto in che consistano le innovazioni. Quando vennero proposte, eravamo ai tempi in cui il sistema parlamentare di Badeni colla V curia rappresentava il non plus ultra del progresso austriaco in materia elettorale. Ed anche la riforma di Trento venne ricalcata sul sistema Badeni. Il § 1 venne mutato così: Hanno diritto attivo d’elezione: 1. Tutti i membri comunali senza distinzione di sesso, che per la loro casa ed altro stabile situato nel civico comune, o per la loro industria o professione esercitata nel distretto comunale o per redditi di altro genere pagano un’imposta diretta. 2. Tutti i cittadini austriaci di sesso maschile, che possono disporre liberamente di sé e delle proprie sostanze, che hanno compita l’età di 24 anni e dimorano in Trento. Per coloro che non hanno il diritto di incolato in Trento, si richiederà però che la dimora abbia durato per 3 anni consecutivi prima del giorno in cui viene indetta l’elezione. Questi elettori verrebbero divisi in quattro corpi, appartenendo al primo quelli che pagano almeno cor. 200 d’imposta, al secondo quelli che ne pagano 50, al terzo quelli che ne pagano almeno 5 ed al quarto corpo tutti gli elettori. Nel 1903, quando venne data l’ultima lima alla riforma, le proposte di ridurre la dimora a soli 6 mesi o d’aumentare il numero dei consiglieri del IV corpo da 10 a 6 vennero respinte. Cosicchè al IV corpo spettano 6 consiglieri come tutti gli altri. Ora noi non intendiamo di discutere la cosa dal punto di vista dei principi. In riguardo vi sono molte divergenze e si ritiene che non sarebbe equo l’introdurre anche nei corpi amministrativi sic et simpliciter il suffragio uguale. Personalmente però siamo del parere che tali preoccupazioni contro il suffragio uguale hanno valore solo fino che si tratta di elezioni a maggioranza. Ma se quale correttivo del suffragio uguale introducete anche la rappresentanza proporzionale dei partiti, le preoccupazioni devono cadere. Poiché ogni gruppo d’interessati, ogni classe può farsi rappresentare in base alla proporzionale purché naturalmente si affermi su di una lista di partito. (Partito è qui semplicemente usato per significare un raggruppamento di persone con un carattere qualunque). L’adunanza dell’Unione politica di ieri l’altro ha ritenuto tuttavia opportuno di non entrare nella questione di massima, proponendo un mutamento radicale della riforma già votata in comune, anche per non rinviare la cosa alla lontana età ventura. L’adunanza si è limitata a chiedere l’introduzione della proporzionale, constatando che la proposta riforma potrebbe dare il mezzo all’artificiale esclusione del nostro partito da ogni ingerenza nell’amministrazione comunale, per quanto ne abbia e per il censo e per il numero degli elettori, pieno diritto. Riguardo alla tecnica da adottarsi per la rappresentanza proporzionale l’adunanza non si è espressa, rimettendo tali dettagli ai fattori competenti. Oltre il sistema delle liste obbligate, introdotte anche nelle città del Vorarlberg, è in uso il sistema delle liste di concorrenza. Supponiamo per esempio che siano da leggersi 4 consiglieri e che dall’urna uscisse il seguente risultato: lista A 1200 voti, lista B 1008 voti, lista C 612 voti, lista D 360 voti. La commissione elettorale farebbe, secondo tale sistema, le segunti operazioni. Dividerebbe i voti delle liste per 1, per 2, per 3 e per 4. : 1=1200, 1008, 612, 360; : 2= 600, 504, 306, 180; : 3= 400, 326, 204, 120; : 4= 300, 252, 153, 90. Il quarto numero nell’ordine della grandezza è il quoziente elettorale. Nel nostro caso sarebbe il 600. Dividiamo i voti delle liste per il quoziente ed avremo il numero di consiglieri che spetta a ciascuna lista. Così alla lista A toccherebbero 2 assessori; alla lista B 1, alla lista C anche 1, ed alla D nessun assessore. Tale metodo ha il vantaggio sul primo di lasciare all’elettore la massima libertà individuale fino al momento dell’atto elettorale, ma conduce viceversa a delle complicate operazioni aritmetiche, potendo nascere una grande dispersione di voti. Viceversa il sistema adottato nel Vorarlberg e spiegato da noi ieri, riassumendo la relazione del d.r Degasperi , ci pare più agevole e più consigliabile. In fin dei conti anche col sistema delle liste libere l’elettore dovrà obbligarsi già in antecedenza per una data lista, se pur intende di compire un atto praticamente efficace ed oramai nelle nostre città e borgate maggiori è talmente sviluppato il senso del partito, che una costrizione così naturale di aderire ad una lista qualunque non sembrerà troppo grave. Lasciando tali particolari ai legislatori, un’altra modificazione vorremmo chiedere alla riforma votata dal consiglio comunale del 1903. Nel paragrafo 3 è stabilito che le donne debbano esercitare il diritto elettorale per procura. Ora sono notissimi i maneggi morali e i soprusi che porta con sé il sistema delle procure. Perché non facciamo un passo inanzi e lasciamo che le donne che hanno il diritto di voto, lo esercitino direttamente e personalmente? La riforma comunale del Vorarlberg, votata ai 13 gennaio di quest’anno ha allargato di molto il voto anche alle donne che pagano una imposta, ma stabilisce che le maritate non possano far procura che al marito, il quale però non può votare che una volta sola, e le altre esercitino il voto personalmente. Siccome nel piccolo paese è anche in vigore l’obbligatorietà del voto, così di questi giorni a Bregenz, per esempio, assistiamo a delle adunanze elettorali femminili. E perché no? Non è questo un grande progresso di fronte agli abusi del voto per procura?
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Buon giorno, ben ritrovati, o graveolenti signori radicali dell’«Alto Adige». Vi siete riscossi finalmente! In questo piovigginoso e tetro autunno... municipale vi abbiamo visti andar via impettiti, lenti, abbottonati, «solenni come un monumento». Il gesto misurato, la parola breve, e i sospiri lunghi. Chi avrebbe riconosciuto in codesta metamorfosi liberalenazionale il radicale monellaccio di ieri, chi avrebbe ricordato, sotto il sorriso procacciante, la beffa d’un tempo contro la «moderateria trentina»? Oggi però, forse per un breve intervallo, siete usciti di diplomazia, avete scosso da voi l’impaccio di quell’armatura posticcia che vi impone la concentrazione delle forze liberali ed il supplicato ritorno dei moderati e, ritornando rudemente voi, niente altri che voi, ci avete mandato in redazione il vostro giornale con quattro impertinenze. Grazie, ora vi riconosciamo al visaggio di modelli e vi confermiamo che non ci sarà patina di moderati o unto di conciliatori che muti il colore al vostro ceffo giacobino, o ammollisca le asperità della vostra lingua personalmente provocatrice. State buoni, noi non reagiremo. Invece, se vi piace smettere un momento, proviamo a discutere. Noi nel 1907 abbiamo combattuta la rappresentanza proporzionale . Cur, quomodo, quando? Se ben intendiamo, voi vorreste gabellare per rappresentanza proporzionale quella distrettuazione artificiosa ed ingiusta, che separando alcune città e borgate dalle altre e dal contado e ammassandole in collegi più piccoli degli altri, fece sì che un abitante intorno a Trento valesse nella sua funzione di votante appena la metà di un elettore entro Trento stesso? Il collegio di Trento città comprende, secondo le statistiche, messe a base della riforma elettorale, 23.500 abitanti, quello di Trento circondario invece colle rispettive borgate 46.400. E voi ardite di chiamare rappresentanza proporzionale un simile dimezzamento degli elettori? Vi lasciamo volentieri il vanto di aver sostenuto per egoismo di partito tale ingiusta geometria elettorale, ma se sapete quel che dite, favorite di non metterla ai servigi dell’equo principio della proporzionalità. Nessun voltafaccia quindi, ché anzi, quando infieriva – (parlando dei socialisti, il verbo è a posto) – il culto per il suffragio matematicamente e semplicemente eguale, abbiamo accennato alla rappresentanza di proporzione in un comizio pubblico, ove il proporre qualunque correzione al concetto assoluto dell’eguaglianza veniva premiato con fischi e grida di abbasso. Voi invece che vi ascrivete il merito di una distrettuazione odiosa alla maggioranza del Trentino, ora «considerando con calma» troverete che sono meno «plausibili le ragioni su cui si fonda la necessità della rappresentanza proporzionale in assemblee amministrative dove si discutono, come da noi, solo argomenti di indole economica che colla politica hanno ben poco a vedere». Viva la calma, signori dell’«Alto Adige»! Che il cielo vi tenga lontano ogni turbamento dal vostro abituale equilibrio dello spirito. Se pur non è la calma dei beati possidentes, godetela tutta per fare le seguenti considerazioni. Considerate che non per intenti politici gli elettori di Trento vi hanno chiesto la proporzionale, ma per far sentire la propria voce amministrativa in un’assemblea che gestisce un bilancio di corone 1.071.671, un patrimonio di quasi 14 milioni, impone tasse per 713.202 e medita di introdurre nuovi e gravissimi aumenti. Considerate ancora, sia pure con calma, che il Municipio di Trento è divenuto un’impresa industriale, un datore di lavoro e venditore di prodotti, negoziante di acqua, di gas, di luce elettrica, e diteci se i cittadini che pagano una buona parte delle imposte dirette e grande parte delle indirette, i cittadini che sono gli inquisitori di fronte al Comune, diteci se questi non hanno il diritto di chiedere si apra la via all’esercizio della loro funzione elettorale. Considerate ancora, e la calma da voi invocata vi porti ad una meditazione più lunga di quello che possiamo far noi nel tracciare celermente queste righe, che il Comune ha anche scopi e funzioni sociali, provvede alla carità, alla beneficenza, alle opere di previdenza sociale, agli ospedali, e, una cosa da non dimenticarsi, ha grande influsso sull’educazione elementare o professionale delle nuove generazioni. E tutto questo la cittadinanza di Trento dovrà affidarlo soltanto ai 600 elettori del partito liberale? Voi però affermate di non comprendere come si tirino in ballo i partiti politici. Che c’entrano i clericali, i liberali nel presente imbroglio, domandate voi? I clericali ah! d’accordo, quelli non c’entrano sicuro proprio per niente. I clericali, e più tardi anche i socialisti, rimasero esclusi dall’amministrazione cittadina. Chi fu dentro o alla testa, chi svolse il suo programma fu il partito democraticoliberale, ed ora l’imbroglio è proprio tutta roba sua. O che vorreste adesso la sparizione delle divisioni politiche che avete fatto sorgere voi? Siete entrati in Municipio lottando contro i moderati ed i conservatori di tutte le gradazioni, avete più tardi esclusi i socialisti perché «politicamente antinazionali», ed oggi di fronte al fiero incarco della vita nuova ambireste scompaia ogni divisione di partito? Avete dato la scalata del Municipio come fazione ed ora nelle strette delle responsabilità create da voi, non vorreste vedervi attorno né clericali, né moderati, né socialisti, ma solo negozianti, operai, impiegati, industriali? O perché allora avete ammonito pochi giorni fa i liberali a tenere le polveri bene asciutte contro i clericali? Badate del resto, l’abbiamo detto ieri , che il partito nel sistema proporzionale non è affatto sinonimo di raggruppamento politico. Le liste possono essere votate da raggruppamenti economici, di classe, di condizione o d’idee politiche. Quindi la vostra obiezione non ha valore nemmeno oggettivamente considerata. Provvediamo pure dunque, come dite voi, «agli interessi della città sottomettendovi ogni interesse di parte». Ma non si riesce appunto a questo, votando una riforma che escluda il monopolio di un partito e conceda a tutti i gruppi d’idee o d’interessi un’ingerenza proporzionata alle loro forze vive che mettono a contributo della vita amministrativa cittadina? Con tali intenti i popolari insisteranno nel loro postulato; l’«Alto Adige» s’illude quando parla di voti platonici, Il Popolo si inganna quando mette in dubbio la serietà delle nostre intenzioni. Ciò facendo non sono affatto in contraddizione col loro programma dietale, dove il capo del club popolare propugnò sempre la riforma più radicale e più equa, né vogliono limitare la marcia della proporzionale alle mura di Trento. Nessun principio del nostro programma si oppone all’introduzione di tale riforma anche nei comuni forensi, i quali del resto, lo noti il signor api , non sono affatto in mano nostra, ma nella loro rappresentanza concedono di buon accordo ai liberali una maggior influenza di quello che la proporzionale costringerebbe i liberali a concedere ai nostri in Trento o nelle altre città, ove lo spirito di partito ha invaso anche la vita amministrativa. Infine Il Popolo ci assicura che gli stessi uomini più avveduti del partito liberale sono favorevoli alla rappresentanza proporzionale. Vogliamo prestar fede al Popolo, anche a costo di escludere dalla cerchia degli avveduti gli intimi dell’«Alto Adige». Non farebbero che il loro dovere; e Trento non avrebbe che da guadagnare, lasciando cadere quei privilegi elettorali i quali impediscono ad un partito, in Trento numeroso e nel Trentino numerosissimo di levare la propria voce in via Belenzani, voce che potrebbe essere spesso l’eco delle vallate ed il tributo di adesione e di attaccamento del paese alla capitale del Trentino.
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«Questa rappresentanza delle minoranze è senza dubbio alcuno giusta e corrispondente ad equità, ma se tale appare per le elezioni comunali, ben più equa ed opportuna si manifesta nelle elezioni politiche, perché appunto nei corpi legislativi, ove si discutono questioni di vitale importanza per tutti, ove si votano le imposte dirette ed indirette che formano la base delle addizionali comunali, dovrebbero poter esprimere la loro opinione tutti i partiti politici. Ecco perché appare evidente che la rappresentanza delle minoranze dovrebbe anzitutto essere introdotta nei corpi legislativi e solo conseguentemente estesa ai consigli comunali». Così Il Messaggero, il quale evidentemente in tal modo ci vorrebbe rinviare alle calende greche. Se la rappresentanza proporzionale del comune può venir introdotta solo dopo una nuova riforma elettorale parlamentare stiamo freschi! Possiamo aspettare mezzo secolo almeno, prima che il Parlamento austriaco si metta d’accordo per un’innovazione simile. E perché, dite un po’, è proprio necessario che s’incominci colle elezioni parlamentari? Noi vi potremmo opporre a centinaia le obiezioni della teoria e della pratica contro la proporzionale politica, ma non sarebbero che obiezioni platoniche, nelle quali noi potremmo dichiararci per la proporzionale anche nelle rappresentanze politiche, malgrado l’esempio della Svizzera, dove succede proprio il contrario. Ma lasciamo stare i principi e parliamo franco sulle ragioni di opportunità locale. I liberali e i socialisti potrebbero negare che venga resa giustizia a noi nei municipi, quando di fatto nelle elezioni parlamentati essi non fossero rappresentati secondo la loro forza. Ora questo non è il caso. Nel 1907 i popolari ebbero complessivamente 41 mila voti, i liberali circa 6 mila, i socialisti press’a poco lo stesso numero. Il che vuol dire che anche proporzionalmente spetterebbero circa 7 deputati ai popolari, 1 ai liberali ed un altro ai socialisti. La distrettuazione, che noi abbiamo combattuta per le ragioni esposte altra volta ed ieri, funse dunque artificiosamente da quoziente elettorale. I liberali non hanno quindi da lagnarsi ed è ingiusto che essi ci rimandino all’anno duemila. Nutriamo fiducia che i loro uomini più avveduti, come diceva ieri Il Popolo , comprenderanno che né noi né le nostre istituzioni possiamo rimanere a lungo esposti ad un ostracismo, al quale finalmente ci ribelliamo. Col semplice principio di maggioranza e coi 4 corpi si riuscirà in forza dell’anticlericalismo in fiore di escluderci, per quanto noi a Trento siamo un partito politico più numeroso del liberale e per quanto paghiamo più imposte e tasse dei socialisti.
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Entriamo nella stagione propizia alle riunioni e alla vita di società. Giova quindi ricordare a tutti gli amici della democrazia cristiana trentina i doveri sociali dell’ora presente. Non intendiamo accennare oggi all’opera di organizzazione economica o di educazione politica in senso stretto; rivolgiamo invece il pensiero a tutto quell’immane lavoro di propaganda d’idee che resta ancora da fare ai cattolici trentini, se vogliono che le loro opere sociali raggiungano gli ultimi scopi di progresso cristiano e civile. Società operaie, circoli di lettura, associazioni giovanili, riprendete la vostra attività, intensificandola al di dentro fra i soci fedeli, allargandola al di fuori ai molti dubbiosi, alla massa degli apatici e degli indolenti. Sacerdoti, uomini di cuore, operai intelligenti lavorate perché il popolo trentino diventi cristianamente e modernamente colto e la vostra attività sociale soccorra all’opera della chiesa e della scuola. Se c’è qualcuno che di tale attività fa poco conto ricordategli tutto quello che hanno detto e scritto uomini autorevolissimi, i quali sanno che la battaglia di domani fra gli amici e gli avversari del cristianesimo si combatterà nel campo della cultura e colle armi dell’incivilimento. I più forti moralmente ed intellettualmente avranno la vittoria. In particolare non dimentichiamo noi, cattolici trentini, che come abbiamo tenuto lo sguardo verso l’avvenire nel costituir le opere economiche e di previdenza sociale, così dobbiamo tener conto dei bisogni di oggi e delle esigenze dell’indomani nel campo della coltura e delle idee. Insegnare ed approfondire le nozioni prime del nostro programma, in modo che anche il più remoto popolano acquisti la coscienza dell’intiero organismo e ne comprenda il nesso morale, ecco uno degli scopi che deve proporsi il direttore o il conferenziere di una società di coltura. Più spesso ancora dovrà occuparsi di apologetica popolare. E qui bastano gli esempi del giorno. I congressi cattolici e i congressi socialisti che si radunano in tutte le parti del mondo, le settimane sociali, i grandi conflitti tra capitale e lavoro, le leggi di riforma sociale presentate o votate nei parlamenti, particolari attentati della massoneria o dell’anticlericalismo militante, manifestazioni socialiste o documenti del loro pensiero, tutto questo può essere oggetto d’istruzioni e di conferenze popolari senza che richieda altre informazioni che quelle che danno quotidianamente o settimanalmente i nostri giornali. Viene poi l’ambito delle iniziative locali. In particolare non dimentichino gli amici dell’Anaunia, di Fiemme, Fassa, Valsugana, ecc. di ricordare durante l’inverno agli emigranti l’esistenza delle organizzazioni professionali cristiane a Bolzano, Merano, nel Vorarlberg, ad Innsbruck e a proposito di quest’ultima città si faccia menzione dell’Opera lodevolissima del segretario della Bonomelli sito alla Gasthof zur Eisenbahn, dove oltre vitto e alloggio a prezzi modici gli operai trovano consigli, informazioni, aiuti. È una vergogna che proprio i trentini preferiscano il segretariato socialista alleato di un albergatore mangiaitaliani, che una volta i socialisti chiamavano sfruttatore. Gli argomenti non mancano dunque, tanto più se si aggiunge l’opportunità di spiegare popolarmente i fatti ed i dibattiti della vita pubblica locale. Anzi a taluni sembrerà superfluo questo nostro appello e inutilmente pretenziosi i nostri consigli. Ma chi sta al centro può girare lo sguardo su tutta la periferia ed è in grado di vedere e deplorare inerzie colpevoli o pericolose. Gli attivi non si sentiranno offesi per gli eccitamenti rivolti agli indolenti. Piuttosto vedano di aiutare l’opera nostra. Il modo è semplicissimo e tuttavia molto efficace: siano meno modesti! Il consiglio, per quanto paradossale, è a posto. L’anno scorso di tutta l’attività delle associazioni cattoliche di coltura nei giornali si disse e si stampò pochissimo. E questo è un male grave. In tal modo si è privato il nostro movimento di quell’entusiasmo che reca il sapersi tutti bene in assetto ed in marcia verso lo stesso nobilissimo fine. È venuto meno anche il senso di emulazione ed è accaduto che i giovani affacciantisi alla soglia delle nostre società stessero dubbiosi, esitando a dare il proprio nome ad un organismo che pareva (e non era) così scarso di forze vitali. Per esempio, egregi amici; noi abbiamo trattato in lungo ed in largo il caso Ferrer , vi abbiamo procurato anche una pubblicazione speciale per le esigenze della propaganda orale, e quanti ne hanno approfittato, quanti hanno tenuto la conferenza che poteva essere utilissima? Molti, possiamo rispondere noi per informazioni private, ma: nessuna dovrebbe rispondere chi ne aspetta un cenno sul giornale. È questa una trascuratezza che ci priva di tanti vantaggi. Concludiamo quindi coll’invitare i nostri amici a pubblicare nel Trentino un cenno, per quanto brevissimo, di ogni conferenza, di ogni riunione, di ogni manifestazione pubblica delle società nostre. Adesso sì, ci dice qualcuno, vi soffocheranno il giornale con relazioni di società cattoliche. Ebbene, che volete? noi corriamo il rischio volentieri e se proprio ci... soffocheranno, non fa nulla ... respireremo meglio!
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Un crepuscolo umido e nebbiato in una selva, spessa di viluppi che imbarazzano il cammino, irta di piante acute e pungenti, ecco la fine della vostra grande giornata, o radicali, voi che brandendo la scure delle innovazioni avevate promesso di sgombrare il terreno da tutti gli sterpi antichi della selva trentina e di far largo al progresso, aprendo sopra un’ampia distesa di cielo, su cui, dopo le altre stelle della democrazia, doveva fare la sua rossa comparsa il gran sole dell’avvenire socialista. E in questo tramonto uggioso e sconfortante, poiché nuovi e più intricati virgulti sono venuti a sovrapporsi ai vecchi e la foresta infittisce di problemi acuti ed urgenti ed il sentiero è coperto di spine, voi vi guardate d’attorno e cercate conforto ed alleanze in coloro contro cui un giorno non lontano avete levata la scure. Oggi non vorreste più essere vissuti ed in fretta e furia gittate sul rogo della penitenza le specialità e le insegne della ditta. E sta bene, signori radicali; di tali segni di compunzione e di tale resipiscenza ci siamo rallegrati anche noi e vi abbiamo fatto le nostre più sentite congratulazioni. In modo specialissimo ci è piaciuta la dichiarazione dell’«Alto Adige» che non vuol fare dell’anticlericalismo e che nelle elezioni comunali doveva entrarci poco lo spirito di partito, quanto piuttosto il buon criterio economico di scegliere ottimi amministratori di cui – avete soggiunto – la città ha tanto bisogno. Un momento abbiamo creduto di respirare più leggero: le strette economiche avevano proprio prodotta una guarigione miracolosa? L’anticlericalite acuta era superata? Fino ieri gli elettori comunali privilegiati che non potevano dare il voto per la fiducia negli amministratori, venivano indotti a darlo, da chi segnava nel cielo il «pericolo clericale» che si vedeva oramai salire su Trento come nuvola minacciosa. Oggi lo spauracchio era scomparso? Abbiamo avuto motivo di ricrederci subito. In questi giorni si è risvegliato nei cittadini di Trento un maggiore interesse per le sorti del comune. Il rendiconto anche parziale degli enormi sorpassi, dei nuovi milioni di debiti, la minaccia terribile di nuove, gravissime gabelle non poteva lasciare indifferente chi paga. Fra questi elettori furono anche i popolari, i quali con altro nome si chiamano – horribile dictu – clericali. Si raccolsero questi in adunanza e ragionarono così: Noi siamo in Trento dei cittadini che pagano imposta e votiamo al parlamento almeno 960, cioè una trentina di più che i liberali di tutte le tinte, eppure non abbiamo nessun rappresentante in Comune. Noi paghiamo le gravi addizionali e le tasse come tutti gli altri e tuttavia non abbiamo nessun uomo di fiducia in Municipio. Noi abbiamo fondato in Trento tante istituzioni centrali che pagano al Municipio tasse enormi, e tuttavia nessuno di noi può levare la voce nella rappresentanza comunale. Dovremo noi essere sempre gli amministratori, i taglieggiati, i condannati ad una parte assolutamente passiva? Perché? Ed hanno trovato senza troppo cercare che le cause erano due. Per il vigente sistema elettorale l’amministrazione di Trento è affidata non a chi di diritto ma ad alcune centinaia di ottimati, ridotti ad una vera oligarchia, in causa del disinteresse manifestatosi per i metodi di un partito nelle ultime elezioni. Hanno inoltre dovuto constatare che anche nelle elezioni amministrative si va formando sempre una coalizione politica in nome dell’anticlericalismo ogni qualvolta i diseredati tentano di avere anche un’esigua rappresentanza. Mentre nel 1904 i radicali facevano largo ad una deputazione socialista, la quale, come s’è potuto vedere, aveva dietro di sé un numero molto minore di elettori comunali, ai popolari invece si opponeva lo sforzo concentrato di tutti gli anticlericali. Fuori i clericali, attenti ai gesuiti, si gridò anche nel 1905, quando i cattolici presentarono non più di tre candidature! Tale anticlericalismo, tale ostracismo fazioso ed ingiusto doveva provocare una reazione. E gli elettori, in nome della giustizia distributiva chiesero che venisse non solo allargato il voto, come proponeva una vecchia riforma dell’éra Tambosi, pervenuta ora dopo 9 anni alla Dieta, ma che venisse introdotta anche la proporzionale, sistema che fa grandi progressi in tutta l’Europa, che venne introdotto recentemente nei Municipi della Baviera, del Vorarlberg e di parecchie altre città dell’Impero. Questo voto venne comunicato anche ai deputati dietali, i quali risposero aderendo, poiché essi sono ben convinti dell’urgenza di una riforma, ma intendono che venga fatta per l’equità e non in modo da perpetuare un’ingiustizia contro i popolari. Ebbene, che cosa opposero i nostri avversari? Dopo molte tergiversazioni e dichiarazioni assenzienti per principio, fecero capire che di fatto manterrebbero l’ostracismo e perpetuerebbero il torto. Questa è prepotenza, urla l’«Alto Adige» di sabato ; i cittadini di Trento non soffriranno imposizioni. Sempre la storia di Renzo e del curato. È dunque prepotenza chiedere che ad ognuno venga dato il suo, è prepotenza il volere che se i liberali avranno 1000 voti, conquistino 10 mandati, se i socialisti ne hanno 500, abbiano 5 consiglieri, se i popolari ne varranno 300 voti, acquistino 3 rappresentanti? È prepotenza la nostra se stanchi di un feroce e ingiustificato ostracismo proclamato da voi per motivi estranei all’amministrazione comunale, chiediamo quel tanto di ingerenza municipale che ci spetta di diritto per il numero che siamo e per le gabelle che ci addossate? No, no, ottimati dell’urbe, voi siete i prepotenti, i privilegiati, gli oligarchi, i monopolizzatori. Ottimati e anticlericali E oggi malgrado le vostre asserzioni in contrario, nonostante abbiate dichiarato parecchie volte il vostro ossequio al principio delle minoranze rappresentate e lo abbiate di fatto riconosciuto verso i socialisti; oggi che si tratta dei popolari, per odio fazioso, vi richiamate al principio di maggioranza. Badate, voi maneggiate un’arma a due tagli. Per Trento dovreste ringraziare il governo, il quale fino che impedisce l’introduzione del suffragio eguale impedisce che il principio di maggioranza vi schiacci anche nelle elezioni comunali, ma fuori in altri corpi legislativi la proclamazione di un tale principio vi potrebbe riuscire fatale. Che avverrebbe dei vostri rappresentanti nelle commissioni dietali e nella Giunta provinciale se i popolari applicassero con ferreo rigore il principio che voi a Trento mantenete contro di loro? L’«Alto Adige» ciancia che noi chiediamo una riforma architettata a nostro uso e consumo. No, gli architetti foste voi ed i socialisti. Voi tentaste di costruire i primi tre corpi in modo da assicurarvene la maggioranza, i socialisti poi s’accontentarono del quarto, ove sperano di vincere col numero. L’architettura è semplice, il censo determinato in modo che giovi al partito liberale, il numero in modo che giovi ai socialisti. Codesta è architettura vostra. Noi vi chiediamo una cosa esigua e presto fatta: Nella suddivisione dei mandati introducete la proporzionale. Nessun meccanismo, nessuna eccezione in nostro favore. Strana cosa poi è il veder ripetere l’altra obiezione: perché non chiedete la proporzionale per i comuni, per la Dieta? – O carina questa! Ma perché gli elettori popolari di Trento nella loro adunanza si sono occupati delle elezioni comunali e di niente altro. Della riforma dietale tratta oramai la Dieta, della riforma elettorale dei comuni rurali fu già proposto che vi mettesse mano la rispettiva commissione dietale. Vorranno gli elettori che venga introdotta anche qui la proporzionale, e il nostro partito non si opporrà di certo, anche se di fatto le ragioni dell’ostracismo politico e fazioso che esistono a Trento, nella maggioranza dei comuni più piccoli non esistono punto. Credete di averne vantaggio voi? Errate il conto. Ma la obiezione apparentemente più forte è quella della fretta. La fretta I liberali che per nove anni hanno abbandonato al suo destino il progetto, che non se ne sono presa cura che tratto tratto, quando si faceva sentire la pressione di un comizio socialista, e per il resto l’hanno lasciata nel dimenticatoio, ora tutto di colpo hanno in corpo, a credere all’«Alto Adige», una santissima fretta e protestano contro quei malvagi di clericali che vorrebbero ritardarla. O beati possidentes, chi vi potrà prestar fede? O non è invece una mossa intenzionalissima per eccitare alla protesta i socialisti? E costoro, i compagnoni, fingono di credervi e mentre di solito protestano contro le mezze misure, contro il procedere per gradi, ora si accontentano del «poco che si può», divengono moderati e urlano contro i popolari che sono troppo radicali. O fanatismo anticlericale quale taumaturgo sei tu mai, che spingi perfino i rossi rivoluzionari alla reazione? L’«Alto Adige» piange sui clericali che respingono la riforma in alto mare. Cessate dal piangere, coccodrillucci dilettissimi. Noi v’insegneremo il mezzo di consolarvi. I vostri, avete detto, sono in principio favorevoli alla riforma proporzionale. Ebbene, fate che assumano nel loro programma per le elezioni comunali prossime tale postulato. Appena in comune votino un conchiuso per la riforma proporzionale e la presentino alla Dieta. Vedrete che non si perde affatto tempo e i nostri deputati dal canto loro vi aiuteranno colla massima sollecitudine. Vi pare? E ancora: a chi volete dar da bere che le condizioni le quali stiracchiarono l’approvazione della riforma per lo passato sussistono tutt’ora? Dopo la introduzione di riforme ben più larghe in Austria, avvenute nel frattempo, non c’è da temere davvero di troppi studi ministeriali o d’impedimenti di sanzione. E poiché l’ostruzionismo dietale non è più perlomeno di prammatica ed alla Dieta sono deputati che hanno tutto l’interesse di far presto, a chi venite a raccontare di dilazioni enormi, di ritardi colossali, di alto mare? In alto mare è ora solo la democrazia liberale, dopo che il radicalismo come fattore amministrativo è giunto al suo diacciato crepuscolo. Preferiranno gli uomini responsabili seguire i consigli dell’«Alto Adige» o incamminarsi per quella via su cui sta la giustizia, il progresso della città, la cooperazione di Trento e delle vallate? Sono in alto mare e possono scegliere, a piacimento, la rotta. Quanto a noi sappiamo benissimo dove vogliamo arrivare e, anche se si alzeranno contro di noi ostacoli di prepotenza e d’ingiustizia, parola di cristiani, ci arriveremo!
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«Il partito liberale, se non vuole suicidarsi, dovrà invece dedurre le conseguenze inevitabili, che cioè in nessun caso esso deve accordare il voto proporzionale nei comuni se esso non venga introdotto anche per il Parlamento e per la Dieta, Non c’è proprio alcuna ragione perché si devano abbandonare le posizioni che si occupano nei comuni alla mercé di un avversario spregiudicato... Non consegnamogli ingenuamente anche le chiavi dei nostri maggiori comuni» («Alto Adige», 22-23 nov.) . Queste parole stanno scritte a conclusione di un articolo delle cui sofisticate argomentazioni ci occupiamo a parte. Ma qui giova constatare come i democratici liberali o almeno quella frazione di essi che mette capo all’«Alto Adige», si rivelino crudamente per quello che sono: anticlericali soprattutto, a qualunque prezzo, anche a costo di essere reazionari e puntellatori del privilegio contro ogni senso di equità, contro ogni esigenza della giustizia distributiva. «È vero – devono ammettere – gli elettori popolari di Trento sono più di noi, che importa? Tiriamo il catenaccio! Nessuno di loro deve contaminare il sacro suolo degno soltanto di essere calcato dagli ottimati di Trento. È vero, i popolari pagano di gran lunga più imposte dei socialisti, ma che importa? Tiriamo il catenaccio! I clericali a Trento sono buoni per tosarli; i danari che versano alle Casse ce li amministriamo noi, bene o male; o che ci hanno a dir loro? Leggano le relazioni del direttore municipale, e basta!». «Ma la rappresentanza delle minoranze, le nostre dichiarazioni in favore della proporzionale? Abbiamo pur scritto in occasione delle ultime elezioni municipali che non siamo favorevoli alla rappresentanza delle minoranze?». «Ebbene che vuol dire questo? Quando scrivevamo in tali termini si pensava ai socialisti, non ai clericali. Costoro son fuori di ogni diritto». «E la riforma proporzionale?». «La proporzionale ve la daremo quando voi clericali la introdurrete alla Dieta e al Parlamento». Il che vuol dire che: noi, arbitri della rappresentanza cittadina, voteremo la proporzionale del Municipio di Trento quando voi deputati popolari, voi, sette, avrete persuaso tutti i popoli dell’Austria di fare altrettanto in tutti gli altri corpi legislativi! La formula oltre che grottesca è forse anche illogica. Anche in Italia abbiamo la rappresentanza delle minoranze nei comuni e non nel Parlamento, anche nella Svizzera, nella Baviera, nel Vorarlberg la proporzionale vige per le elezioni amministrative e non per il suffragio politico. Ma che vale? Al diavolo la logica e l’equità, quando la loro applicazione debba riuscire in favore dei radicali. Così è dimostrato fino all’evidenza che a Trento, malgrado le strette dei debiti, ed i compiti industriali ed economici di quella che è la capitale del Trentino, nonostante le condizioni amministrative desolatissime che consiglierebbero senza dubbio una coalizione rappresentante tutti gli interessi, tutte le classi, a Trento si teme innanzi tutto il pericolo «clericale» e si riterrebbe massima sventura che nel suo consiglio amministrativo sedessero anche consenzienti della stragrande maggioranza del paese. Il clericalismo, ecco il nemico! Anche quando si tratti di imposte e di sgravi, di crediti e di debiti, della luce elettrica e dell’acquedotto. Ci fu un tempo in cui tale parola poté avere un effetto magico e forse ancora oggi adombra la parte meno evoluta e meno equa della popolazione. Ma questa parte non è più la maggioranza nemmeno di Trento. Invano i radicali mettono il catenaccio alla loro Signoria, invano si disserrano attorno ai loro cadenti privilegi; la riforma proporzionale è troppo giusta, per non aprirsi la via attraverso codeste barriere innalzate dal settarismo di una fazione. E i liberali stessi in buona parte hanno ormai compreso che non può essere interesse della città il proclamare il bando ed il confino a quasi un terzo degli elettori. La riforma proporzionale è il sistema equo per tutti e toglie il monopolio di una cerchia angusta di interessi, impedisce la formazione di camorre o consorterie. I liberali faranno bene a non seguire i consigli degli anticlericali a qualunque costo, per non dar ansa al sospetto che l’anticlericalismo sia il pretesto per tener lontane dalle amministrazioni quella discussione e quel controllo, che un giorno formarono un caposaldo nel programma della democrazia liberale. Quanto alle chiavi della Signoria, egregio S., se le tenga pure ben custodite. Ma badi che mentr’ella, con tutte le virtù del portinaio, monta la guardia alla porta, gli odiati popolari non entrino per la finestra!
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In Italia, come abbiamo già detto, i partiti radicali, seguendo l’esempio della Francia, fanno propaganda per l’introduzione della rappresentanza proporzionale nelle elezioni parlamentari. Ciò è ovvio perché nel Regno proprio di questi giorni appare l’urgenza di allargare il voto a tutti, stabilendo il vero suffragio universale dal quale finora sono esclusi gli analfabeti. E la presentazione di un progetto per parziali riforme fatta da Giolitti fu l’incentivo per la discussione. D’altro canto esistendo già nei municipi italiani la rappresentanza delle minoranze, un correttivo per il principio assoluto di maggioranza appare necessario piuttosto per il parlamento che per i comuni. Orbene, vi sono parecchi che sono disposti ad accogliere in via di principio la proporzionale, ma si dichiarano poi contrari all’attuazione pratica col pretesto che si tratta di un sistema complicato e difficile. A tale obiezione si è fatto cenno anche nel Popolo. Gioverà quindi riferire la proposta che dà agli oppositori un deputato radicale, l’on. Fera , nella relazione tenuta al congresso radicale. Orbene, appunto perciò chi voglia fare non dell’accademia, ma dell’azione politica per vincere questa sovrana obiezione degli uomini deve abbandonare le proposte che sono rimaste nel limbo della speculazione teorica e avere di mira anche se perfettibili, anche se in qualche parte criticabili, quelle che hanno già avuto la sanzione della larga, duratura esperienza come il sistema svizzero e il sistema Belga. Ma del Belga soprattutto, sia perché frutto di più lunga e dotta elaborazione scientifica, sia perché applicato in modo più generale a tutte le elezioni di un intero paese. Ricordiamo sinteticamente quali sono i cardini del sistema Belga: 1. Collegi plurinominali di varia estensione; 2. Presentazione obbligatoria delle candidature alcuni giorni prima di quello delle elezioni; 3. Effetto duplice assegnato al voto dell’elettore in quanto vale come preferenza ad un singolo candidato e come adesione alla lista politica rappresentata da una lista; 4. Ripartizione dei seggi tra le liste in proporzione, quanto più possibile esatta, dei voti riportati da ciascuna lista; 5. Assegnazione dei seggi ai candidati di ogni singola lista nel limite dei posti a quella lista spettante, secondo l’ordine di preferenza risultante per ciascuno dei candidati dalla volontà dei presentatori della lista e dalla fiducia liberamente espressa dagli elettori; 6. Abolizione delle elezioni di ballottaggio e delle elezioni suppletive. Questo sistema ha a suo favore oltre ad una perfezione teorica e ad una semplicità tecnica veramente ammirevoli, la esperienza delle elezioni politiche belghe del 1900, 1902, 1904, 1906 e 1908 ed ha funzionato in modo così insperatamente perfetto da soddisfare al tempo stesso i tre grandi partiti irreconciliabilmente avversi, cattolico, liberale e socialista. Nessuno combatte più ormai il sistema nelle sue linee generali. Questa soddisfazione di tutti i partiti del Belgio risulta da dichiarazioni fatte da autorevoli parlamentari cattolici, liberali e socialisti in occasione di una inchiesta promossa nel 1908 dal giornale «La Croix» ed in parte riprodotta dal Dubois nel suo lucido libretto «La Réprésentation proportionelle soumise à l’experience belge, Bruxelles, 1906»; risulta altresì da recentissimi lavori scientifici come l’opera in due volumi Orban, «Le Droit Constitutionel dans la Belgique», Bruxelles, 1909, nella quale l’autore, dopo avere analizzato con finissima critica il sistema e proposto alcune modificazioni, conclude facendo sua l’affermazione del senatore Geblet d’Aivella che la vittoria della riforma proporzionale in Belgio è definitiva perché vi sono riforme dalle quali un popolo non torna indietro fino a che prosegue il corso normale e pacifico della sua evoluzione. Giudizio autorevolmente confermato da un osservatore obiettivo, da sir Arthur H. Hardings, ministro inglese a Bruxelles il quale in un rapporto ufficiale inviato il 28 giugno 1906 al Ministro degli Esteri inglese e da questo presentato alla camera dei Comuni assieme ai rapporti degli altri diplomatici inglesi («Reports from His Maiesty’s Representatives in Foreign Countries and in British Colonies respecting the application of the principle of Proportional Representation to public Elections»), così si esprime: «Io inclino a pensare che nelle presenti condizioni del Belgio i vantaggi di questa legge per la rappresentanza proporzionale superano ogni svantaggio. Il mio predecessore Sir Francis Plunkeff nel riferire su ciò a Lord Salisbury giustamente osservava che tale sistema era stato accettato con qualche riluttanza dal gran pubblico ed accolto come un poco soddisfacente compromesso. L’opinione che or ora mi sono fatto lecito di esperimere credo che sia quella della maggioranza dei Belgi di tutte le gradazioni politiche dopo l’esperienza fatta per qualche anno di questo sistema».
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È un altro di quelli scritti, che da alcuni anni a questa parte si vanno nel Regno pubblicando per illustrare e far conoscere il nostro Trentino e dei medesimi possiede i pregi e i difetti. In una brevissima prefazione così l’autore delinea l’intenzione dell’opera sua: «Quattro parole sul Trentino. Per molti potranno essere una rivelazione, per altri un monito, per me un dovere. La carità di patria ha i suoi fremiti di gioia e di sdegno; e un’onda di gemiti frementi suole muoversi dalle valli Trentine alla nostra Patria. Chi la intende? Dichiaro che le mie impressioni, e i miei apprezzamenti sono affatto oggettivi, non prostituiti a maschere diplomatiche, né alle virtù della viltà». Con questo indirizzo d’idee, con questo stile, in un lungo capitolo d’introduzione si prova di fare un quadro delle condizioni politiche e sociali del Trentino ed in genere degli Italiani d’Austria; per dire il vero però, con molta retorica, con tinte spesso cariche, talvolta ferraginosamente senza ordine e chiarezza e con qualche inesattezza geografica e storica. Il nocciolo dell’opera è costituito dal capitolo: «Tipi e costumi della valle del Noce». L’autore tenta di tratteggiare il carattere degli abitanti per la loro religiosità e per le loro donne laboriose, parla dell’emigrazione, descrive con molta liricità l’inverno sulle Alpi coi suoi ghiacci e colle sue valanghe, gl’incendi dei quali accusa il falso ed antiquato sistema di fabbricazione, ha delle evidenti esagerazioni dove parla di Ala e di Trento e non poche inesattezze dove ne descrive i dintorni. La Paganella alta 3000 metri (?), il torrente Lavisio (?), le pieghe dell’Esarch (Eisach?), il lago di Caldenazzo (?), Ischio (?), il ponte di Santa Giustina alto 180 metri (?). Evidentemente sono impressioni spesso, superficiali, sparse di retorica e di esagerazioni e sopratutto di ingenuità. Il volume si chiude con un’appendice: «Musa Trentina» contenenente poesie di sapore sentimentale o satirico giustiano, povere di valore poetico e qua e là deficienti nello stile. Ciò che però ci fa perdonare molti difetti e ci fa leggere con simpatia il libro dell’Oleias (forse un pseudonimo?) è il vivo interessamento, l’ardente entusiasmo, il grande amore che egli mostra di nutrire nel suo nobile cuore per questo bel lembo di terra italiana, troppo poco e molto male conosciuto nel Regno. A.D.
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Ieri si ebbero dunque le elezioni del III corpo del Municipio tridentino . Il capolista, dr. Silli, raccolse 415 voti, i moderati Girardini 382, Mazzurana 382 e il conte Manci 380. La partecipazione fu dunque scarsissima, quando si consideri che circa 180 voti vennero dati per procura. Trento s’è ieri appena accorta che venivano eletti i suoi amministratori, anzi per poco non dimostrò di disinteressarsene. Gli aventi diritto a voto erano 2224, ma il voto venne esercitato, comprese le procure raccolte in quel modo che tutti sanno, appena da un quinto, anzi nemmeno dalla quinta parte. Questa proporzione è ancora peggiore di quella raggiunta nel 1907, quando gli elettori inscritti nel III corpo erano 1900 ed i votanti furono 587, cioè il trenta per cento. È chiaro evidentemente che la grande maggioranza dei cittadini boicotta le elezioni comunali, e la nostra affermazione che viviamo in pieno sistema di oligarchia è rinforzata dalla votazione di ieri. Le cause non vanno certo ricercate nel disinteresse dei cittadini per l’amministrazione della città, ché tutti comprendono la gravità dei compiti che incombono alla deputazione in un periodo industriale e di municipalizzazione. Il disinteresse è per l’atto elettorale stesso. Le divisioni degli interessi o dei partiti in Trento, sono tali che non possono rivelarsi nelle strettoie del presente sistema elettorale. E qui vi è un errore non solo di grandezza, ma anche di costruzione. Una riforma che vuole veramente riformare qualche cosa non basta che allarghi il voto ad un maggior numero di cittadini, ma bisogna che conceda anche ai cittadini, i quali già possiedono il voto nei tre corpi, il mezzo di avere ingerenza nell’amministrazione comunale senza temere sopraffazioni. Date ai 2200 elettori del terzo corpo un sistema elettorale che permetta loro di affermarsi, anche se non possiedono la certezza o la probabilità della maggioranza assoluta, ed essi accorreranno alle urne. Che importa se un dato gruppo d’interessi o un partito sa di non raggiungere che 180 voti? Introducete la proporzionale, suddividete i mandati fra le varie liste secondo le rispettive forze e (per scegliere quest’esempio) al gruppo che ha raccolto 180 voti toccherà un consigliere, a quello che ne ha 360 o giù di lì toccheranno 2 consiglieri e al partito che si è affermato con circa 520 voti spetteranno gli altri tre consiglieri. Non serve la rappresentanza proporzionale a promuovere il concorso alle urne e a costituire veracemente ed equamente quella rappresentanza di interessi che si propone, ma non raggiunge, l’attuale suddivisione in corpi elettorali? Gli elettori dell’Unione popolare hanno quindi colpito giusto quando hanno chiesto che, accanto all’argomento del suffragio, venga introdotta anche la proporzionale nei corpi già esistenti, affinché essi diventino la vera rappresentanza degli interessi che vi sono circoscritti e non una comoda architettura per l’oligarchia di un partito.
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L’«Alto Adige» asserisce che la riforma comunale di Trento non venne sanzionata nell’ultima sessione dietale non perché in quella seduta si sia iniziata l’ostruzione, ma in realtà per il «veto dei clericali». Quest’asserzione è perlomeno una cretineria. Tutti sanno che gli oggetti all’ordine del giorno, fra cui la riforma, vennero cacciati indietro dalla proposta d’urgenza Grabmayr e consorti sulla quale si svolse l’ostruzione italiana. Se si fosse raggiunto l’accordo per la questione scolastica, l’ordine del giorno sarebbe stato discusso, compresa la riforma. In tale dibattito i popolari avrebbero senza dubbio presentate delle proposte di miglioramento a quel gioiello di riforma elettorale; proposte che, per evitare forse un aperto conflitto in Dieta fra italiani, sarebbe certo stato loro desiderio venissero presentate già nella commissione, se questa non avesse sbrigato l’affare in quattro e quattr’otto, mentre tutta l’attenzione dei deputati era rivolta alla questione scolastica. Così stanno le cose e non altri. Ed ora non sono mutate di un pelo. Il partito popolare non approverà mai una riforma elettorale la quale è architettata in modo da escludere dalla rappresentanza del Comune quasi un terzo di cittadini. In ciò sono d’accordo gli elettori, i deputati e i consiglieri. Noi vogliamo una riforma che riformi davvero e conceda a tutti i gruppi d’interessi, a tutte le classi, un proporzionato influsso negli affari amministrativi della città. Perciò gli elettori di Trento, nostri consenzienti, hanno chiesto che «accanto al massimo ampliamento possibile dell’elettorato comunale si aggiunga l’introduzione della rappresentanza proporzionale». Questo postulato è divenuto un caposaldo nel nostro programma e tutti i rappresentanti del nostro partito in qualunque consesso risiedano sono chiamati ad attuarlo colla massima sollecitudine. Al Rubicone vi trovate quindi voi, signori radicali, e vi tocca passarlo presto. Dovrete decidervi se voi accettate la rappresentanza proporzionale la quale non toglie nulla al vostro partito, ma rende giustizia anche agli altri, ovvero se voi per fini di settarismo anticlericale sbarrerete la via alla riforma. Questo è il dilemma, né vale a distruggerlo un finto zelo per quei miserabili sei mandati che una riforma con tanto di barba concedeva dieci anni fa ad una curia generale. Il progetto che sta sui banchi della Dieta precede tutte le riforme che si introdussero poi in Austria ed è invecchiato ancora prima di nascere. Voi vorreste che approviamo quel progetto, lasciando il mandato ai socialisti ed a voi di migliorarlo poi. No, carini, né voi né i socialisti avete il minimo diritto di pretendere dai cittadini popolari un mandato di fiducia. Entrambi siete ispirati al più feroce anticlericalismo e ovunque fu possibile, avete dimostrato di non riconoscere né legge né criteri di equità quando si tratta di combattere le persone provate o sospette di aderire ai nostri principii. Voi poi in modo particolare, beati possidentes, in questi dieci anni non avete addimostrato un tale entusiasmo per le riforme elettorali, che vi si possa credere sulla parola, quando promettete per l’avvenire «una riforma più radicale». Così in parte abbiamo ripetuto anche al Popolo la risposta che già abbiamo dato e che non vuole avere ricevuto. Ci chiede: introdurrete la proporzionale nei quattro corpi o proporrete la riduzione dei corpi a due? Ripetiamo: il partito nostro chiede un allargamento del suffragio più ampio che sia possibile. Per conto nostro quindi nulla osta che si riduca o si modifichi l’attuale sistema della rappresentanza degli interessi, ma si è accolta la formula data «più ampio che sia possibile», perché è noto che le riforme elettorali non possono riuscire che quale risultato di compromesso dei partiti e previa l’approvazione dei criteri di massima da parte del Governo. Tale compromesso e tale presanzione stabiliscono i gradi della possibilità. Quello che è certissimo si è che il Governo ha già concessa l’introduzione del suffragio universale, colla proporzionale dei quattro corpi. Se vi siano esempi per i due corpi con la proporzionale non lo sappiamo, ma gioverà che voi li riferiate. Comunque, e ciò è naturale, la riforma non deve mai riuscire una riforma all’indietro nel senso cioè che introducendo la proporzionale si venga a torre al partito socialista quella rappresentanza che gli concederebbe l’attuale progetto. Tanto senso di equità e di realismo politico ben possediamo per non promuovere riforme che dovessero sembrare ad un partito il decurtamento del possesso che credeva già assicurato. Come vede il popolo, se noi chiediamo equità per noi, non intendiamo negarla ad altri. Ma noi temiamo che non siano le ragioni di equità che stanno a cuore a voi, o socialisti borghesi, ma piuttosto v’importa la conquista di quei 6 miserabili seggi del quarto corpo, per dividere poi il potere coi vostri antichi amici sulla base della lotta anticlericale. A questo giuoco non ci prestiamo, ma combatteremo con voi o contro di voi per quella rappresentanza proporzionale la cui marcia vittoriosa è ormai sicura, e che ha già conquistata la coscienza di tutti i cittadini equanimi e non forcaiuoli.
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Facendo appello alle forze nuove, non dimentichiamo le amicizie sicure e la fedeltà antica. A fine d’anno sentiamo anzi più che mai il dovere di ringraziare quella numerosa schiera di collaboratori volontari, i quali prestano l’opera loro per la soddisfazione del bene compiuto e per il progresso della nostra idea. Le persone che nel nostro movimento esercitano una funzione politica ed amministrativa hanno compreso che il loro dovere non si limita al disbrigo quotidiano degli affari di collegio, ma si estende all’educazione politica ed alla direzione dell’opinione pubblica del nostro paese. Questa è attività doverosa che gli elettori stessi reclamano e riconoscono meritoria. I nostri deputati hanno imitato così i loro colleghi del Centro germanico e del Belgio, paesi in cui la stampa nostra deve la sua forza in buona parte alla collaborazione degli uomini parlamentari. Esprimendo quindi la nostra riconoscenza siamo certi oramai di poter contare non solo sullo spirito di sacrificio e l’intelletto personale di alcuno, ma sulla coscienza riaffermantesi in tutti, dei compiti nuovi che l’ora presente impone a quanti trattano la cosa pubblica. Nell’anno nuovo quindi Il Trentino si distinguerà da tutti per quella chiara e vigorosa collaborazione parlamentare, che altri giornali fuori del paese c’invidiano e ritagliano. Alla relazione politica, alla cronaca telegrafica larghissima, si aggiungeranno le trattazioni speciali di leggi, di proposte, di iniziative, mediate ed esposte con riguardo speciale agli interessi ed ai postulati del Trentino. Anche la collaborazione tecnica non verrà meno. Vi abbiamo guadagnato anzi nuovi scrittori. Il Trentino è l’araldo di un movimento che si compie per le conquiste della tecnica. Nella propaganda delle idee non dobbiamo trascurare gli strumenti delle cose. Ed ora corriamo col pensiero di gratitudine a quei molti del nostro paese, noti e sconosciuti, che prestano assiduamente il loro contributo alla nostra stampa, mandando la notizia, la relazione, l’idea che informa, ed illumina un avvenimento o una questione locale. Molti sono questi vecchi amici che hanno recata da anni e disinteressatamente la loro pietruzza, per cui è venuto su l’edificio del nostro giornale. A noi manca il tempo di dir grazie a tutti personalmente. Ma sia benedetta la fatica loro e ricompensato il loro sacrifizio! Abbiano sopratutto la sodisfazione di servire d’esempio ai neghittosi ed ai ciechi. Sorgano a rimproverare coloro i quali per il giornale non hanno che la critica vana e infeconda, o coloro che sfruttano sì la stampa con «comunicati» o «ringraziamenti», ma non le versano mai la stilla viva di una notizia o di un’idea. E ci aiutino nell’allargare e nello stabilire il servizio di corrispondenza in tutti i luoghi del paese. Se Il Trentino fosse un’impresa commerciale, vi provvederebbe da sé, se i suoi scrittori fossero semplicemente impiegati di redazione, quest’appello potrebbe sembrare ridicolo o superfluo. Ma gli amici lo sanno, non si tratta d’una azienda di commercio, ma d’una famiglia, i vari membri della quale cooperano in diversi modi ed in parecchi campi al bene comune ed al medesimo fine. È in nome ed in vista di questi e per la nostra costituzione famigliare che vi chiediamo la vostra partecipazione anche all’opera di organizzazione e di ampliamento. Ricordatelo: nessun luogo deve mancare di una persona che riferisca subito e concisamente intorno ai fatti dei quali il pubblico – il pubblico com’è, non come dovrebbe essere – desidera informazioni.
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L’eccelsa Dieta avrà forse posdomani il suo temporale. Si potrebbe quasi rallegrarsene, se le origini della bufera non fossero così tristi e tanto miserabili! Si tratta di uno dei soliti eccessi di furor teutonicus che hanno oramai assicurata una fama mondiale all’accademia enipontana. Un diverbio alla Breinöszl tra studenti pangermani e cattolici, il quale in altri paesi, più sanguigni ma meno brutali, sarebbe stato dimenticato col sorgere del nuovo sole, provocò nella capitale tirolese un attacco generale dei pangermani contro le sedi riunite degli universitari cattolici, l’Akademikerhaus. Venerdì sera un trecento studenti e ginnasti diedero l’assalto al caffè Central, dove fracassarono vetri e mobili e bastonarono due studenti di una società cattolica. Usciti di qui aprirono una sassaiola contro il vicino l’Akademikerhaus. Gli studenti cattolici per la maggior parte erano andati via. Quei pochi che rimanevano, assieme agli altri ospiti dell’albergo si portarono dinanzi all’entrata per sbarrare il passo agli assalitori. I vetri delle finestre e delle porte andarono in frantumi. Un urlo formidabile accompagnava le gesta degli apachi tirolesi, i quali s’apprestavano a smuovere con una leva di ferro il portone, quando finalmente giunse sul campo la polizia cittadina. Chi non conosce lo zelo di codesta guardia urbana? Ell’è un corpo profondamente conservativo, che mantiene alte ed immutate le sue tradizioni attraverso le critiche e le condanne del pubblico. La guardia del 1910 fece quello che credette di fare la guardia del 1904 . Si riversò sugli assaliti e li rinchiuse in casa, lasciando agli assalitori piena libertà di movimento. Nell’albergo erano fra gli ospiti parecchi sudditi germanici. All’intervento di questi riuscì di ottenere quella protezione che si negava ai cittadini di Innsbruck o dello stato, e finalmente tardi, troppo tardi, spuntarono in fondo alla via i Pickelhauben di una squadra di gendarmi. La loro apparizione segnò la fine dell’attacco. Il lampo delle baionette rischiarò le menti degli assalitori che abbandonarono l’assedio andandosene più in fretta e meno serrati di quello che erano venuti. Alle 3.30 di notte la via era libera, gli ospiti poterono uscire e i famigli raccolsero i cocci, i frantumi, i proiettili e tutti i trofei della battaglia teutonica, mentre i medici della croce verde fasciavano i crani sanguinanti. Qualchecosa dunque come il novembre del 1904 con parecchie attenuanti, le quali non sono merito però degli organi dell’ordine. Questi restano fedeli a se stessi. Innsbruck è una città fiorente di industrie e progressi sociali; l’istituzione però che ne stabilisce la fama e promuove sopratutto il concorso forestieri è la guardia nazionale dell’on. Greil. Perché vi affannate a cercare le così dette attrattive tanto lontano? Oggi grandi manifesti murali annunziano che all’Hotel Greif è arrivato il velivolo su cui Bleriot fece la traversata della Manica . Per la primavera è aspettato anche l’aviatore. Quanta cecità, quanto avvilimento in codesta copiatura dei francesi! Perché cercare il buono all’estero, quando avete il meglio in casa vostra? Scusate, Bleriot ha fatto il giro del mondo ed i suoi aeroplani si vendono dovunque per diecimila lire. Una scena invece a l’Akademikerhaus è un’incontrastata specialità enipontana, la quale, dopo l’estinzione dei Pellirosse, non si ripete in nessun altra foresta dell’orbe terracqueo. Quale attrattiva più forte per la presente generazione germanica di quella di rivedere coi propri occhi i pennuti antagonisti di Old Schatterhand risorti in carne ed ossa a testimoniare la verosimiglianza dei romanzi di Carlo May ? Di questo parere devono essere stati anche gli on. Walter e Christomannos, noti promotori del concorso forestieri, quando decisero di accompagnarsi cogli assalitori dell’Akademikerhaus. È assai dubbio però se tale loro opinione sarà condivisa dagli altri colleghi dietali. L’Anzeiger e le Stimmen intonano il quousque tandem? La risposta veramente per noi che, almeno questa volta, stiamo alla finestra, non è troppo difficile. Fino a tanto che i cattolici tirolesi si azzanneranno a vicenda e per ragioni personali, contrasteranno di ortodossia sulla soglia di ogni canonica e innanzi alla porta di ogni maso, nelle città e nei centri urbani nessuno sentirà il bisogno di tener conto delle loro minoranze. Le quali cessano di essere forze vive e collettive, quando colla discordia interiore viene loro a mancare la combattività indispensabile per farsi valere nelle posizioni difficili.
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In mezzo alla colluvie di proposte che alla vigilia della chiusura si riversano da tutte le commissioni nel pieno , chi ha da riferire per il pubblico deve chiamare a raccolta tutte le sue energie fisiche e metafisiche per approntare alla spettabile clientela il «resoconto» sesquipedale delle sedute diurne e notturne. Non vi meraviglierete quindi, se vi confesso di sentirmi ridotto ad una «macchina da scrivere» con aggiunto, se vi piace, un tantino di cervello, ma suggestionato e sistemizzato anche questo come una di quelle tante altre cose qualunque che l’eccelsa Dieta nella laboriosa sessione è riuscita a sistemizzare. In quest’ultima vigilia però quasi d’improvviso, la mia massa cerebrale ebbe un sussulto e d’un tratto sull’assiduità meccanica del resocontista prevalse l’interessamento dello studioso. La parziale riscossa del pensiero avvenne quando, scartabellando fra le proposte della commissione del bilancio, trovai un progetto di legge intorno ad una nuova imposta sull’aumento di valore degli stabili. Gli amici mi crederanno sulla parola quando affermo che la ragione del mio interessamento non va ricercata nell’atto fiscale del disegno di legge. Quello che desta l’interesse mio ed anche dei lettori che non possiedono campi o case è di ritrovare in una legge della Dieta il trionfo di un’idea sociale, venuta così di lontano e che ha dovuto far tanto cammino! Infatti un articolo su quest’imposta si potrebbe anche intitolare «Dalla California alla Dieta tirolese». Fu a San Francisco che nel 1869 uscì per le stampe la famosa opera di Henry George Progress and Poverty. Il pubblicista americano ritornando un giorno dopo una lunga assenza da Filadelfia a Nuova York, fu colpito dalla crescente povertà che dilagava nella metropoli proprio parallelamente al rapido sviluppo del progresso, e si chiese la ragione di codesto rapporto inverso fra progresso e povertà. La risposta è data nel suo libro citato, il quale svolge tutto un nuovo sistema di riforma sociale. «I frutti del progresso, i risultati del lavoro e del capitale vengono assorbiti dal suolo», conclude l’americano. Col crescere della popolazione e della produzione, cresce il valore del suolo, sul quale gli uomini devono vivere e lavorare, così che questi sono costretti ad investire nel suolo, sotto forma di aumentati affitti e pigioni, gli aumentati frutti del loro lavoro e del loro capitale. Anzi egli crede di poter dimostrare che in molti casi l’assorbimento del suolo cresce più rapidamente che la produzione, di modo che il progresso di questa accresce sempre più le probabilità dell’impoverimento. E quale il rimedio? George risponde: «Il capitale e il lavoro rimangano pure libero patrimonio dell’individuo, ma la rendita del suolo deve diventare patrimonio pubblico e sociale». Non seguiremo ulteriormente il George nel suo sistema, divenuto celebre sotto il nome errato di «socialismo agrario», né è questo il momento di esaminare l’esattezza dei suoi concetti di «capitale», «lavoro» e «suolo», sotto il quale ultimo nome egli comprende non soltanto il terreno, ma tutta la natura con le sue forze fisiche ed animali, fatta eccezione dell’uomo. Vediamo piuttosto quale successo ebbe il lato pratico del sistema. È notissimo che George trovò numerosi aderenti specie nelle grandi città americane ed inglesi. Poiché egli non fu un pensatore, come Carlo Marx, o semplicemente un oratore affascinante quale Ferdinando Lassalle, ma anzitutto un uomo eminentemente pratico, un riformatore nel vero senso della parola. E se nella prima parte dei suoi discorsi lusingava la fantasia degli uditori, con le ricostruzioni storiche della fisiocrazia di Mosè o delle leggi agrarie di Sparta e dei Gracchi, finiva però sempre col propugnare delle riforme di prossima attuazione. Così ai lavoratori, ai salariati delle grandi città ripeté con straordinario accanimento questa dottrina: La conquista di salari migliori è inutile, poiché ogni aumento dei salari viene eliso dall’aumento delle pigioni, ossia dall’aumento della rendita del suolo. Si calcola che nelle grandi città americane ed europee l’ammortizzazione del terreno rappresenti almeno un terzo della pigione. L’aumento quindi del prezzo del suolo ingoia i miglioramenti dei salari. La famiglia dell’operaio o dell’impiegato sentendosi aggravata dalla pigione, limita il consumo, la riduzione del consumo causa una diminuzione della produzione industriale, questa a sua volta cagiona la disoccupazione. I disoccupati tengono bassi i salari degli occupati, limitando di nuovo il consumo e conseguentemente la produzione. Così lo sviluppo economico sociale viene fatalmente reso nullo dall’assorbimento del suolo. Questo processo naturale viene poi rincrudito dalla speculazione dei possessori di aree da fabbrica i quali aspettando il momento in cui la compera sia resa necessaria dall’aumento della popolazione, fanno salire in modo favoloso i prezzi del terreno, ostacolando così lo sviluppo edilizio e rincarendo le pigioni. «Ebbene – concludeva George, ripetendo un pensiero ormai chiaramente formulato nel suo Progresso e Povertà –, bisogna far ritornare al servizio della collettività la rendita di questo suolo, incamerandola coll’imporvi una tassa». Questo corollario pratico fece fortuna non solo in America, Scozia ed Australia, ma anche in Germania, ove i partigiani di H. George sono organizzati nella Lega per la riforma del suolo (Bodenreformer) che ha la sua sede in Berlino. Il segretario della Lega è Adolfo Damaschke il quale percorse tutte le città tedesche, bandendo il verbo georgiano. Fu nel 1904, se la memoria non m’inganna, che ebbi occasione di sentirlo parlare nella Volkshalle di Vienna. La sua dottrina accolta prima con diffidenza, andò man mano acquistando sempre più favore. Essa apparve subito giustificatissima per quanto riguarda le aree di fabbrica e venne presto codificata in parecchi statuti di città germaniche. Molte città, Berlino in specie, si trovavano serrate attorno da un anello di speculatori organizzati nelle «Terrain o Baugesellschaften» le quali erano la cagione prima del rincaro del suolo e delle pigioni. L’imposta ha l’effetto di costringere gli speculatori a vendere prima d’aver raggiunto il massimo della speculazione, perché la tassa cresce proporzionalmente al plusvalore del suolo. Si noti che la maggior parte di tali statuti civici concedono al comune il diritto di precedenza nella compera, cosicché il proprietario dell’area si trova nel bivio o di addurre il vero prezzo di vendita con l’intero aumento di valore tassabile, o di dover vendere al comune per un prezzo inferiore a quello di concorrenza. In altre città tedesche e nel settlement germanico di Kiatsu si è andati più innanzi introducendo la tassa del plusvalore su tutti gli immobili, tanto che ora si parla semplicemente di Wertzuwachssteuer. In tale senso più ampio l’ho sentita propugnata anche a Milano nel penultimo Congresso delle Associazioni economiche italiane, e tale applicazione la si trova nel programma finanziario inglese di H. George (Increment value duty). In Austria già nel 1906 l’esempio delle città germaniche fu seguito da Brünn, esempio che venne proposto nel 1908 (Städtetage) all’imitazione degli altri municipi. Da Vienna ad Innsbruck la via è breve. I lettori ricorderanno ancora i dibattiti del 1905 e 1908 svoltisi tra Schöpfer e Grabmayr intorno allo sdebitamento dei terreni. Il primo è – fino a un certo punto – uno scolaro di Adolfo Damaschke, per cui non parve strano che l’anno scorso, quando tutti andavano alla cerca di nuovi cespiti per la provincia, egli raccomandasse la tassa sul plusvalore del suolo. La raccomandazione venne accolta dal Bilinski, il quale sottopose alle diete un disegno concreto di legge. I progetti sono anzi due, l’uno divide il gettito dell’imposta tra provincia e comuni in parti eguali, l’altro riserva l’intero gettito ai comuni. La commissione dietale del bilancio ha scelto il primo; ma la motivazione non manca né per l’uno né per l’altro. Infatti la tassa viene fiscalmente giustificata così: il plusvalore dello stabile è un aumento dovuto allo sviluppo edilizio, stradale, tramviario della collettività; questa ha perciò diritto di incamerarlo. Nel nostro caso non v’ha dubbio che la collettività è tanto il comune quanto la provincia. Nel principio non v’è quindi contraddizione di sorta. Di fatto si manifestarono però delle differenze tra i rappresentanti delle città e gli altri. Vedremo in primavera se i nostri rappresentanti troveranno opportuno che la provincia rinunci ad un cespite per lasciarlo intascare nella parte maggiore da città che non sono certo le nostre. Ma tutto ciò per la nostra considerazione è cosa secondaria. Importa invece a noi di constatare che il corollario formulato già nel 1870 in San Francisco è entrato – dopo tanto cammino nel palazzo della Mariatheresienstrasse –, assumendo nel costume tirolese la forma del § I: «Nei trasferimenti tavolari o extra tavolari di un bene immobile o d’una porzione di esso, situato nel territorio della Contea principesca del Tirolo, viene riscossa a norma delle seguenti disposizioni e senza riguardo, se lo stabile sia o meno coltivato, una tassa sull’aumento del valore». Il progetto tedesco come la legislazione germanica parlano di aumento di valore, evitando la parola plusvalore, venuta dal marxismo. Ma tuttavia il secondo termine ci parrebbe più esatto, perché non è l’intero aumento di valore che viene tassato, ma solo quell’aumento il quale, detratte tutte le spese e le migliorie fatte intorno allo stabile, detrattone poi ancora il 10% e per i possessi rurali il 15%, può veramente considerarsi come aumento di prezzo indipendente dal lavoro e dal capitale del possessore. La tassa stessa è progressiva, va dal 5 al 25% e aumenta in proporzione inversa della durata del possesso, ossia della lunghezza del periodo che corre tra l’acquisto e la rivendita dello stabile. In quest’ultima disposizione, se non erro, si rivela l’impronta germanica della legge, la quale tende così a favorire la stabilità del possesso. Par quasi di sentirvi un rimpianto delle antiche «Allmende» e «Marktgenossenshaft» (Comunità Generale di Fiemme), anticipata conferma delle dottrine del «profeta di San Francisco». Il quale veramente non so come rimarrebbe se dovesse constatare che non l’idealismo sociale, ma il fiscalismo comunale o statale diviene l’apostolo più accanito del suo sistema. L’eco dei suoi discorsi di Londra, Glasgow, New York, Zwiburne si è ormai perduta, e i suoi partigiani avranno potuto temere che la morte di George, avvenuta durante una campagna elettorale americana, significasse anche la morte del suo sistema. Ma non fu così. Uno strano alleato si strinse accanto a questi riformatori idealisti, il quale, sorpassando col sorriso dello scettico sui principii e sulle dottrine, ne propugnò con efficace conseguenza i corollari che servirono alla sua pratica fiscale. Eppure in tale applicazione pratica sta probabilmente la vittoria finale della parte sana del sistema georgiano. S’incomincia ora con un’imposta piccola e circondata di enormi cautele, ma tale modesto principio può portare alla grande riforma tributaria propugnata dal George, per la quale il fisco non tasserà il capitale o il lavoro (capitale in George = strumenti del lavoro), ma la rendita del suolo, arrestando la sua funzione divoratrice. L’effetto più immediato sarebbe il ribasso degli affitti. A dir vero, la grande riforma dev’essere ancora alquanto lontana, poiché nella città che abbandono si parla di aumento di affitti ed in quella in cui ritorno è prossima la minaccia di una nuova imposta sul valore locativo.
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È convocata a Trento per giovedì 3 marzo l’adunanza generale dell’«Unione politica popolare del Trentino». L’adunanza si terrà nella sala del Comitato Diocesano gentilmente concessa, incominciando alle 9 del mattino. Ordine del giorno: 1. la nuova situazione parlamentare, relatore avv. d.r Enrico Conci, deputato al parlamento e alla dieta. 2. La nuova legge scolastica ed il suo scoprimento, relatore prof. D.r G. de Gentili, deputato al parlamento e alla dieta. 3. Il programma stradale e la sua esecuzione, relatore ispett. Sup. Albino Tonelli, deputato al parlamento e alla dieta. 4. Provvedimenti economico-sociali al parlamento e alla dieta (arginazioni, pastorizia, facilitazioni militari, ecc.) relatore on. Deputato Mons. B. Delugan. Eccitiamo quindi i soci dell’«Unione politica», specialmente i fiduciari, a voler intervenire nell’adunanza nella quale i deputati del partito riferiranno intorno alla loro attività ed agli interessi generali del paese. Confidiamo in un numeroso concorso da tutte le parti del Trentino. Trento, 23 febbraio 1910 Per la presidenza Mons. G. B. Delugan pres. Dr. A. Degasperi segr.
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11906-1910
Il m.r. L. Fischer, cappellano di Roppen, scrive alle Tiroler Stimmen d’oggi un articolo in difesa del Volksbund. «Questo – egli afferma – non pretende che gli abitanti del Tirolo meridionale che parlano italiano rinneghino la propria lingua materna ed i propri costumi, ma esso pretende e, crede con diritto, che questi abitanti si sentano e si comportino come italiani austriaci e si stacchino dalle tendenze fellonesche dell’irredentismo». Eh, caro cappellano di Roppen, o ella è caduta già nel laccio di un nazionalismo che toglie il giusto significato alle parole, oppure non ha seguito punto né la predicazione degli apostoli volksbundisti né l’attività spiegata nel nostro paese dal Tiroler Volksbund. Favorisca di leggere i discorsi e le relazioni ufficiali del Gran Maestro, il signor W. Rohmeder, dia un’occhiata alle allocuzioni del prof. Meyer, fatte in certe adunanze chiamate per eccellenza nazionali, legga gli articoli delle Innsbrucker Nachrichten, quello d’oggi per esempio, e dovrà ammettere che tutti questi commentari del programma volksbundista parlano di germanizzazione o di rigermanizzazione di paesi prettamente italiani, quest’ultima contestata con ricostruzioni storiche tendenziose, se non sempre cervellotiche. Sta bene che ella ci obietti che gli articoli e i discorsi non sono manifestazioni ufficiali, che i giornali non sono lo statuto, ma tutto questo a noi può importare meno di zero. Noi abbiamo da combattere qui non con lo statuto e con le sue interpretazioni ufficiali ed autentiche, ma con gli autori in carne ed ossa degli articoli e discorsi sullodati. Che importa, signor cappellano, se ella tranquillizza la sua coscienza con la lettera morta dello statuto ed ecciterà magari i popolani a dare il loro obolo al Volksbund, ritenendo di contribuire con ciò semplicemente ad un’opera di patriottismo statale? Rimarrà sempre incontestabile il fatto che i denari dei contadini cattolici verranno usati dai germanizzatori a fondare scuole tedesche in villaggi totalmente italiani, a comprare il corpo e l’anima di qualche rinnegato, ad aiutare il Volksbund nell’opera associata con lo Schulverein e con la Südmark di seminare nei paesi la zizzania. Chieda ai suoi colleghi di cura d’anime del Trentino, signor cappellano di Roppen, e gli verrà risposto che, dovunque è venuta su la mala pianta del Volksbund, si è ravvivata anche la lotta contro il prete, con immenso danno della cura d’anime. È, vero, gli apostoli del Volksbund le avranno detto che la colpa è dei preti. Ma chi le dà il diritto di ritenere in tali questioni miglior giudice il germanizzatore protestante più del parroco cattolico? Ma, a parte anche tutto questo, crede davvero lei che l’attività del Volksbund, diretta da un bavarese, associata alla Südmark ed all’azionaria Burg Persen , possa aumentare, se ce ne fosse bisogno, il patriottismo austriaco? E perché, se tale patriottismo fosse lo scopo, il Volksbund non sceglie la sua sfera d’azione là dove quello è men sentito, cioè nelle città e nei centri maggiori? Signor cappellano di Roppen! Il suo articolo nelle Tiroler Stimmen ci ha fatto l’impressione di essere scritto in buona fede. Incliniamo a credere che ella, come tanti altri cattolici, sparsi nelle valli del Tirolo, diano al Volksbund l’obolo e l’opera loro come la darebbero per l’erezione di un monumento ad Andrea Hofer. Ebbene, tenga per fermo che ella è male informato. Le società, come gli alberi, si riconoscono dai frutti. Il Volksbund allarga le sue radici nelle vallate del Tirolo, succhiandone umori che potranno essere sani, ma i rami su cui nidificano gli uccellacci da preda ai quali abbiamo accennato, gettano la loro triste ombra sui nostri villaggi. Vengano qui coloro che hanno lavorato in buona fede attorno alle radici, e vedano ed assaggino il frutto. E sentiranno, come dobbiamo sentire noi, quanto è amaro, quanto è velenoso il pomo dell’odio e della discordia nazionale.
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1,910
3Habsburg years
11906-1910
Un comitato di signore e signorine dirige alle donne di cattolico sentire in Trento l’invito ad intervenire all’adunanza costitutiva dell’«Associazione femminile tridentina» che avrà luogo domenica prossima alle 4.30 nella sala del Comitato Diocesano. L’invito reca le seguenti firme: Aida Gianfranceschi – Clara contessa Lanza – Mercedes Gerloni – Teresina Tosche – Virginia ved. Tessari – Amalia ved. De Vigili – Valeria Paolazzi – Marcella Degasperi – Fernanda Fiaider – Anna Menestrina – Maria Ferrari. L’iniziativa del comitato costitutivo merita ampio ed incondizionato elogio. Le signore di Trento seguono così l’esempio delle donne cattoliche di tutti gli altri paesi, in modo speciale della fiorente «Unione cattolica per le donne d’Italia» che accoglie sì largo contributo di adesioni e di applausi e quel che più conta l’approvazione e la calda raccomandazione del Pontefice e dei Vescovi italiani. Il comitato, pubblicando il suo appello, non ha bisogno di presentare un lungo e dettagliato programma. La «Pagina Femminile» ha sparsa la buona semente e l’ha cresciuta con cura assidua e parecchie signore entro e fuori del comitato possono affermare d’avere, prima che all’azione, provveduto all’esposizione dettagliata e all’illustrazione del proprio programma in pubblicazioni giornalistiche o in discorsi d’occasione. Chi ha seguito tutto questo movimento d’idee, accompagnato non poche volte da episodi d’azione, sa che la formale istituzione della nuova società femminile non è che un disciplinare una corrente già viva e un moto ed un organizzare ed intensificare un’azione che fu fino ad oggi incidentale o di poche. L’«Associazione femminile» non assorbe attività che sono oramai compito di altri sodalizi, non invade il campo delle associazioni che esistono, ma le completa per quella parte di compiti nuovi che richiede lo sviluppo dell’età contemporanea. Questi compiti sono quelli che con una parola di significato oramai ben definito si dicono sociali. Lontana da qualunque esagerazione ed in specie dal femminismo politico, la donna cattolica vuole però provvedere all’educazione sociale propria in quanto indispensabile per essere educatrice forte e illuminata dei figli anche oltre la loro puerizia o in genere per divenire la compagna intelligente e cosciente dell’uomo nelle presenti battaglie della vita. O, ancora, se le condizioni sociali l’hanno costretta a cercarsi un impiego con una professione, avrà diritto di cercare nella società quella forza e quella protezione che è divenuta ormai nel mondo maschile il fattore più decisivo del successo ed una grande molla dei progressi sociali. Per toccare fuggevolmente dei mezzi, le lettrici della «Pagina femminile» sanno già che il comitato costitutivo dell’«Associazione femminile» sta preparando una biblioteca che oltre alcune poche letture amene raccoglie opere di apologetica religiosa, di cultura sociale e i libri più in voga del femminismo cristiano. Accanto alla biblioteca l’Associazione intende di promuovere una serie di conferenze femminili inaugurata dalla direttrice dell’Azione Muliebre, contessa Elena Persico. In tutte le iniziative poi d’ordine sociale le signore si propongono di lavorare di conserva colla fiorente «Alleanza femminile», la società delle donne professioniste ed operaie che quantunque giovanissima ancora, ha già fatto tanto del bene! Noi abbiamo quindi il diritto e tutto il dovere di accompagnare l’iniziativa del comitato coi nostri auguri e se pur qualche valore ha la nostra parola, colle più vive raccomandazioni alle signore di accogliere l’appello a loro rivolto d’intervenire all’adunanza nella quale si esporranno programma e statuto e di dare il nome alla nuova associazione. A vero dire la nostra parola è già preceduta da ben altra più autorevole ed influente, quella di S. A. Principe Vescovo, il quale ebbe ampie lodi per l’opera del comitato e ne benedisse l’iniziativa.
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1,910
3Habsburg years
11906-1910
Abbiamo sempre nutrita la convinzione che molti tirolesi danno il loro obolo e la loro cooperazione al «Volksbund» senza essere bene informati intorno all’opera rovinosa che esso va compiendo in terra italiana. Accade un po’ a loro com’è avvenuto a molta buona gente in occasione del disastro delle Calabrie. Pietà o sentimento nazionale mosse il loro cuore ed allargò la loro borsa, ma poi, come impedire che un comitato locale qualunque usasse dei contributi venuti di lontano per uno scopo che i donatori avrebbero certo disapprovato? E in Tirolo le cose vanno peggio ancora. Per le Calabrie in occasione dell’ultimo disastro si misero a profitto le esperienze del primo e le informazioni che risultarono poi largamente dal controllo dell’opinione pubblica. In Tirolo invece illusione e realtà sono divise da un insormontabile muro di carta. I giornali gridano e protestano di qua, inveiscono o mentono al di là, ma la voce di protesta e di dolore non penetra oltre il muro di carta della stampa innsbruchese. L’eco del nostro sdegno si perde nell’aria prima di toccare la Chiusa. Che ne sanno i montanari remoti del Tirolo settentrionale delle nostre lotte, della resistenza del clero, delle discordie provocate nei nostri paesi? Si è detto loro che si tenta di salvare l’unità del Tirolo contro gli irredentisti, e basta. Sarebbe quindi consigliabile, ci scrive un impiegato italiano di Innsbruck, che pubblicaste spesso degli articoli in tono calmo e persuasivo come il vostro ultimo, diretto al cappellano di Roppen e spediste poi il giornale a chi dovrebbe leggerlo. Il consiglio è buono e ne abbiamo subito una conferma di fatto. Tre giorni dopo la pubblicazione del trafiletto capitava in redazione la seguente lettera scritta in tedesco: Roppen nel Tirolo settentri. 27. Lodevole redazione, Confermo ringraziando la ricevuta del N. 46 del Trentino nel quale trovasi l’articolo «un male informato». Il tono calmo in cui è scritto mi ha impressionato favorevolmente. Ella non potrà certo pretendere ch’io stesso muti l’opinione che ho oggidì; tuttavia stia certo che l’articolo non rimarrà senza effetto. Non mancherò di seguire la traccia da Lei segnata e di farmi, per quanto è possibile, un’idea chiara. Se le Sue asserzioni trovassero conferma, ne deriverebbe per me un’amara delusione e per Lei una certa soddisfazione. Io poi saprei trarne le dovute conseguenze. Rinnovando i ringraziamenti e con stima A.M. Fischer, cooperatore. La lettera rappresenta un sintomo non disprezzabile. S’incomincia a dubitare ed esaminare, e per noi è già qualche cosa. Non desideriamo altro in fin dei conti che le persone rette si permettano di fronte al signor Edgar Meyer, Rohmeder e consorti quella critica che servirà a stabilire le responsabilità e, Dio voglia, forse anche a modificare il corso delle cose. Certo, noi non accetteremo il «Volksbund» anche se avrà semplicemente uno scopo politico (antiautonomista). Siamo troppo autonomisti per tali acquiescenze, ma almeno la lotta potrà essere più aperta, più sincera, più leale. Leggiamo quindi con piacere l’articolo «di un moderato» che continua la discussione sulle colonne delle Stimmen. È un tirolese del sud e vede le cose più davvicino. Egli constata che l’ala radicale del «Volksbund» vuole spingersi troppo oltre, non si accontenta di difendere lo statu quo ma tenta l’assalto, la conquista di terre d’altri. Le tournées di propaganda del prof. Meyer nel territorio italiano, l’intedescamento talvolta bambinesco di nomi di paesi italiani sono manifestazioni di tale corrente radicale, che eleva delle pretese su terreno prettamente italiano, perché una volta vi abitavano tedeschi; e si dimentica – continua l’autore – che tale politica di riconquista si potrebbe giustificare anche di fronte a certe vallate tedesche che in illo tempore furono colonizzate dai romani. Il moderato non vuole che per questo si combatta il «Volksbund», ma chiede che quei cattolici che vi prendono parte esercitino la libera critica delle adunanze, s’informino dove vanno a finire i soldi, e ritirino il mandato di fiducia a quei propagandisti che discreditano la società col loro contegno. Via, è già qualche cosa, per incominciare!
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1,910
3Habsburg years
11906-1910
La tirannia dal basso è per lo meno altrettanto detestabile quanto il despotismo dall’alto. Ciò malgrado, il socialismo ha troppe volte dimostrato di voler combattere per tutte le libertà civili e per tutte le ribellioni sociali, ma di non saper rispettare i diritti e le libertà dell’individuo. La forza elementare della corrente socialista si spiega in buona parte coll’irruente violenza dei suoi metodi. Pochi ma arditi e senza scrupoli trascinarono e soggiogarono i più. Sotto un tale dominio l’individuo scompare e il socialismo, nato per combattere tutti i tiranni e scuotere tutti i poteri, insedia sul trono del despotismo più assoluto la ragione di partito e l’egoismo di classe. Non è qui il momento di ricercare le cause perché il socialismo, grande rivendicatore di libertà sia portato così facilmente a soffocarla né come un partito per eccellenza rivoluzionario sia divenuto in realtà l’organizzazione più militare e più autoritaria che si possa concepire. Ma è certo che la prima ragione sta nell’assoluta deficienza di senso morale. La predicazione della fatalità della grande e violenta riscossa viene fatta senza titubanze e senza riserve e nella lotta di classe viene proclamata la necessità della riuscita a qualunque costo, non la legittimità dei mezzi. Di siffatta scuola presentiamo ai lettori due nuovi documenti. L’uno è una triste prova come il socialismo insegni ai nostri operai a non rispettare la libertà dei propri fratelli e compagni di lavoro, l’altro vi riparla per la centesima volta di quella campagna, schifosa per democratici, indegna d’italiani che un’ibrida accozzaglia combatte ad Innsbruck contro l’Opera degli emigranti e l’Albergo italiano. Contro tali prevaricazioni non v’è che un rimedio: opporsi risolutamente in nome della dignità e libertà umana alle nuove tirannie e cercare nell’organizzazione la forza di conquistare i propri diritti, in quanto vengano negati dall’alto e difenderli, in quanto si tenti di manometterli dal basso.