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3Habsburg years
21911-1915
L’uomo di stato , scomparso prematuramente se non improvvisamente dalla scena politica, fu tale nella sua attività, da meritare da parte degli italiani un ricordo di gratitudine. Salito al potere dopo il Goluchowski, seppe orientare la politica austriaca in modo da arrivare all’annessione della Bosnia-Erzegovina giocando abilmente il ministro russo Iswolski, con il quale pochi giorni prima s’era incontrato a Buchlau, nel castello del conte Berchtold , ora suo successore. Iswolski allora dovette confessare d’essere stato sorpreso molto accortamente, e l’opposizione della Russia al nuovo stato di cose non ebbe fine se non quando la Turchia prima e la Serbia poi – febbraio e marzo 1909 – dichiararono di chinare il capo. L’appoggio incondizionato della Germania, che l’Aehrenthal s’era saputo procacciare, aveva ottenuta questa condiscendenza. Si disse in quel tempo, che l’Iswolski non fosse l’unico ministro degli esteri giocato nell’affare dell’annessione. All’imprevidente convegno di Buchlau avrebbe fatto riscontro un altro, non meno cordiale e non meno traditore; quello di Desio, tra l’Aehrenthal e l’on. Tittoni . Quando la bomba dell’annessione scoppiò, e l’on. Tittoni, cui si muoveva rimprovero di non averne saputo trarre vantaggio, nel suo noto discorso parlò di compensi, non fu creduto perché i compensi non si videro subito. Ci vollero tre anni perché apparisse, che mentre a Desio il ministro italiano non era uscito a mani vuote, l’Aehrenthal aveva saputo mantenere. Ci vollero gli avvenimenti che dal settembre in qua hanno commosso tutti gli animi italiani per provare l’amicizia sincera che il defunto ministro degli esteri austriaco nutriva per l’Italia mentre intorno a lui s’agitava una lotta sorda ed invidiosa contro la nazione alleata elevatasi con gesto magnifico. Forse più ardua per lui che per i governanti italiani fu la lotta continua contro l’opinione pubblica, per indurla a persuadersi che Italia ed Austria devono essere amiche perché è nell’interesse di entrambe che i loro rapporti siano cordiali. I fatti sono così recenti che non occorre ricordarli nei loro particolari; basterà dir che egli mercè la fiducia accordatagli dall’Imperatore, ha saputo resistere alle pressioni di quelli che per il timore di un’aggressione dell’Italia, vorrebbero essere i primi ad aggredirla. Una parola a difesa della politica italiana nella guerra italo-turca è stata detta in un solo Parlamento: in quello austriaco. Il ministro morente è stato confortato dai Sacramenti e dalla benedizione apostolica, com’era naturale in un uomo che praticò sempre la religione dei suoi padri. Non sempre la politica gli permise, in questo riguardo, d’agire come il suo intimo pensiero avrebbe voluto. Così s’ebbe l’infelice vertenza diplomatica sorta tra lui e il Nunzio mons. Granito di Belmonte per la mezza soluzione data all’affare Wahrmund , il professore di diritto canonico che all’Università di Innsbruck insegnava errori grossolani che urtavano con la più elementare dottrina cattolica. La cosa però fu presto regolata e senza che rimanesse la minima traccia. Oggi, davanti alla bara ancora aperta, ricordiamo la sua guerra come quella di un cavaliere leale, che la sua opera di diplomatico seppe improntare ad un indirizzo di giustizia.
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21911-1915
I fautori della proporzionale hanno riportato a palazzo Borbone una bella vittoria, tanto più considerevole, quanto più accanita era stata la resistenza opposta fino all’ultimo momento dal combismo radico-socialista . È stata una lotta nella quale era da una parte la grande maggioranza delle nazione, come si potè constatare nell’ultima campagna elettorale, e dall’altra i radicali combisti decisi a sparare tutte le loro cartucce piuttosto di cedere. Essi sentono che la rappresentanza proporzionale segna la fine definitiva della loro supremazia e non sanno acconciarsi a quest’idea. Ultimamente, quando l’on. Poincaré venne chiamato dall’Eliseo a costituire il «grande ministero», Camillo Pelletan scrisse nel Matin un articolo pieno di spirito, nel quale, fra l’altro, si invitavano i francesi a pregare per il partito radicale defunto. Certo il fatto per cui Fallières si rivolgeva ad un progressista di sinistra piuttosto che a un radico-socialista – che costituisce sempre alla Camera il più forte gruppo numericamente parlando – era molto sintomatico. Si può avere il numero, e si possono sentire i lenti rintocchi di morte nell’ordine del pensiero. Ora il principio della rappresentanza proporzionale pende come la minaccia di mali peggiori, in quanto che anche la maggioranza numerica è minacciata. Bisogna leggere i giornali radicali per farsi un’idea del panico che regna in seno al partito. Si afferma che il partito repubblicano è seriamente in pericolo, e il partito repubblicano, ben inteso, è il partito radicale combista, abituato a tutti i monopoli. «Gli spettatori – così leggiamo nella Republique Française – che hanno assistito alla seduta della Camera... si faranno una ben triste idea di una importante frazione delle rappresentanza nazionale. Uno degli oratori che ha preso la parola per combattere la riforma elettorale, ha domandato seriamente al governo se non possedeva una statistica dei risultati probabili delle future elezioni legislative generali, senza di che sentivasi inquieto di ciò che potrebbe avvenire in seguito all’introduzione della rappresentanza proporzionale: voterebbe quindi contro. Un altro ha domandato puramente e semplicemente al presidente del Consiglio se possedeva un progetto di riforma elettorale capace di procurare la sicurezza ai repubblicani». Ciò che tradotto in lingua chiara significa semplicemente questo: «l’esigenza di un progetto elettorale che assicuri a tutti i radico-socialisti la loro rielezione individuale. Ed i radicali ad applaudire freneticamente questo linguaggio improntato senza il minimo pudore alla cucina del blocco. Invano gli oratori più qualificati hanno portato alla tribuna la prova che i radicali avrebbero la loro parte, e che se avevano la maggioranza degli elettori nel paese, avrebbero colla R.P. la maggioranza degli eletti alla Camera. Le assicurazioni che loro si davano di una rappresentanza equa del loro partito li lasciavano perfettamente indifferenti. Non hanno altro partito che se stessi. Sono completamente indifferenti che la loro politica abbia nel parlamento la maggioranza, se non sono essi, e le loro persone fisiche non si trovano in carne ed ossa. I peggiori avversari del regime parlamentare, sono questi sfrenati reclutatori di tutti i movimenti d’opposizione di domani». È ciò che che si è verificato alla lettera. Come abbiamo già annunciato, la destra, il centro, una parte della sinistra, i socialisti votarono a favore della proporzionale. In tutto 321 contro 213 radicali e radico-socialisti. Chi conosce il partito combista, l’ardore col quale si aggrappa al potere, il desiderio di vendetta contro chi cerca di scalzare il suo regno, non può a meno di ritenere che gli sconfitti di venerdì torneranno presto all’assalto. Poincaré e il grande ministero non possono farsi delle illusioni. Le questioni di politica internazionale sono di più in più acute e per la Francia di una portata singolarissima, massime se il ravvicinamento anglo-germanico andrà lentamente ma sicuramente effettuandosi: ma i combisti non badano a tutto ciò, s’infischiano della situazione internazionale della Francia, come sorridono davanti alle argomentazioni idealistiche a favore della R.P. Ciò che essi vogliono è il mantenimento dello statu quo: è la consacrazione del loro impero, è l’assiette au beurre. Poincaré ha creduto fare il gesto di porsi contro al combismo vendicativo. Attendiamoci un non lontano assalto, che, superato, importerebbe il tramonto definitivo della «morta gora» del combismo; ciò di cui non abbiamo ragione di rammaricarci.
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21911-1915
L’ora che corre non è per noi cattolici quella dei grandi entusiasmi. Sembra in certi momenti che la forza del principio cristiano entro la vita pubblica venga meno a vista d’occhio e che i partiti stessi che di questo principio vogliono essere propugnatori, si smarriscano nella selva oscura degli interessi materiali, dei particolarismi nazionali, degli antagonismi di classe. Attraverso codesto selvaggio sviluppo la luce degli ideali arriva a stento alla nostra pupilla anche quando essa splenda in tutto il suo vigore e non sia, come nell’ultimo decennio, turbata da altri fenomeni, dipendenti da cause a noi estranee. In questi momenti pare davvero che un movimento cattolico internazionale, per quanto riguarda le sue manifestazioni civili, non esista, che ogni partito cattolico sia davvero un organismo di una data nazione, concresciuto con le sue virtù e con i suoi difetti ma completamente estraneo ad altri organismi i quali si muovono in altri corpi politici e che pure si chiamano cattolici. Che importa a noi se Trimborn è caduto a Colonia o se Hertling dirige il gabinetto bavarese? E quale eco potrà rispondere nei cuori cattolici, quando De Mun salirà alla tribuna delle discussioni marocchine a parlare della potenza e della gloria della Francia? E c’è ancora uno sfondo di principio e di pensiero comuni per rappresentazioni così diverse come il saluto al reggimento gridato dal cardinale Maffi nella chiesa dei Cavalieri e la rude invettiva di un cristiano-sociale sotto le volte del Rathaus? Ci sono in vero altri momenti che ci richiamano ad una solidarietà senza sottintesi e senza distinzioni. Quando i giacobini francesi o i carbonarios portoghesi spogliano i conventi e gettano in carcere migliaia di religiosi, quando l’orso russo conficca i suoi artigli nella cattolica Polonia, allora tutto un grido che si sprigiona dall’animo dei cattolici e tutti i figli partecipano al lutto della Madre. È quindi un programma di difesa e di libertà quello che anzitutto ci unisce nell’affermazione di cristianesimo nella vita politica d’ogni paese. Non sempre l’oppressione è così manifesta né la rivendicazione così naturalmente dovuta, ma la lotta si conduce ovunque, quindi per il libero progresso del cristianesimo, quindi per l’ideale di uno Stato laico e pagano, dissolvitore ed assorbitore di tutte le autonomie e di tutte le libertà. È già questo un grande compito della politica cattolica. Quanti bei nomi della storia civile recente che ricordano uomini di Stato o parlamentari che con braccio vigoroso ed a gran colpi di scure aprirono la via agli uomini di chiesa, ai seminatori della simbolica semente, ai predicatori ed ai maestri di carità. Ma non basta. Per le libertà anche legittime poterono per un breve periodo combattere anche le rivoluzioni o contro illecite inframettenze dello Stato protestare accanto ai cattolici anche i socialisti. Ma c’è inoltre un programma positivo, un programma cattolico politicoricostruttore, o meglio vigono dei criteri generali, esistono degli atteggiamenti dinnanzi alle questioni ed alle urgenze politiche del tempo che sono eguali o analoghi per i cattolcii di tutti i paesi. È vero: noi non abbiamo un comune manifesto, come lo diede Carlo Marx ai socialisti, né un programma di rivoluzione sociale, fondato su di una teoria che va riveduta e corretta, ogni volta che la si esamina e la si discute, ma è anche vero che i nostri criteri di vita pubblica vengono attinti a fonte ben più sicura e più serena, e sgorgano continuamente dalla verità dell’evangelo della giustizia e dell’amore. Da questa fonte viene la nostra morale politica, la nostra concezione degli ordinamenti sociali, la nostra convinzione sul formarsi della società futura. «Non abbiamo programma? – rispondeva recentemente un membro del gabinetto belga, Broqueville , ad un capo anticlericale. L’abbiamo, ed esso si fonda sull’evangelo ed abbraccia tutti i campi della vita. Noi vogliamo che l’ultimo lavoratore abbia la sua casetta ed il più povero dei contadini possieda il suo pezzo di suolo. La donna dovrà abbandonare la fabbrica e ridiventare la tutrice della famiglia. Ogni lavoro deve venir compensato secondo giustizia. Quando saremo giunti al punto che tutti coloro che lavorano saranno assicurati contro le malattie, la mancanza di lavoro e gli acciacchi della vecchiaia, quando l’opera dei nostri missionari avrà ridotto i negri ad uomini civilizzati, quando ogni padre avrà la possibilità di mandare il suo figlio alla scuola che gli pare la migliore, quando i fiamminghi avranno la loro università e Anversa sarà il primo porto d’Europa, allora solo ci daremo un momento di riposo, ma non prima». La risposta non ha solamente valore locale. Il nostro programma di lavoro è immenso. Ma noi non concentriamo i nostri sforzi a formulare una certa serie di postualti e di riforme quanto piuttosto a stabilire ed approfondire i criteri del nostro lavoro che saranno i punti cardinali delle nostre attività pubbliche, attorno a cui il movimento nasce di per sé, per la grande forza interiore che ci viene quotidianamente dalla Chiesa. Senza dubbio, ci fu un tempo a noi prossimo nel quale tali criteri trovarono una formulazione mirabile nelle encicliche di un grande Pontefice, ma se nell’ultimo periodo sopra i contrasti delle nazioni non risuona più con tanta frequenza una voce che ci richiami tutti alla mondiale solidarietà di un programma sociale cristiano, ciò non vuol dire che tale solidarietà di intenti e di lavoro non esista di fatto. Uno sguardo al lavoro di cultura, di carità, di giustizia sociale in tutti i paesi, e ce ne persuaderemo. Non si scoraggino i giovani quindi e non vengano meno. La democrazia cristiana è in marcia, anche attraverso la selva degli ostacoli umani. E ritorneranno ancora gli entusiasmi sacri della vittoria e l’ondata di luce che supera ogni nebbia e scaccia ogni titubanza, poichè al di là della valle vediamo già i raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogni calle.
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21911-1915
Tutti i giornali cattolici, compreso i tirolesi, hanno avuto articoli di fuoco contro la Südmark, non solo perché essa fa propaganda di germanizzazione, ma anche perché nella Carinzia ed altrove pianta colonie di protestanti in mezzo alla popolazione cattolica. Giorni fa abbiamo anzi rilevato che la Südmark ed il suo bollettino ufficiale concepisce il cristianesimo come una sventura per il popolo tedesco . Abbiamo anche aggiunto che il nesso esistente tra Volksbund e Südmark lascia indurre poco di buono anche per il Volksbund. Quando però abbiamo parlato di questo nesso, ignoravamo che il presidente del Volksbund professor W. Hörmann è la stessa persona del dr. W. Hörmann vice presidente della Südmark, gruppo di Innsbruck. La cosa ci era sfuggita, perché finora nella rappresentanza della società di fronte a terzi compariva il presidente Wilfling. Quest’anno nell’adunanza generale del gruppo, tenuta giorni fa ad Innsbruck, e di cui riferiscono le Nachrichten dei 21 a p. 17, invece del Wilfling ammalato presiedette l’adunanza della Südmark il presidente del Volksbund W. Hörmann. E perché il nesso fratellevole fosse ancora più manifesto un certo professore Vintschger alla fine della seduta, quale rappresentante la direzione del Volksbund (in Vertretung der Hauptleitung) tenne un fervorino sull’attività del Volksbund ed intorno all’alleanza sul terreno dei fatti esistente fra Südmark e Volksbund (über das sachliche Zusammenwirken von Südmark und Volksbund in unserem engeren Vaterlande). Bella figura che ci fanno i cattolici tirolesi in codesta alleanza! Bisognava proprio essere in una provincia che si vanta soprattutto della sua fermezza e della sua intransigenza di principii per compromettersi con cose e con nomi che nelle due Austrie, in Stiria e Carinzia i cattolici combattono come pericolo religioso.
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21911-1915
La Meraner Zeitung reca un altro bilioso articolo contro il «welscher Bischof», Il Trentino ed il nostro partito. Lo scopo cui tendono gli apologisti del Volksbund è troppo chiaro: demolire nella coscienza tirolese l’autorità ed il carattere d’una azione vescovile, dimostrare che il Vescovo agisce per semplice impulso di razza, che la sua opera va confusa e giudicata con tutte le beghe nazionali austriache. Perciò a lui personalmente si vogliono attribuire tutti gli atteggiamenti del nostro partito, gli articoli del nostro giornale ed i fatti della nostra azione pubblica. A costoro è ben noto che codesta identificazione non corrisponde alla realtà, che l’autorità ecclesiastica è superiore ai partiti politici e che questi in questioni non religiose né politico-ecclesiastiche portano liberamente la responsabilità delle loro azioni. Tale distinzione è chiara anche nella lotta contro il Volksbund. Il nostro partito potrà combatterlo anche per ragioni politiche, il Vescovo invece si è richiamato a ragioni di pastorale che inducono a biasimare la sua azione nel nostro paese. Ma insistere su tale argomento per gente in mala fede sarà fiato sprecato. Un altro gioco che tentano gli idrofobi della Meraner Zeitung è di dimostrare che le conferenze tenute a Salorno per iniziativa dell’Associazione universitaria cattolica e quelle promosse a Bolzano e Merano dal nostro segretariato, rappresentano il tentativo di conquistare terra tedesca, sono cioè qualche cosa di più ingiusto che l’azione del Volksbund conservatrice delle oasi nel Trentino. Notate che le conferenze tenute a Salorno nel circolo italiano furono conferenze di carattere tecnico, che a Bolzano e a Merano si tengono conferenze d’argomento sociale agli operai emigrati, i quali sono organizzati in apposite sezioni accanto ai tedeschi. Ad ogni modo si tratta di azione italiana, tra italiani immigrati in terra tedesca per scopi economici e senza nessun intento di far conquiste. Invece il Volksbund, non si limita a conservare le oasi, ma tenta la germanizzazione in terreno prettamente italiano, sotto il pretesto che si tratti di «verlorenes deutsches Land», paese tedesco al tempo di Dietrich von Bern, del leggendario gigante Ecke e del nano Laurino e dell’eroe epico Hildebrand che, secondo un’etimologia dimostrata falsa dovrebbe essere stato di casa sulle rive del Garda . E qui sta il nodo. Ma comprendiamo che discutere con voi è perdere il ranno e il sapone. L’articolista della Meraner ha ancora la mutria di terminare col rivolgere al nostro indirizzo il detto: Wer lügt, der muss Prügel haben (chi mente, verrà bastonato). Badi l’articolista che simili provocazioni non trovino applicazione in altro modo e che le bastonate non tocchino ad altri.
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1,912
3Habsburg years
21911-1915
Come rileviamo dalle conservative Tiroler Stimmen e dal cristiano sociale Tiroler, e la direzione del Tiroler Volksbund ha diramata una circolare del seguente tenore. TIROLER VOLKSBUND Innsbruck, Museumstrasse 20, 1° piano Tirolo indiviso! (Data del timbro postale) Onorevole Direzione, I recenti attacchi del Vescovo di Trento dr. Endrici contro la nostra azione di difesa ci costringono ad agire contro di essi in modo fuori dell’ordinario. Noi abbiamo intenzione di fare una straordinaria diffusione di fogli volanti in lingua tedesca, ladina ed italiana. Questi ingiusti attacchi irredentisti devono essere respinti in modo energico, per quanto oggettivo. Contemporaneamente si progetta di tenere un grande comizio di protesta. Purtroppo – in causa delle gravi spese correnti, che diventano sempre più notevoli per le scuole ed i giardini d’infanzia tedeschi, per la tutela del suolo, per le sovvenzioni, mentre gli introiti non sono corrispondenti – i nostri mezzi sono così limitati, che noi ci vediamo costretti, per l’accennata azione di difesa e per andare a fondo nella vertenza, a ricorrere all’aiuto delle associazioni popolari per creare un fondo popolare allo scopo di respingere simili attacchi. Noi preghiamo perciò anche la vostra on. associazione di voler partecipare all’azione con l’importo che vi sembrerà conveniente. Con fido saluto tedesco ed una stretta di mano. Per la direzione del «Tiroler Volksbund». Il Presidente Dr. W. v. Hörmann, prof. univ. Non è detto a chi sia stata spedita tale circolare. Le Stimmen aggiungono: ai gruppi locali del Volksbund stesso ma, rileggendola, si ha l’impressione che essa sia diretta anzitutto ai «völkische Vereine», alle società cioè di propaganda nazionale dentro e fuori del Tirolo e che i gruppi locali in tutto codesto lavoro preliminare non siano direttamente chiamati ad agire. La loro entrata in scena verrà dopo, quando la direzione o meglio la parte liberale di essa avrà approntato il denaro, gli stampati e i discorsi. Comunque, la circolare stessa e gli intendimenti ai quali si ispira rappresentano per il Tirolo un fatto così grave, che la stampa cattolica dei due campi politici ha subito dato l’allarme e pubblicata una fiera protesta. Le Stimmen prendendo a notizia che la direzione del Volksbund sembra ormai disposta ad entrare in campo aperto contro un Vescovo della provincia, avvertono che il danno maggiore ricadrà sul Volksbund stesso che, come società anticlericale, verrà abbandonata da tutti i cattolici. Trovano poi deplorevole che il Volksbund per combattere il Vescovo ricorra alla solita accusa d’irredentismo. «Il popolo tirolese – dicono le Stimmen – sa e deplora che nel Tirolo vi siano molti irredentisti. Il popolo tirolese sa però anche che nella provincia non mancano i cavalieri nero-rosso oro (colori germanici) che guardano di sottecchi oltre il confine giallo-nero. Di ciò non si mena grande scalpore. Ma il popolo cattolico del Tirolo non può lasciar passare alla leggera che il Tiroler Volksbund annoveri il principe Vescovo di Trento fra gli irredentisti e designi la sua doverosa opposizione a certi abusi dell’azione volksbundista del Tirolo italiano come ingiusti attacchi irredentisti». Le Stimmen, quindi, dopo essersi assicurate le spalle da eventuali attacchi con un largo accenno all’attività punto italofila che i conservatori hanno svolto in Dieta (per noi non c’era proprio bisogno di tali benevole insistenze), affermano che il punto di vista cattolico impedisce loro di vedere in ogni italiano e perfino nel Vescovo l’irredentista. Il principio cattolico proibisce loro anche di penetrare nel Tirolo italiano a tentare ingiuste conquiste nazionali (in Italienisch Tirol auf ungerechte nationale Eroberungen auszugehen). Il cristiano-sociale Tiroler di Bolzano sotto il titolo «Tiroler Volksbund und Diözesanbischof» tratta anche lo stesso argomento. Alla pubblicazione della circolare premette un proemio nel quale dice: «Abbiamo avuto ripetutamente occasione di accennare all’indirizzo critico e pericoloso che il Tiroler Volksbund segue o lascia seguire ad alcuni suoi propagandisti in ispecie nella parte italiana del nostro Tirolo. Abbiamo accennato che la suddetta propaganda in tale territorio riesce a difficoltare la debita cura pastorale del clero, senza dire poi di quelle tendenze, che sotto falsa bandiera servono a dar sfogo agli spiriti antireligiosi ed anticlericali di certi agitatori». Il giornale continua rilevando di avere a suo tempo riconosciuto il pieno diritto del Vescovo di opporsi ad agitazioni siffatte e di aver dichiarato insulso il tentativo di spacciare per irredentisti tutti coloro che vogliono l’autonomia, quella stessa che in Boemia domandano i tedeschi e molti tirolesi sarebbero disposti a concedere. In tal riguardo peggio ancora è il gioco del Volksbund, quando vuole spacciare per irredentista il principe Vescovo, perché si oppone, in nome degli interessi pastorali, agli abusi di una società. Queste osservazioni, continua il Tiroler erano fatte con buona intenzione, ma si deve ritenere che la direzione del Volksbund non ne voglia tener conto perché ora dirama la circolare che segue. E qui il giornale ne riferisce il testo. Nel commento poi nota che nella circolare si ritrova il frasario già comparso contro il Vescovo ed i cattolici nella stampa liberale e che il Volksbund si rivolge per aiuto ai «völkische Vereine». Ora chi paga è anche chi tiene il mestolo, ragiona il Tiroler. E chi paga o dovrebbe pagare sono appunto le società tedesche radicali, di cui è nota l’avversione per la Chiesa cattolica. (Man weiss, was den Leuten als völkisch gilt; es ist der Inbegriff des Deutschradikalismus und der damit verbundenen Feindschaft gegen die Katholische Kirche). La cosa parve al Tiroler a prima vista così grave, che non voleva prestar fede ai propri occhi ma finora non s’è udito che il professor Hörmann abbia protestato contro l’abuso del suo nome. «In ogni caso, conchiude il Tiroler, se il liberalissimo professor Hörmann e le società tedesche radicali, abusando della firma Tiroler Volksbund proclamano lotta aperta contro un Vescovo del paese, i cattolici tirolesi sapranno da qual parte dovranno mettersi e sotto quale bandiera essi devono raccogliersi. Allora però, addio Tiroler Volksbund. Poiché questo o sarà tale da corrispondere alle convinzioni patriottiche e religiose del popolo tirolese o cesserà di essere la società del popolo del Tirolo». Sullo stesso argomento l’Allgemeiner Anzeiger di Innsbruck giunto oggi porta una corrispondenza di Bolzano, nella quale viene riassunto l’articolo del Tiroler. La redazione vi aggiunge, a noi non è capitata in mano una tale circolare. Naturalmente ci associamo alla succitata protesta (quella del Tiroler) e in segno del nostro completo accordo riprodurremo domani integralmente l’articolo del Tiroler. Come si vede, la stampa cattolica tedesca comprende il suo dovere e si schiera completamente dalla parte del Vescovo. Noi non abbiamo bisogno di ripetere una nostra parola che esprime tutta la devozione e tutta la ammirazione che infonde nella stragrande maggioranza del popolo trentino la persona del nostro amatissimo Vescovo. Solo chi conosce le difficoltà della sua posizione e la complessità e la delicatezza della sua alta missione può misurare il valore personale dell’opera che egli con pastorale prudenza e con apostolico coraggio ha iniziata. Egli combatte per la verità e per la cristiana giustizia, cosicché l’esito della lotta che gli avversari gli vogliono imporre ad ogni costo, non può essere dubbio. Frattanto però i suoi nemici saranno costretti a gettare la maschera, e l’intrigo così abilmente ordito e dentro il quale i cattolici tirolesi o meglio parte di essi stanno dibattendosi, finirà con l’essere spezzato.
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1,912
3Habsburg years
21911-1915
«Ietzt haben die Fleimser das Wert...» Fiemme, 29 «La facciano sentire con forti accenti e presso i fiemmesi la loro parola; da noi troverà anche l’eco meritevole...» Così e non altrimenti esclamò il deputato pangermanista di Bolzano D.r Walther in un’adunanza, che tenne la scorsa settimana . Il Trentino di ieri rispose perfettamente a tono; ma perché quel tal signore e i suoi colleghi sappiano quale intonazione assumerà la voce di Fiemme, non sarà male riandare un po’ al passato. Si era alla fine dell’anno 1910; il compromesso di Bolzano era nel suo maggior sviluppo; i progetti di dettaglio della tramvia, che la Comunità generale s’era assunta l’impegno di far elaborare, erano pressoché ultimati; le nostre speranze, mai ancor offuscate né venute meno erano al colmo, la parola data solennemente sancita da noi, galantuonomi, era ancor stimata e creduta più che sufficiente caparra per una sollecita ed equa soluzione. Ed ecco che il Trentino pubblica una corrispondenza intercessa fra la Camera di commercio di Bolzano e la Comunità generale: la prima esortava con arti subdole a rompere il compromesso, che non sarebbe stato chiamato in vita che allo scopo di assopire i desideri ferroviari dei fiemmesi e ad unirsi poi con Bolzano per trattare unilateralmente della ferrovia Egna-Predazzo. E il signor Walther, che fu forse l’autore di quella lettera, ricorda la risposta della Comunità generale? C’è forse bisogno di ripetergli, che allora furono trattati da fedifraghi tutti coloro, che soltanto tentarono di rompere il compromesso? E non si disse forse bene già allora che col compromesso vollero assopire i desideri ferroviari dei fiemmesi, non poteva essere che nelle schiere aderenti alla stessa Camera di Commercio di Bolzano, la quale avea pur aderito al compromesso ed avea promesso di appoggiarlo, alla quale per giunta era pur noto, che l’Imperatore stesso aveva dichiarato di appoggiarlo presso il suo governo? Se la lettera della Camera di commercio segnò il preludio della rottura e sepoltura del compromesso, la risposta della Comunità generale, fiera e dignitosa segnò ben il principio dell’opposizione ad oltranza di tutta Fiemme a tutti i conati unilaterali della prepotenza teutonica ed in ispecie dei circoli bolzanini. E quando il compromesso tramontò, la Comunità generale sorse fiera a protestare contro i fedifraghi antichi e sempre nuovi e a deplorare che il governo si abbandoni in braccio a un partito, il quale non può contare di avere il voto di un popolo al suo sostegno. Nei successivi comizi tenuti dall’on. Degasperi venne fatto vedere e sentire in modo indubbio il volere di Fiemme, che è e non può che essere di perfetto accordo coi propri deputati. E il signor Willi non ha ancora capito qual è, quale dev’essere e quale sarà la voce di Fiemme? Venga quassù e gliela faremo sentire senza tanti preamboli; che se vuole tentare una seconda edizione del tentativo fatto nel 1910 sappia pure che in Fiemme c’è chi è ancora capace di dirgli il fatto suo, c’è chi vigila attentamente a che non venga fatto danno alla Valle; sappia che le rappresentanze comunali e il Consesso della Comunità generale conoscono benissimo il volere della popolazione, e che è di restare uniti come falange attorno ai nostri on. deputati e a questo volere di popolo si uniformeranno senza alcun dubbio. Un fiemmazzo curioso Nelle Tiroler Stimmen, giunto oggi, al posto, d’onore, sta una corrispondenza datata da Fiemme e firmata «fiemmazzo» nella quale si vuole dimostrare che l’opinione fiemmese è tutt’altro che favorevole a quella dell’on. Degasperi e consorti, che il risultato dei comizi venne raggiunto ad arte e che le corrispondenze fiemmesi che ha pubblicato il Trentino sono taglierini fatti in casa. Il presunto fiemmazzo si diffonde in quasi tre colonne a difendere il governo e quei fedifraghi tedeschi, i quali hanno combattuto il compromesso, prima che venisse sciolto. Un bel fiammazzo costui che non ha miglior cura che quella di dir bravi a chi ha distribuito botte alla sua valle! Saremo curiosi di sapere chi sia. Ne abbiamo il diritto, poichè egli assume la posa non solo di ammonitore, avvertendoci che noi in contraddizione col nostro programma cattolico portiamo la discordia nella valle, ma anche di pubblica accusa, perché ci dà dei falsificatori dell’opinione pubblica. Fuori i nomi, dunque!
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1,912
3Habsburg years
21911-1915
Il mondo corre più che non si crede. La nostra cooperazione è di ieri e tuttavia qua e là rivela gli acciacchi della vecchiaia. Bisogna ringiovanirla, rinsanguarla ad ogni costo. È necessario impedire che le cooperative crescano a discapito dell’idea cooperativa. Bisogna impedire con ogni sforzo che la bottega uccida il concetto di solidarietà morale che l’ha creata. Così ripetono spesso gli amici che seguono più davvicino la vita dei nostri consorzi cooperativi, così abbiamo scritto recentemente all’inizio della stagione invernale che suole o dovrebbe essere il tempo della volgarizzazione e della predicazione dell’idea. Abbiamo letto giorni or sono che la federazione dei consorzi cooperativi intende ripubblicare o stampare a nuovo i manuali del cooperatore, una specie di enciclopedia del movimento cooperativo trentino. La deliberazione va salutata con piacere, e ci auguriamo che abbia pronta corrispondenza nei fatti. Evidentemente sentiamo tutti che così non si procede, che così l’opera compiuta con tanti sforzi nei primi anni del movimento cattolico non si rinsalda, che l’idea creatrice va impallidendo e quasi perdendo la sua luce proprio nel momento che sbocciano i fiori della sua fecondazione. Evidentemente abbiamo tutti l’intuizione che il movimento cooperativo minaccia di incanalarsi da sé, fuori della corrente di pensiero e di fatti sociali in cui ci muoviamo, che fra esso e il nostro movimento operaio, agricolo e cattolico sociale in genere il nesso vitale va perdendo la sua forza. S’impone quindi alla nostra mente il quesito: dobbiamo proprio lasciare che le cooperative, le casse rurali e gli altri consorzi in genere diventino semplicemente spacci di vendita, uffici di contabilità, società cripto-capitaliste e che le società centrali siano soltanto uffici tecnici di revisione e di controllo? La federazione ha già risposto per conto suo al quesito ed il sindacato ha prevenuto la risposta, ma lo scopo che si indica da tutti non potrà essere raggiunto se non colla collaborazione di tutti. È necessario far di nuovo appello alle persone colte, a quelle che per la loro funzione o l’educazione loro hanno di mira soprattutto l’elevazione morale del popolo. I sacerdoti, i maestri, i nostri accademici, i nostri giovani devono essere richiamati al lavoro, alla vigilanza, alla propaganda. O c’è forse tra noi chi dubita sulla verità esperimentata già in altri paesi che la cooperazione trattata col criterio economico va institichendo e degenerando? O c’è forse chi possa ritenere che nel riguardo morale per la cooperazione trentina s’è fatto abbastanza? Nessuno dubita, nessuno lo crede. Gli esempi sono troppo vicini. I fatti parlano troppo chiaro. Cooperative di consumo che cadono in mano dei primi speculatori che in veste di cooperatore ma coll’anima di bottegai, sorprendono una maggioranza inconscia, altri consorzi che perdono la loro popolarità per il camorrismo di pochi che vi sgovernano, altri in cui nidifica il cuculo anticlericale, dopo avervi scacciato il cattolico militante che l’ha fondati. Oh, è ora di scuotersi, di spalancare le finestre e di far aria! È ora di ripredicare in tutta la loro integrità le verità vecchie, è ora di dire alto e dappertutto che la cooperazione trentina ha da essere impastata di fratellanza e di democrazia cristiana, o non sarà. Molte altre preoccupazioni hanno pesato in questi anni sul nostro capo e la nostra vita politica si è quasi sovrapposta alla nostra vita sociale, assorbendo le energie di iniziativa e di propaganda che prima erano dedicate a quella. Forse, con tutto il benvolere, non potevamo trascinare più lesti lo smisurato bagaglio di cure pubbliche che la rapidità del nostro sviluppo ci ha imposto. Sia; ma oggi sentiamo tutti che bisogna rifarsi un po’ sui nostri passi per riprendere qualche cosa che quasi dimenticavamo per strada: e questa cosa è il carattere della nostra cooperazione. D’esso è indispensabile che si parli ad ogni occasione, che ricompaia come argomento di conferenze, come tema di discussione, come oggetto di provvedimenti. A predicarlo, ad imprimerlo sono chiamati anzitutto quegli organi delle nostre centrali che della cooperazione si occupano espressamente. Non va che si convochino certe adunanze generali semplicemente per addormentarsi o bisticciarsi sulle cifre del bilancio, e che tali assemblee assomiglino piuttosto ad accolte di azionisti che ad adunanze di cooperatori del popolo. Qui troppo spesso la lettera uccide lo spirito. In secondo luogo devono interessare tutti i propagandisti, conferenzieri deputati, come di cosa propria che tocca anche la propria sfera d’azione. Senza dubbio che avanti questi e quelli, sono chiamati alla vigilanza ed alla direzione morale degli amici della causa cristiana che presiedono alle sue sorti nelle sedi stesse delle associazioni economiche. Per questo appunto l’autorità ecclesiastica, mentre provvide ad impedire l’aggravio di cure puramente commerciali, finanziarie e tecniche, limitandole a necessità di certi luoghi e certi momenti, con altrettanta energia insistette perché il clero dovunque e senza eccezioni prodigasse anche alle società economiche la forza morale ed il lume intellettuale che gli devono venire dalla sua missione modernamente compresa ed integralmente compiuta.
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21911-1915
Alla Camera francese continua la discussione articolata sul progetto di riforma elettorale colla proporzionale. Abbiamo già riferito che il principio della R.P. è stato accolto con 300 voti contro 230. Gli oppositori siedono sui banchi dei radicali e dei radico-socialisti, costituiscono cioè il blocco giacobino della sinistra borghese. Ma nella discussione articolata gli avversari riprendono ogni giorno l’offensiva, tanto nella commissione parlamentare che nelle sedute plenarie. In questi giorni arde la battaglia intorno alla questione dei resti. È noto che il Briand per ammansare l’ala radico-repubblicana aveva attenuato il principio della proporzionale introducendo nel progetto il cosidetto premio di maggioranza. Le frazioni cioè di voti che rimanevano, dopo l’assegnazione dei mandati alle liste, venivano senz’altro ascritte alla parte più forte. Era insomma una proporzionale fino ad un certo punto. Poincaré assunse l’eredità di Briand, ma contro di essa si appuntarono le opposizioni dei proporzionalisti puri, cosicché ora alla camera la battaglia è impegnata vivissima intorno agli articoli 21 e 22 del progetto i quali trattano appunto la vexata quaestio. Lunedì parve molto significativa una votazione avvenuta su di una proposta Jaurès (proporzionalista puro) che tentava una via di mezzo nell’assegnazione dei resti. Jaurès colse solo 283 voti contro 240; il che vorrebbe dire che lungo la discussione sui resti i proporzionalisti stessi non sono più compatti. L’opposizione invece si mantiene tenacemente avversa allo scrutinio di lista. Sono i partiti che temono di perdere colla proporzionale una maggioranza fittizia. Lo strano è però che l’opposizione a questo progetto è in generale la parte più fedele al ministero, cosicché Poincaré si trova in un bell’impiccio. Sembra anzi che mercoledì sera nella commissione parlamentare Poincaré abbia voluto predisporsi per un’eventuale ritirata. Egli ha affermato che non intendeva insistere su una riforma che fosse invisa a una parte notevole della maggioranza repubblicana. Jaurès in seno alla commissione parlamentare rispose subito a Poincaré che considerava stranissimo il contegno suo. – Da oltre un secolo – egli disse – in tutta la storia parlamentare non esiste nulla di più paradossale, e confesso che sono profondamente turbato. Non si è mai veduto che una minoranza debba prevalere in un dibattito. Non si è mai assistito ad un Governo che esamina la qualità dei voti invece di considerarne il numero. Poincaré rimbeccò: – Che cosa accadrebbe se si dovesse porre un altro problema: sarebbero forse l’estrema Destra e la Sinistra a sostenere il Governo? – No, il Governo sarebbe semplicemente rovesciato, ma in forma costituzionale. I giornali che come il Temps e il Journal des Débats hanno propugnato la riforma, non esitano a dire che l’insuccesso di questa potrebbe condurre alla rovina lo stesso regime repubblicano. Il Temps infatti sostiene che la riforma è voluta dal paese, e che alle prossime elezioni il partito antirepubblicano, facendosi paladino della riforma stessa, potrebbe trionfare alle urne. Un telegramma dell’agenzia ufficiale bulgara annunzia da Sofia che la sobranje accolse definitivamente il progetto del governo che introduce la riforma proporzionale per le elezioni parlamentari.
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Riprendiamo la penna in mano di malavoglia, come persona stanca e sfiduciata. È proprio vero dunque, che non rimarranno altri argomenti che quelli di una lotta a corpo a corpo, che gli appelli al senso di equità, al sentimento cristiano della giustizia, ai dettami della sana ragione, al concetto stesso dell’interesse dello Stato saranno parole gettate al vento? Una tale domanda siamo indotti a fare leggendo la già citata dichiarazione ufficiale della «società popolare tirolese» (Volksbund). Ricordate? L’ultima fase della germanizzazione venne inaugurata da noi con i proclami rohmederiani. Quella sigla greca (rho) che compariva ora nell’uno ora nell’altro giornale della provincia, ma anche in diversi periodici esteri, non escluso l’organo del neo paganesimo monacense la «Jugend», sembrò da prima il contrassegno di una mente fantastica che volesse trapiantare nelle montagne tirolesi il fiore esotico di un romanticismo nazionale. Nel Tirolo, nel sacro Tirolo, non soffiava aria per codesta pianta. Il richiamo alla leggenda ed alla mitologia germanica per coonestare la rigermanizzazione pareva sì lontano dall’animo popolare tirolese, che nessuno poteva prevedere vi trovasse un’eco amichevole. E pure la speranza della germanizzazione incominciò ad accarezzare certi orecchi incauti. Quando la propaganda orale si fece più viva e più insistente, il terreno era ormai dissodato. Tuttavia la messe non sarebbe stata così copiosa, se i promotori non avessero attuato un altro piano. Essi compresero che in fondo alla psiche tirolese era radicato il senso del patriottismo dinastico-militare ed il concetto politico dell’unità provinciale. Risolsero perciò di sfruttarlo ai loro scopi, cosicché il Volksbund apparisse entro la terra tedesca la concentrazione del tirolesismo puro e conservatore. Lo scopo però, il campo vero d’azione non è nella terra tedesca, ma fuori, nella terra italiana, in terra d’altri la meta rimase la germanizzazione nel Trentino. Mentre nelle città e nei borghi del Tirolo si fondavano gruppi in nome del patriottismo domestico e per un’azione d’interiore consolidamento nazionale, gli stessi uomini presentandosi in nome dello Schulverein generale o austriaco, della Südmark o del Volksbund e facendo agire ora l’una o l’altra società, come sembrasse convenire, svolgevano nel nostro paese, in terra italiana, quella che da noi fu detta azione volksbundista. Nei calendari del Volksbund stesso troviamo disegnate le tappe dei germanizzatori. Fatta eccezione per sei paesi (Mocheni e Luserna) per i quali in parte e se mai si potranno allegare ragioni di «difesa nazionale» , sono ancora altri ventinove luoghi del Trentino, nei quali le pubblicazioni ufficiali del Volksbund segnano propri gruppi. Questi paesi sono e vennero sempre considerati come prettamente italiani. (Bosentino, Brentonico, Caldonazzo, Campitello, Canazei, Canezza, Cappella di Lavarone, Casotto, Folgaria, Grumo, Levico, Monte Sover, Ospedaletto, Pedemonte, Pergine, Serso, Tenna, Vallarsa ecc. ecc.). In moltissimi altri paesi la fondazione del gruppo fu tentata, ma non riuscì. Ora noi non staremo a considerare lo stato reale di questi gruppi. Se l’autorità politica facesse il suo dovere, dovrebbero essere scomparsi formalmente quasi tutti, perché molti danno qualche rarissimo guizzo di vita sociale, altri nessuno affatto, altri ancora nacquero morti. Ma di essi sta il fatto che in una forma o nell’altra tentarono di raggiungere lo scopo che il Volksbund si prefigge, cioè la germanizzazione. Noi non abbiamo mai sentito e nessuno l’ha sentito mai che codesti gruppi coltivino in modo particolare il patriottismo austriaco o facciano manifestazioni per l’unità provinciale. In realtà essi sorgono, motivano ed attaccano la loro esistenza alle «scuole tedesche». Ma nemmeno l’imparare il tedesco è lo scopo ultimo. A questo nessuno s’opporrebbe. Ma non è il tedesco che si vuole, è il tedeschismo, concepito come odio contro quanto sa di italiano. Non si tratta di acquistarsi la cognizione di una seconda lingua, ma di spiantare quella materna, di cassare la nazionalità italiana. Come si guadagnino, in molti paesi almeno, alcuni aderire ad un tale programma nessuno che ha seguito le nostre pubblicazioni dal 1905 in qua, sarà più in dubbio. L’emigrazione, la ignoranza, promesse di danaro e di pagare i debiti delle chiese, delle scuole, promesse di lavoro in terra tedesca, codesti sono tutti fatti che, mano mano, siamo venuti rilevando il fatto però caratteristico e significantissimo è che la maggior parte di codesti gruppi volksbundisti, fatte le debite eccezioni, si compongono delle persone più rozze, più violente e meno oneste del paese. Il Volksbund le ha come chiamate a raccolta, le ha opposte al prete, al maestro, alla maggioranza del paese. La «società popolare tirolese» è divenuta qui in realtà la società internazionalista ed anticlericale. Questo s’è visto non solo nelle manifestazioni elettorali, ma già prima, innanzi ancora che il clero si ritenesse in dovere di uscire dalla sua riserva. Per il suo spirito la pace dovette esulare. Prendete l’esempio più drastico, Roverè della Luna . Chi vi darà un catalogo completo degli atti di violenza, delle discordie, delle baruffe notturne, delle dimostrazioni, delle vendette, dei processi accaduti per l’impulso volksbundista? Il volksbundismo porta con sé dove attacca, una degenerazione della morale pubblica. È come la fermentazione degli istinti rozzi e malvagi che la Chiesa e la scuola tenevano indietro. Poiché il volksbundista vero, al quale si è insegnato che, fuori di lui, dilaga l’irredentismo dei signori e dei preti, il volksbundista che riceve gratis la Difesa del Tirolo, in cui un rinnegato insulta la propria nazione tutti i giorni e bestemmia il suo Vescovo, denunciando a destra e a sinistra, non si fermerà innanzi a nessuno. Che importa a lui del Vescovo di Trento? Curati italiani non ne vuole, ma andrà a prendersi un prete tedesco. Basterà mandarlo a dire alla direzione centrale. Cose accadute! Breve: volete conoscere il volksbundismo nei suoi effetti? Confrontate lo stato di un paese quando non vi fu, con quello quando vi entrò o vi affacciate alla mente il caso, pure avvenuto in senso inverso. Di fronte a questo movimento la nostra autorità ecclesiastica procedette con la massima cautela. La riserva fu tanta che, mentre da una parte essa veniva accusata di favorire il volksbundismo, dall’altra si rilevava con una certa compiacenza che il clero pareva essere neutrale. Anche questa è storia di ieri. Nessuno in realtà aveva ragione di elevare accuse o coltivare speranze. L’autorità ecclesiastica osservava come nel nostro paese venissero applicati gli statuti del Volksbund e quale azione intendesse svolgere, ecco tutto. La sua riserva durò a lungo, finché non vi poté essere alcun dubbio che nel volksbundismo andava sviluppandosi un movimento dello spirito popolare che danneggiava il sentimento religioso, le tradizioni del buon costume, la benefica influenza del clero. In quei momenti, quante volte noi, dalle colonne di questo giornale, abbiamo fatto appello ai cattolici tirolesi perché venissero sul luogo a controllare la triste verità delle nostre asserzioni! Furono parole al vento. Intanto s’imponevano ancora altre considerazioni. L’azione scolastica del Volksbund non poteva lasciare indifferenti i rappresentanti della Chiesa che della scuola per diritto e per tradizione sono chiamati ad interessarsi in generale dell’educazione, in particolare dell’insegnamento religioso. La Chiesa ha qui pieno diritto d’intervenire ed è nel suo campo. S’aggiunse che a San Cristoforo e a San Martino furono constatati formali tentativi di costruire chiese protestanti e che nella Burg Persen era comparsa l’effige di Martin Lutero. Sono le stesse persone in gioco, gli stessi attori: questa è la realtà: il cambiamento di ditta non conta. Dopo tutto ciò e dopo avere esperito tutte le forme private di persuasione e le vie indirette di disapprovazione, il nostro principe Vescovo in un pubblico telegramma agli studenti cattolici disse alta ed aperta la sua condanna per l’azione del Volksbund nel nostro paese . Fu nel suo diritto? Non si mantenne egli nel campo della sua competenza pastorale? Nessun cattolico, nessuno che non sia imbevuto di dottrine anticristiane può dubitarne. Infatti i cattolici tirolesi in pubbliche dichiarazioni parlarono in senso cristiano. La direzione del Volksbund batté altra via. Dopo essersi rivolta impudentemente al principe Vescovo quasi a chiedergli conto del suo operato, ufficialmente tacque. Ma i suoi portavoce nella stampa liberale tedesca vomitarono invettive e calunnie. La Tiroler Wehr ricoprí la sacra persona del nostro Pastore di insulti triviali, la Meraner Zeitung diramò ai gruppi del Volksbund un suo articolo pieno di livore contro il «welscher Bischof». Alla campagna della stampa si aggiunsero le dimostrazioni. Non solo il criterio del cui prodest? ma anche tutto il modo ed il contenuto dell’attacco ci rivela che esso viene da gente molto vicina alla – direzione del Volksbund. Questa però pubblicamente se ne sta zitta, finché la scoperta d’una circolare in cui si chiedeva ai «völkische Vereine» esteri ed austriaci, comprese la Südmark, lo Schulverein (e perché no la Lega evangelica?) i denari per far la guerra al Vescovo di Trento non provocò una protesta unanime della stampa cattolica . Allora la direzione dovette levarsi la maschera ed uscire dall’incognito. Ma avete sentito come parla? Più dignitosa e più corretta nella forma, essa per il contenuto ripete quello che con meno riguardi, ebbe a dire la stampa ai suoi servigi. Nel primo punto dichiara di doversi difendere dagli attacchi del principe Vescovo. La storia è là per provare, viceversa, che il principe Vescovo prese la parola per protestare contro i continui attacchi del Volksbund nel nostro paese. La direzione aggiunge che gli «attacchi» del Vescovo erano ingiustificati. La storia invece è là per gridarvi che il Vescovo parlando compì un suo alto dovere, in difesa della giustizia. Nel secondo punto la direzione del Volksbund nega che il Vescovo abbia agito nella sua sfera d’azione, affermando che «il lavoro di difesa nazionale, le relazioni tra direzione e gruppi, l’istituzione di scuole tedesche e corsi di lingua non appartengono alla sfera dell’amministrazione del culto e della cura pastorale». In questo capoverso quindi la direzione si arroga il diritto di determinare a suo talento la sfera d’azione dei vescovi non solo, ma di escludere dalla loro giurisdizione e dalla loro influenza scuole ed insegnamento. Questo punto è quindi in perfetta e recisa contraddizione con la dottrina cattolica. Passiamo sopra al supposto «lavoro di difesa nazionale». Abbiamo già prima dimostrato in che cosa da noi esso consista. Più oltre è detto che la nota circolare ai «völkische Vereine» venne spedita in seguito a deliberazione unanime presa dalla direzione il 18 gennaio ed in presenza anche di rappresentanti conservatori e cristiano-sociali. Abbiamo già scritto che a tale asserzione, fino a prova in contrario, non vogliamo prestar fede. Probabilmente si gioca sull’equivoco. Si sarà deciso di fare la colletta, ma non è ammissibile che cattolici tirolesi abbiano aderito a raccogliere denari per una azione contro un Vescovo della provincia. È più probabile che i cattolici siano stati gabbati. Ad ogni modo, noi attendiamo una dichiarazione esplicita. Infine la direzione si vanta d’essere stata finora riservata e di non aver risposto agli attacchi avvenuti. Un bel merito! La direzione ha fatto ciò non per rispetto al Vescovo o per riguardo ai cattolici, perché in tal caso avrebbe taciuto anche la sua stampa, ma perché il silenzio giova alla sua tattica di addormentare i cattolici. Quando si ha il torto, non mette conto del resto di fare schiamazzi. La dichiarazione chiude esprimendo la speranza che il buon senso della popolazione tirolese presterà intera fede al Volksbund e non si lascerà turbare da travisamenti del vero stato delle cose. Con un simile appello – e sarà l’ultimo – vogliamo chiudere anche noi. Noi speriamo ancora che il buon senso del popolo tirolese, il sentimento cristiano della maggioranza finirà col prevalere. Noi speriamo ancora che nessun cattolico vorrà condividere la responsabilità di una lotta contro il suo Vescovo, che nessuno approvi o tolleri con il suo contegno e con la sua opera che la direzione di una società apparentemente neutra predichi e dia effetto a principii che sono liberali e contrari alla dottrina cattolica, come quelli che più sopra abbiamo illustrato. Noi confidiamo ancora e vogliamo ripetere quest’ultima parola in nome della verità e della giustizia. Se c’ingannassimo, vorrebbe dire che il Tirolo, in cui vennero combattute sì aspre battaglie per la purezza dei principii, sta perdendo le ragioni che nell’ultima evoluzione dei tempi lo contraddistinsero fra tutti i paesi del mondo.
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21911-1915
Vienna, 19. A breve intervallo di tempo dalla conferenza sociale dello studente Susat, ecco la conferenza dello studente Ruatti già noto ai lettori del Trentino per le sue note solarine. Una conferenza storica e patriottica: Un triste anniversario. È stato – il 14 marzo – il II anniversario della esecuzione della pena capitale di quattro giudicariesi, rei di aver partecipato, come capi, alla tumultuosa distruzione del dazio di Tempesta a Riva il 19 agosto 1768. Il conferenziere, forte di storia patria, ci fece rivivere quei giorni calamitosi del nostro Trentino; fece passare un brivido nell’anima colla narrazione delle soperchierie dei conti del Tirolo e dei soldati di Maria Teresa e di Giuseppe II nei paesi che venivano tolti, coi fatti prima che coi colpi di legge, al Principe Vescovo, impotente a proteggere i nostri avi dalla ragion della forza degli usurpatori. La decapitazione del 14 marzo 1772 fu l’episodio, non unico né ultimo, saliente della repressione crudele del malcontento incomposto, se si vuole, ma giustificato di fronte alla dannosa imposizione di dazi da parte del governo. Ricollegò quei fatti così eloquenti di allora colla iniqua lotta dei pangermanisti e in generale del Volksbund in particolare, contro il Vescovo di Trento e invitò con forti parole gli ascoltanti a stringersi intorno al pastore, con la coscienza attiva di italiani e cattolici serbando fede alla religione e agli ideali dei nostri padri. Fu applauditissimo. E gli applausi raddoppiarono insistenti quando il presidente invitò a parlare l’on. Degasperi. Come si sa il d.r Degasperi parla agli operai, al nostro popolo: semplice, affettuoso, forte. Ricordò, ricordò le prime conferenze fatte da lui, iniziate da lui e dai pochi colleghi di allora agli emigrati trentini a Vienna; ricordò l’entusiasmo di allora, c’era un accento di amore nostalgico nelle sue parole. E poi parlò della vera cultura spirituale che consiste, non, o non principalmente, nel seguire e nel partecipare ai comodi materiali del progresso materiale; finché è incatenata alla materia l’anima è fredda, insoddisfatta, se la materia, cioè tutto il complesso dei progressi materiali, non vengono guardati con l’occhio dello spirito, che ha bisogni e finalità che il tempo non può soddisfare. La vita morale, la vita religiosa, sentite, vissute, armonizzate, fanno progredire l’uomo e danno un significato al lavoro quotidiano; il resto, scompagnato da quelle due vite, o da quei due palpiti di una sola vita, sono poco più che un miraggio. Lontani dal Trentino o vicini al paese che li ha educati alla religione, i nostri fratelli devono crescere, sviluppare quella prima educazione, sviluppare e alimentare le loro opere, l’amore alla chiesa del paese natale e al Trentino, che lotta per la tutela della religione e per la difesa della nazionalità. L’on. Degasperi, richiamandosi ai fatti recenti, aggiunse che l’odio anticlericale vive ancora nel nostro paese; che vi sia chi lo attizzi è prova recente la tentata propaganda dell’on. Podrecca. Io sono d’avviso che di fronte a siffatta propaganda i cattolici devono intensificare la propria. Tutto il male non viene per nuocere ed è preferibile che qualche corifeo del socialismo parli nel Trentino un Podrecca piuttosto che un propagandista all’acqua di rose. Le intemperanze anticlericali risvegliano le coscienze indifferenti e disingannano gli illusi. È da codesto cozzo oramai inevitabile delle idee e delle tendenze che i cattolici devono saper trarre una conoscenza realistica delle nostre condizioni morali e intellettuali: evitarlo oggi o riuscire a soffocarne l’urto domani è forse cullarsi in un sogno che non è più realtà. Interrotto spesso da applausi e da «bene, bravo» alla fine l’oratore fu fatto segno a una ovazione scrosciante. A una parola del presidente tutti si alzarono in piedi a segno di ringraziamento al simpatico deputato. Anche il 17 marzo fu così, un giorno di utile contatto fra studenti e operai, un altro passo in avanti verso l’unione, in una sola forza sociale, del lavoro e della scienza.
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Con richiamo alla polemica di principio sollevata dall’Alto Adige, ci è parso opportuno stampare qui un brano della relazione del dr. A. Degasperi ancora nel congresso dell’Associazione universitaria del 1910 , e precisamente la parte essenziale del capitolo che tratta del liberalismo e tenta in concreto un’analisi dei suoi principii come si sono svolti da noi e dell’atteggiamento assunto dalla dottrina e dal movimento nel Trentino. L’oratore rilevava dapprima i fatti che ci dimostrano, anche in mancanza di una formulazione precisa, come il liberalismo trentino sia una localizzazione del liberalismo universale. Di fronte alle recenti dichiarazioni programmatiche dell’Alto Adige ci pare che l’introduzione si possa omettere. Con questa risultanza generale però dell’esistenza nel Trentino del liberalismo quale venne predicato e praticato nel secolo XIX in tutto il mondo, noi abbiamo guadagnato ben poco per poter giudicare la vita pubblica, come si svolge nella realtà che ci circonda. Ci conviene vedere come esso si manifesti in concreto tra gli uomini che più o meno coscientemente lo abbracciano. Viene in prima linea il liberalismo dei socialisti e di coloro che è convenuto chiamare socialistoidi o socialisti borghesi, perché del socialismo hanno assunto il radicalismo intellettuale, ma non i principii economici. Ci troviamo qui vicinissimi alle scaturigini della corrente: la ragione e la volontà individuali sono completamente indipendenti da ogni legge divina ed umana, ecco il razionalismo puro formulato da Kant nell’«Autonomia della ragione pratica»: unica sorgente dei poteri pubblici è la volontà collettiva del popolo; ecco il naturalismo sociale e politico insegnato nel Contratto sociale del filosofo ginevrino. Subito accanto a questo primo gruppo segue la gioventù studiosa radicale. Costoro, per effetto dell’educazione avuta in famiglia o nelle scuole medie, si fermano in genere a mezzo. Ammettono volentieri una morale laica, superiore alla volontà dell’individuo e del popolo; ma si proclamano entusiasti cavalieri delle libertà: libertà di pensiero che libera dalle verità religiose, dallo storico, dal tradizionale; libertà di coscienza, santa parola, ma condotta a dire ribellione alle leggi che fluiscono dalla morale religiosa e alla rivelazione positiva. E qui è caratteristico per l’adulterazione del significato delle parole, prodotta universalmente dal liberalismo, la falsa interpretazione che da noi s’è voluto dare ad un verso dantesco. I fondatori della Società studenti trentini hanno scelto quale motto fatidico il verso 71 del primo canto del Purgatorio: Libertà va cercando, ch’è si cara e nelle feste e nelle dichiarazioni solenni essi o i loro successori parvero richiamarsi all’autorità dell’Alighieri, quando proclamarono la liberazione dalle pastoie del dogma e mandarono il loro plauso ai congressi del libero pensiero. Niente di più falso. Per violentare in tal maniera il poeta della commedia divina conviene essere o supinamente ignoranti o molto sfacciati. Il verso infatti è detto da Virgilio e riferito da Dante, il quale va cercando nel suo simbolico pellegrinaggio la liberazione dall’errore e dal peccato. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca (Inf. XVI, 61-62) Ed è appunto il duca che ha il compito non solo di trarlo dalla selva dell’errore e del peccato, ma anche di mostrargli gli effetti di entrambi, perché tale visione gli risani la volontà e lo liberi dall’inclinazione al male. Così che, ad opera finita, nel momento d’abbandonarlo, Virgilio riassumerà il risultato ottenuto, dicendo: Non aspettar mio dir più né mio cenno Libero, dritto e sano è tuo arbitrio, E fallo fora non fare a suo senno (Purg. XXVII, 139 ss.) La libertà che Dante andava cercando, è dunque trovata. Ma è forse la libertà dei «liberi pensatori»? No, è la libertà cristiana, la libertà morale. Certo, noi siamo fisicamente liberi, padroni cioè di determinarci nei nostri atti senza che alcuna forza estrinseca possa rubarci questa libertà. Questa libertà fisica o libero arbitrio è appunto quella che il Poeta chiama Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando... (Par. V, 19 s.) Noi siamo liberi, sovrani nella solitudine del nostro io, ma non indipendenti nel senso che per tale libertà abbiamo diritto di ribellarci all’autorità della nostra coscienza interprete dell’ordine eterno ed illuminata dalla fede. Come l’occhio se vuole percepire la luce deve seguire le leggi dell’ottica, così la mente, se vuole che la conoscenza corrisponda alla realtà, deve seguire la legge del pensiero, che è la verità. In questo senso è scritto che «la verità ci farà liberi» (Giovanni VIII, 31). Libertà di pensiero non si può quindi raggiungere che cercandola nella lotta contro l’errore, e la libertà di coscienza addestrando la volontà contro il male, fino che il nostro arbitrio sarà Libero, dritto e sano. C’è quindi da temere che la Società studenti trentini, cercando la libertà per altre vie non la trovi affatto. Ma queste audaci inversioni che diventano i motivi musicali del liberalismo festaiolo e banchettante non sono gli elementi costitutivi del liberalismo nostrano nella pratica quotidiana, né ci danno le formule usuali su cui insistono nella vita pubblica. In essa si limitano per la maggior parte ad affermare che conviene distinguere l’uomo privato dall’uomo pubblico, concedendo che il primo possa seguire le verità e la morale religiosa, «nach seiner Façon selig werden», diceva Federico II, ma pretendendo che il secondo vi astragga completamente. Siamo ormai sul terreno insidioso dei compromessi e degli equivoci. Tale teoria dello sdoppiamento si può derivare logicamente da tutto il sistema, ma per mio conto propendo a ritenere che sia stata inventata per coonestare un fatto storico. È noto che quando il liberalismo divenne principio di governo e i liberali furono saturati di potere vollero dimenticata la tendenza rivoluzionaria insita nel principio liberale individualista e s’affrettarono a sostituire al principio della libertà personale il principio della libertà universale. Se prima la fonte di ogni diritto era l’individuo, ora che i liberali erano al governo, la fonte di tutti i diritti diventava lo Stato ossia la volontà universale della maggioranza. È questo l’esprit bourgeois dei liberali alla Luigi Filippo, esprit che si diffonde in tutta l’Europa e che penetrò anche da noi, per quanto nel Trentino, per la posizione nostra di fronte allo Stato, non possa allignarvi che come pianta esotica. È liberalismo d’importazione. I liberali di questo periodo ebbero la fortuna di trovare anche la loro teoria nella filosofia del diritto di Hegel che tentò di legittimare la più assoluta statolatria. Senonché nelle realtà sociali lo Stato specie nei paesi latini si trovò di fronte la Chiesa col suo diritto divino e col suo possesso storico. I liberali d’allora cercarono quindi formule di transazione le quali, salvando l’assoluta sovranità dello Stato, sembrassero per gli spiriti superficiali, contenere il rispetto e l’intangibilità dei diritti altrui. Ed eccovi la formula cavouriana: «Libera Chiesa in libero Stato», che Luzzatti recentemente interpretò: libere religioni in Stato sovrano ed alla quale con tanto entusiasmo aderì l’organo del nostro partito nazionale liberale. Ora è chiarissimo che la formula Cavour-Luzzatti equivale a dire: lo Stato come tale è ateo; il cittadino, come cittadino, è religiosamente indifferente. Di qui il principio dello sdoppiamento dell’individuo che ingannò tanta buona gente la quale non s’accorse della sua assurdità. Ma intanto la formula che, ripeto, a taluno poté apparire il suum cuique conteneva i germi di tutta la politica antiecclesiastica ed antireligiosa che si svolse negli ultimi cinquant’anni. L’indifferentismo in materia religiosa venne applicato a tutta l’organizzazione sociale, l’ateismo legale e politico non riconobbe alcun legame religioso (matrimonio civile, divorzio) e si attuò la separazione fra lo Stato e la Chiesa non nel senso di modificare una posizione storica, ma di diminuire o soffocare i diritti ed il possesso della Chiesa. Ed eccoci d’altro canto alla figliazione diretta del socialismo con la sua formula classica: La religione è cosa privata. Ora che cosa dicono tutte queste formule, se non che la politica va separata dalla morale, o almeno da una morale con sanzione certa, com’è la religiosa? E non basterebbe questo corollario disastroso per dimostrare la falsità di tutto il liberalismo? Quid leges, sine moribus? domandava già Cicerone. Ma la storia s’è già incaricata di dimostrare l’ipocrisia di tutte le formule di transazione. Di fatto i liberali al potere in nome dello Stato sovrano divennero monopolizzatori ed oppressori di tutte le libertà più sacre. Negarono ai genitori il diritto di educare i propri figlioli ed arrogarono allo Stato l’esclusivo diritto di insegnare e di stabilire che cosa si debba insegnare. E se opponete loro i principii di libertà individuali che essi dichiararono già assoluti e il diritto familiare e del sangue, vi risponderanno come l’on. Bertolini alla Dieta, che non la famiglia ha dei diritti sulla scuola, ma esser la scuola dello Stato che deve, per mezzo dei figli, recar luce alla famiglia. Non esiste dunque la scuola per i cittadini, ma i cittadini per la scuola. Forse l’on. Bertolini non ha letto Platone, ma è certo che egli non ha parlato diversamente dello statista greco quando questo dettava: I padri non devono essere liberi di mandare o non mandare i loro figlioli da maestri eletti dalla città, perché i fanciulli, appartengono prima alla città che ai loro padri (Leggi VII). La ristrettezza del tempo e la vastità del tema m’impediscono qui di entrare più addentro nei meandri della logica liberale e sorprendere le contraddizioni di carattere anche nazionale a cui devono soggiacere i monopolisti dell’insegnamento. Ma non basta dimostrare che il loro liberalismo li riavvicina allo statismo assoluto degli antichi, quasi che la parola di Cristo instauratrice della libertà e della dignità dell’individuo non fosse stata predicata? Ma il liberalismo ormai ci ha ben dimostrato altrimenti il significato vero ed il valore reale delle sue formule di governo. Quando fra Roma e la Germania si svolse la titanica lotta delle investiture, qualcuno poté ritenere trattarsi solo di diritti contrastati ed inerenti al sistema feudale; e quando i principi, poniamo i conti del Tirolo, abusarono della forza per immischiarsi in questioni religiose, trovarono forse un pretesto plausibile nella loro posizione di protettori legali della Chiesa; ma dove sono i pretesti che non appaiano assurdi a prima vista, dove trovare le contestazioni per la lotta anticristiana di Giuseppe II, di Napoleone Primo e dei napoleonidi, di Luigi Filippo e di Bismarck, di Combes e Canalejas? Nessuna retorica per esempio, varrà a legittimare l’atto di violenza che si compie contro il diritto inalienabile delle associazioni religiose. Il nostro popolo lo sente e la sua retta coscienza lo guida a scoprire la verità anche quando si mettono in opera tutte le arti per adulterarla. Quando il dominio bavarese tentò l’asservimento della chiesa tridentina ed il Vescovo era in esilio e parte del clero, preso per fame cedeva e la diocesi di San Vigilio era governata da un vicario che accettava la carica e lo stipendio dal re, mentre ai confini i lanzichenecchi impedivano il passaggio alle lettere di Roma, era il nostro popolo che si ribellava in nome delle sue sacre libertà. Dies irae, gridava il popolo in una canzone popolare del 1808 contro il parroco Tecini , il capo del movimento gioseffinista. Dies irae, il tempo è giunto, O Tecini, in questo punto Che tu dei render conto Quest’è il frutto di tua setta Di tua stirpe maledetta Ch’oggidì la Chiesa infetta... Su questo amore alla libertà della Chiesa, su questo buon senso fondiamo le nostre speranze anche noi nella vita pubblica d’oggi. Anche oggi il popolo sente che il liberalismo non ci dà una base stabile né per il diritto personale, né per il diritto pubblico. «L’esprit bourgeois – diceva già L. Veuillot – nous a jeté dans une perpetuelle et violente oscillation entre deux excès contraires, l’un qu’il appelle autorité, l’autre qu’il appelle liberté mais qui ne sont que deux despotismes. Le milieu, le point stabile serait le droit chrétien». Vero che a proposito di questo «point stabile» gli avversari ci muovono forti obiezioni. Sarà accaduto anche a voi di sentirvi dire: Ammettiamo che il sistema liberale sia falso e ci abbia condotti ad eccessi – ma non incorrete voi nell’eccesso contrario? Come governerete voi, nello stato moderno, applicando il principio del bene assoluto? Non dovrete voi essere liberali a scanso d’inaugurare un regime di violenza e tirannia? E se è vero che oggidì lo Stato prevarica contro la Chiesa, non pretendete voi per il contrario l’assoluto predominio di questa, ristabilendo una insopportabile ierocrazia? È il vostro clericalismo, concludono, che giustifica almeno negativamente il nostro liberalismo anticlericale. Rispondiamo: Noi non siamo liberali, ma siamo e sapremo essere tolleranti. Il liberalismo è una dottrina, la quale suppone la negazione delle verità religiose e sociali, e concede al male ed al bene i medesimi diritti e l’identica protezione; la tolleranza invece è una regola di condotta, è «il rispetto pratico delle convenzioni, che non sono nostre, di quelle convenzioni che la società stessa non potrebbe impedire di manifestare, finché non sono un pericolo per essa». (Lugan, Insegnamento sociale di Gesù, 147) . Il Vangelo, quando consiglia a chi riceve uno schiaffo sulla guancia destra di presentare la sinistra non vuole certo con ciò riconoscere il diritto del percussore, ma suppone che con tale atto di tolleranza si possa conseguire un bene maggiore che con la legittima reazione. Applicate questa norma alla vita pubblica, ed avrete le ragioni della tolleranza civile. A tali ragioni si riferiva de Mun rispondendo nel 1901 ad un discorso di Waldeck-Rousseau, la cui obiezione abbiamo sentito ripetere anche recentemente da L. Luzzatti di contro all’on. Meda. E veniamo alla seconda obiezione. Rispondiamo anche qui: è falso che noi aspiriamo ad un predominio della Chiesa sullo Stato e che deriviamo dalla formazione dei nostri principii nella vita pubblica la giustificazione di una rinnovata teocrazia ed ierocrazia. E come il potremo, se nell’evangelo risuona così chiaro e così preciso il «Date a Cesare quel ch’è di Cesare ed a Dio quel ch’è di Dio»; e se questa distinzione venne comandata a proposito di un Cesare che era ad un tempo Pontefice Massimo e in un impero in cui le autorità politiche volevano arrogarsi il potere religioso? Né si potrà parlare con fondamento di ierocrazia cattolica o cristiana, quando, secondo l’acuta osservazione, di Augusto Comte, una delle innovazioni più ardite e benefiche del cristianesimo fu appunto la soppressione dell’eredità sacerdotale, profondamente inerente all’economia di tutta l’antichità non solo sotto il regime teocratico, ma anche presso gli orientali, presso i Greci e i Romani. Ma concediamo pure che le contingenze della storia abbiano potuto talvolta oscurare la chiarezza della dottrina intorno ai rapporti fra i due poteri: oggi questa venne formulata con tanta precisione e con tanta insistenza da torre ad avversari onesti qualunque ragione di dubitare. Dio ha diviso – scrive Leone XIII nell’Enciclica Immortale Dei – Dio ha diviso il governo del genere umano fra due poteri; il potere ecclesiastico e il potere civile; quello preposto alle cose divine, questo alle cose umane. Ciascuno di essi nel suo genere è sovrano; ciascuno è contenuto in limiti perfettamente determinati e tracciati in conformità con la sua natura e il suo fine speciale. V’è poi, come una sfera circoscritta nella quale ciascuno esercita la sua azione per diritto proprio; iure proprio. E più recentemente ancora Pio X scrivendo ai cattolici tedeschi affermava come «una ben provata esperienza manifesti che la sottomissione dell’azione religiosa alla Santa Sede, lascia a ciascuno libertà illimitata e intatta per tutto quello che non concerne la religione». Dov’è qui la ierocrazia, la supremazia civile del clero, il clericalismo? Certo, poiché le due autorità si rivolgono alla stessa coscienza dell’individuo il minimo che possiamo pretendere dallo Stato moderno, è che non impedisca od ostacoli l’avvicinamento dell’autorità religiosa alla coscienza del cittadino. Vero anche che, presupponendo il bene terreno ed il progresso civile il bene spirituale ed il progresso religioso, chiediamo che la vita pubblica e la politica s’ispirino alla morale cattolica. Per questo appunto nella vita pubblica ci chiamiamo ed abbiamo diritto di chiamarci cattolici. Il «clericalismo» non è che una menzogna convenzionale mantenuta da un movimento che, in mancanza di ragioni positive, intrinseche, si appella alla necessità di una reazione, come giustificazione della sua esistenza. In realtà però gli anticlericali sono nella vita pubblica anticattolici o acattolici, comunque si svolga la loro vita privata, poiché in forza del loro liberalismo tendono per lo meno a separare la politica dalla morale cattolica, anzi a sottrarla all’influsso di questa. C’è ancora da noi una categoria di liberali che protesterebbe con tutta l’anima se noi li mettessimo in tal modo in contraddizione con la morale cattolica. Sono in genere gli ingenui del liberalismo lirico e quarantottesco. Nell’epoca in cui si suonava a stormo contro l’assolutismo, parteciparono anch’essi al movimento, tanto naturale specialmente da noi che uscivamo appena di tutela, come la intendeva il Metternich, e videro nel liberalismo un sistema di maggiore libertà politica e civile e niente più, non avvertendo gli errori che si seminavano e la fatale logica del principio. Di questa ebbero nel Trentino occasione d’accorgersi molto tardi, appunto in causa della reazione statale; mentre invece l’esperimento affrettato della Toscana spingeva il Giusti ancora nel ’47 a correggere il motto semplice ed assoluto di «libertà» nel binomio: «ordine e libertà – quanta ce ne cape!» aggiungendo il commentario che «non intendeva l’ordine cadaverico del maresciallo Sébastiani , cagnotto di Luigi Filippo, e nemmeno l’ordinato disordine che vagheggiano i cervelli arruffati». I nostri non ebbero la fortuna di un tale esperimento; videro invece che il risorgimento politico-nazionale si compiva sotto gli auspici del liberalismo, e non distinguendo il principio e l’essenziale dal transeunte credettero di dover applaudire al liberalismo nello stesso modo e per le stesse ragioni che s’entusiasmavano per il nazionalismo. Subito accanto a questi liberali conservatori collocherei un gruppetto di cattolici, i quali non professano invero il principio del liberalismo, ma assumono tali atteggiamenti di fronte alla vita pubblica moderna, che in pratica è come se lo professassero. Essi peccano infatti di eccessivo individualismo. La loro religione si apparta dalla società. Dicono: Il regno di Gesù non è di questo mondo, e quindi è un errore parlare di Cristo e di Cristianesimo a proposito di vita pubblica e di politica, il ricorrere al Vangelo intorno a tali argomenti è un voler trascinarlo su un terreno profano ed estraneo. Da tali principii deriva o un assenteismo dalla vita pubblica degli uomini religiosi; ed è chiaro che tale assenteismo promuove in fondo la laicizzazione della società, ovvero se questi cattolici parteciperanno alla vita pubblica, privi di principii e di criteri propri in causa della loro religione individualista, crederanno di dover stringere degli equivoci compromessi con i principii liberali o addirittura di dover attenersi a questi. Per fortuna nel Trentino i cattolici di questa specie sono in diminuzione. La maggioranza ritiene che «l’insegnamento religioso di Gesù mira ad un tempo alla socialità ed alla individualità umana» (Lugan 155) e dal Vangelo derivano i principii di governo e di progresso per la società. A tali fonti attinge il cattolicismo sociale. E siccome ancora riteniamo che il moderno movimento democratico con i suoi principii di solidarietà e di eguaglianza civile, in tutto quello che è nobile ed elevato esce dalle viscere del cristianesimo ed ha preso l’andare dalla predicazione della fratellanza e dell’eguaglianza morale, così chiamiamo l’azione nostra entro le moderne correnti della vita pubblica: democrazia cristiana.
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21911-1915
«Tutto fa credere che i partiti non clericali viennesi stavolta, riusciranno a dare il colpo di grazia alla cricca cristiano-sociale già decimata nelle elezioni politiche generali. È da credere che stavolta i liberali riusciranno a strappare Vienna ai cristiano-sociali. La vittoria liberale sarebbe un avvenimento di grande importanza politica per tutta l’Austria perché sniderebbe una pericolosa compagnia di politicastri da una delle sue più formidabili rocche». Alto Adige, 23-24 apr. Il profetare in politica è un mestiere cane. Non vorremmo quindi riversare sull’Alto Adige un facile scherno, ora che le elezioni viennesi hanno disilluso completamente i riconquistatori di Vienna. Il risultato fu superiore a tutte le aspettative più rosee dei vincitori stessi. Ma il rilievo va fatto per un’altra ragione. Il giornale liberale di Trento, anche nell’epoca del moderatume resipiscente, ha mantenuto nella collaborazione dal di fuori l’intonazione dei bei tempi democratici. Osservate appunto a mo’ d’esempio il caso di Vienna. Noi non nutriamo soverchie simpatie per molte persone del partito viennese, né abbiamo mai espresso per loro o per la loro attività una solidarietà incondizionata. C’è poi in generale il loro indirizzo di politica estera che non solo contradice al nostro, ma talvolta ripugna ai nostri sentimenti. Tuttavia anche noi come tutte le persone di qualunque partito che vengono dal di fuori e statuiscono a Vienna un confronto fra la vecchia amministrazione e quella dell’epoca luegeriana , dobbiamo anzitutto ammettere la moderna grandiosità, la magnifica politica amministrativa dei cristiano-sociali. Potremmo qui fornire i dati esatti e le cifre precise ma non lo crediamo necessario. Tutti gli uomini del Trentino che hanno una certa esperienza delle amministrazioni pubbliche ed hanno avuto occasione di conoscere quella Vienna testimonieranno in favore della nostra convinzione. È vero che dove non arriva la cognizione de visu la fama non esiste. Ma questo è colpa della stampa semitica, la quale ricopre di silenzio o di calunnia l’azione dei seguaci dell’antisemitismo. Ciò non affermiamo semplicemente noi, ma dichiarò un celebre storiografo, il presidente del congresso storico internazionale di Vienna, due anni or sono, quando rivendicò alla storia il compito di rendere giustizia ad un’amministrazione ignorata o infamata dall’odio delle effemeridi. Un altro senso di simpatia, e fino ad un certo punto di solidarietà dobbiamo provare, quando consideriamo la lotta dal punto di vista dei principi. I cristiano-sociali potranno avere avuto fra tanti anche persone di convinzioni poco profonde, ma rimane pur vero ch’essi difendono la scuola cristiana e la morale pubblica nella metropoli austriaca dagli attacchi quotidiani della miscredenza, della massoneria, del socialismo ateo, degli ebrei e degli ebreizzanti. Ed è vero ancora che i cristiani meno sinceri abbandonano nei momenti di pericolo il loro campo e vengono accolti in trionfo nella coalizione avversaria. Tutto questo ci pare il minimo che ai cristiano-sociali debba venir concesso da ogni galantuomo che sia in grado di giudicare la cosa spassionatamente. L’Alto Adige ha invece manifestata tutta la sua solidarietà con gente dell’altra sponda, compromettendo o caratterizzando il suo liberalismo col comprendere sotto questo nome le tendenze degli anticristiani viennesi. Esistono a Vienna delle correnti di mezzo le quali pur sgorgando dal liberalismo come principio politico-religioso non si contengono negli argini del liberalismo ispirato dalla stampa ebraica e massonica. I tedeschinazionali, i tedeschi-sociali, i tedeschi-economici combattono e cristianosociali e liberali di vecchio stampo. Questo fatto almeno avrebbe dovuto trattenere l’Alto Adige dal discoprire le sue simpatie per il liberalismo ghettaiuolo. Ma no; in tutta la campagna il giornale di Trento si contenne da quel bravissimo nipotino della Neue Freie Presse che abbiamo conosciuto altra volta; descrisse, giudicò e vaticinò stampa del capitalismo ebraico. Scrisse dei cristiano-sociali: «Hanno un bel tentare di magnificare la loro amministrazione proclamandola... la più perfetta del mondo: la popolazione viennese ride ed ode con compassione l’anfanamento degli sconfitti del giugno». E più sotto: «NO! essi hanno dovuto affrontare la campagna elettorale solo col denaro fornito da qualche ricco monastero e con quello ricavato da certe sospette transazioni comunali. Del “successo” della loro amministrazione e della loro politica faranno bene a tacere». Dell’immensa corruzione liberalesca, dello sfruttamento della cricca ebraica lo scrittore dell’Alto Adige non vede ombra. Ignora che durante la campagna stessa i deputati tedeschi radicali Seidl e Wiehtl, benché nemici dei cristiano-sociali, si sono sentiti in dovere di protestare contro le infamie della stampa ghettaiuola, ed a riconoscere i meriti dell’amministrazione; e dall’altro canto chiama semplicemente frasi vivaci le ingiurie di uno Zenker contro il matrimonio cristiano. Ma polemizzare è inutile. Diamo la parola all’eloquenza dei fatti. La Presse scriveva alla vigilia delle elezioni del secondo corpo: «L’intelligenza ha la parola! L’intelligenza giudicherà. A lei possiamo affidare tranquillamente il giudizio su ciò che è bene per Vienna». E intelligenza è venuta. L’intelligenza ha eletto di primo colpo 32 cristiano-sociali e nei ballottaggi di ieri i liberali non salvarono che due mandati della Leopoldstadt, il noto quartiere ebraico. Notevole è che appunto i 66mila elettori del secondo corpo abbiano dato una tale risposta e che nel secondo giorno ai cristiano-sociali si siano aggiunti anche i tedeschi nazionali per renderla ancora più espressiva. È la protesta contro una stampa, la cui perversità rimane un unicum in tutta Europa, uno schiaffo alla disonestà giornalistica, al brigantaggio della penna, alla corruzione della parola, la quale stampa nell’eccesso di rinnegare la verità e di calunniarla, ha questa volta evocato nuovi campioni a difenderla.
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21911-1915
Il ministero bavarese ha commesso il grave delitto di interpretare con spirito più largo la vecchia legge di persecuzione contro i gesuiti, votata nel 1872. Ai gesuiti, secondo quest’interpretazione dovevasi concedere la libertà di tenere, se non delle missioni religiose, almeno delle conferenze sociali. La circolare, com’è noto, ha sollevato un grande rumore. Le oche capitoline della grande stampa liberale hanno fatto un enorme schiamazzo. Trattare i gesuiti non ancora come gli altri cittadini, ma avvicinarli al diritto comune, permettere che un uomo, anche se vestito da gesuita, possa parlare in pubblico e predicare le sue convinzioni cristiane, è cosa che può scuotere l’opinione di tutta la grande Germania. I vindici della libertà di pensiero, i corifei del liberalismo sono corsi ai ripari, ed il telegrafo ha descritto l’attacco combinato di tutte le frazioni liberalesche. Nella Camera bavarese il barone Hertling si è salvato con l’appello al Consiglio federale, ma la discussione s’è allargata al Parlamento dì Berlino. D’una prima interpellanza abbiamo riferito altra volta ed oggi i nostri telegrammi annunziano che la grande questione venne risollevata al capitolo rispettivo del bilancio. Si tratta naturalmente di illecite invadenze degli «oltremontani», si tratta di respingere gli assalti del «clericalismo». Tutte le frasi del Kulturkampf, tutti i folli pregiudizi, tutte le più sciocche storielle sul conto dei gesuiti vengono rimesse in corso per puntellare una legge mostruosa, la quale colpisce una classe di cittadini in causa delle loro convinzioni e per la loro missione religiosa. Sono dottori, sono avvocati, sono industriali, commercianti, giornalisti, mitingai che sono venuti su tra la generazione contemporanea, scaldati dal sole della libertà dei tempi nuovi. Sono figli della democrazia che, in nome della più assoluta eguaglianza, pretende completare il vangelo di Cristo, sono gli uomini che hanno voltata la schiena a tutto il passato, al Medio Evo della schiavitù, ai secoli dell’ignoranza, e guardano all’avvenire con la sicurezza degli innovatori che, come i greci nel mondo antico faranno rifiorire dal loro spirito una civiltà nuova e più bella. Deutschland über alles! Eppure codesti giganti, guardate come si incurvano al pregiudizio! Guardate come abbassano l’occhio che pareva così sicuro e temono la libertà. La libertà, badate bene, non degli anarchici che lanciano bombe, non dei socialisti che predicano la rivoluzione sociale, ma del sacerdote che spiega il Vangelo e confessa la Chiesa cattolica. E noi, italiani, vorremmo ridurre codesta avversione alla libertà della Chiesa, vorremmo ridurre a risonanze ataviche dell’antico odio luterano e poter affermare che sono frutti tardivi della mala pianta nazionale. Ma la verità ci costringe invece a confessare che la vergogna è comune a tutte le nazioni. In Germania le leggi eccezionali, in Austria le interconfessionali, in Italia le leggi ecclesiastiche, in Francia, in Spagna, nel Portogallo le leggi di espropriazione e di oppressione. È la grande pianta del liberalismo anticlericale ossia del liberalismo logico e conseguente che ha piantato dovunque le sue radici. Sono queste così approfondite nell’humus politico-ecclesistico, ammassatosi dopo la grande rivoluzione, che nessun movimento, nemmeno lo sforzo concentrato del Centro germanico è riuscito finora a strapparmele. Ma la lotta per la libertà non darà tregua. Fino a tanto che non saranno infrante le catene in cui gli stati civili hanno gettato la Chiesa, fino che i genitori non riacquisteranno il diritto di educare cristianamente i loro figli, fino che gli attentati contro la famiglia cristiana non saranno cessati, fino che lo Stato non rientrerà nei suoi confini civili, dando a Dio quel che è di Dio, i cattolici, in qualunque stato convivano, sentiranno di dover fare una politica come tali, come credenti, come praticanti una religione, e la Chiesa ripeterà loro un insegnamento di Leone che la politica dev’essere anzitutto cristiana. Un altro dibattito recente al Parlamento germanico ci ha ricordato il dovere d’una politica di credenti. Accenniamo al duello del medico militare Sambeth. Sambeth venne radiato dall’esercito, perché, con richiamo alle sue convinzioni di cattolico, rifiutò di battersi. Il ministro della guerra tentò alla Camera un’apologia della draconiana misura. Fu allora che il Centro insorse come un sol uomo. Anche questa è una lotta per la libertà. Il povero medico perdette il posto e la carriera, perché obbedì alle leggi della sua religione. Ma il suo sacrificio è ancora piccolo in confronto delle enormità del principio che glielo ha reso inevitabile. Se il sacrificato è uno solo – scriveva ieri l’altro il Crispolti – il sacrificatore, quand’esso s’ímpersona nella pubblica autorità, è un mondo. Quindi ogni lato individuale, sparisce; grandeggia in sua vece la violenza della libertà, della fede, del senso comune, commesso collettivamente e solennemente. E di fronte all’enormità di tali pregiudizi, di fronte a codeste invadenze dei poteri civili nel dominio delle coscienze, i cattolici dovrebbero, nel giorno che depongono la scheda nell’urna, esercitare il loro potere di cittadini, dimenticandosi d’essere cattolici, svestire l’abito di credenti e lasciarlo fuori... perché non c’entra?!
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Cattolici trentini! In corrispondenza delle disposizioni del nostro statuto ed in forza dell’unanime mandato di chi disciplina e di quanti lavorano nel movimento cattolico, pubblichiamo oggi, augurale ricorrenza d’un anniversario famoso , la convocazione e l’appello del secondo congresso cattolico trentino. Dieci anni ci separano dal primo , e questo periodo trascorso così velocemente fu ricco d’esperienze e di risultati e pieno d’una attività molteplice ed intensa. Ora sentiamo tutti il bisogno di sostare un momento a riguardare l’opera compiuta ed abbiamo sete degli entusiasmi delle nostre origini e desiderio che risplenda ancora la luce dei nostri ideali e si rinnovi l’antico ardore per la causa della Chiesa e del Popolo. Ci chiama anche a raccolta la voce di sempre nuovi problemi che domandano ai cattolici la soluzione, l’urgenza di provvedimenti che presiedano all’avvenire della nostra azione, la necessità di rinnovare nella generazione novella i principi ed i propositi che noi abbiamo assunti da quella passata. Molteplici quindi sarebbero i compiti del secondo congresso e tanti, che sembra difficile il limitarsi e il rinserrarli entro brevi ore di trattazione. Ma, per la limitazione, abbiamo osato sperare che il terzo congresso seguirà a più corta distanza del secondo, allo scopo di trattare quanto quest’ultimo dovette omettere, ed alla ristrettezza del tempo per le discussioni speriamo si ponga rimedio con un’accurata preparazione delle relazioni e degli ordini del giorno. Il congresso va da un giovedì sera alla sera della domenica che segue e consisterà, secondo un programma provvisorio passibile ancora di modificazioni, di un’adunanza d’inaugurazione di quattro assemblee deliberative, di un’adunanza solenne e di un comizio di chiusa dopo il corteo. Il programma prevede ancora un’adunanza promossa dall’associazione catt. universitaria ed un comizio sulla stampa. La prima assemblea deliberativa si occuperà dell’organizzazione e dell’avvenire del Comitato Diocesano, quale società centrale di tutte le associazioni popolari e del movimento delle idee, discuterà l’opera e gli scopi del segretariato centrale e tratterà dei vari modi dell’azione locale per la formazione delle coscienze. Nella seconda verrà riferito sulla necessità e sui modi dell’organizzazione giovanile, sulla diffusione della stampa, eventualmente sull’urgenza d’un nostro provvedimento di coltura. La terza è dedicata alle varie forme della cooperazione. L’ultima prenderà deliberazioni e darà direttive sull’organizzazione professionale dei contadini, sui sindacati di mestiere degli operai e richiamerà l’attenzione dei congressisti sul problema dell’emigrazione temporanea continentale. Le altre adunanze hanno lo scopo di rievocare le origini del nostro movimento, di riaffermare i principi, di prospettarne il cammino nel prossimo avvenire. Un comitato ordinatore speciale, sotto la presidenza del M.R. Weber, è incaricato di organizzare l’evento e di provvedere alla parte formale del congresso. Ma sovratutto perché riesca, perché diventi una nuova organizzazione trionfale della democrazia cristiana trentina, è indispensabile che già fin d’ora prima che la torrida estate c’infiacchisca, gli amici, i propagandisti, i presidenti delle società operaie cattoliche, dei circoli, dei consorzi economici, delle alleanze, delle leghe, quanti insomma hanno nel cuore la fiamma antica e sentono la necessità che si ravvivi e si propaghi divampando, è indispensabile, ripetiamo, che facciano propaganda, che rendano popolare il congresso, che ne organizzino ciascuno per il paese proprio, l’adesione e l’intervento, cosicché le giornate della discussione e della deliberazione siano precedute da un grande consenso, e da unanime sentimento di solidarietà. Datevi dunque il ritrovo alla rivista generale di quest’estate, o veterani dell’azione cattolica, o collaboratrici e collaboratori umili ed infaticati, contadini, operai ed operaie della democrazia cristiana. La ricorrenza in cui lanciamo quest’appello vi dica che vi ci ritroveremo sotto le grandi ali della Chiesa e che vi aleggerà lo spirito del Pontefice innovatore, secondo il cui disegno anche il regnante Pio X si propone di restaurare tutto in Cristo. Trento, 15 maggio 1912. La Presidenza del Comitato Diocesano Trentino per l’azione cattolica
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La libertà d’insegnamento è sempre di moda e l’ultimo esempio ci viene dall’Elvezia. Chi non conosce il Förster ? Egli è uno dei più fecondi e reputati scrittori di pedagogia. Le sue opere ebbero diffusione e plauso presso cattolici e protestanti, nella Svizzera, in Austria, nella Germania, in Italia. Quanta fosse la stima da lui acquistata si vide quando l’Università di Praga – non certo sospetta di clericalismo – a voti unanimi gli offerse una cattedra. Allora il Förster per amore alla Svizzera e all’Università di Zurigo, ringraziò dell’offerta così lusinghiera; e testé ricevette il compenso della sua abnegazione e generosità. Avendo egli chiesto la venia docendi per tutte le discipline pedagogiche – finora egli si era ristretto alla cosidetta pedagogia morale – gli fu negata; ed egli, a difesa del suo decoro, rinunziò all’insegnamento presso l’Università e presso la scuola tecnica superiore di Zurigo. Quali furono le cause del deplorevole, ingiustificato rifiuto? Sono molto semplici e molto... scientifiche. Il Förster, benché protestante e benché autore di un’opera (Autorität und Freiheit) nella quale un cattolico, in mezzo a molte buone cose, trova parecchio da ridire; è però credente e ha studiato a fondo i pedagogisti cattolici; dai quali ha saputo derivare tesori. Ma può tollerarsi impunemente tanto scandalo? E tollerarsi nel paese che dà ricetto a tutto e a tutti? Al paese che aprì le sue porte e procurò una cattedra allo Strauss , negatore di Cristo e glorificatore di Voltaire? Converrete che il Förster meritava una lezione, e la ebbe. Non scientifica, intendiamoci, perché su questo campo la lotta sarebbe stata un po’ troppo difficile dopo la chiamata di Praga e dopo gli elogi tributati al Förster perfino da un luminare dei protestanti, il prof. Paulsen dell’Università di Berlino; ma i modi di mettere a posto uno studioso, un professore accademico, un celebre scrittore che osa accostarsi ai cattolici, son molti e di non dubbia efficacia. Prima si cercò di macchiare l’uomo severo e integro educatore con accuse anonime contro la sua vita privata; visto poi ch’egli non si scuoteva e lasciava che i fatti smentissero le favole, si venne alla ripulsa accennata da principio. Veramente, la maggioranza della Facoltà di Zurigo e la commissione per le scuole superiori, chiamate a dare il loro parere, non ebbero il coraggio di pronunziare la condanna del Förster. La commissione per non venire meno ai «riguardi di tolleranza» e alla «vigente libertà d’insegnamento», aveva appoggiata la domanda dell’illustre pedagogista; ma l’autorità centrale alla quale spetta la decisione e nella quale siedono dei Salomoni e dei Socrati, trovò che il Förster «non possiede ancora quella chiarezza d’idee che si deve richiedere in modo affatto speciale da un docente di pedagogia» e con quest’oracolo gli negò la chiesta licenza. Però i botoli invidiosi e gli ignoranti tirannelli non poterono sfuggire alle roventi e meritate condanne della stampa più onesta, compreso qualche giornale e qualche periodico liberale. Giova notare alcune di queste voci. La Schaffhauser Zeitung (n. 132 dei 29 marzo 1912) sotto il titolo Bisogna vergognarsi per la Svizzera, scriveva: «Colla partenza del Förster, la Svizzera soffre nelle sue scuole superiori una perdita quasi irreparabile. Förster è uno di quei dotti e di quei maestri che lasciano dietro di sé solchi profondi. Il suo influsso si andava estendendo a circoli sempre più vasti e già da gran tempo egli era considerato come un colosso e un pioniere nel suo campo scientifico presso le classi colte, anche al di là dei confini svizzeri. Per molti il passo fatto dal Förster sarà una sorpresa. Essi andavano lieti e si tenevano sicuri di possederlo a Zurigo, dopochè l’anno scorso aveva rifiutato l’invito oltremodo onorifico di Praga. In quell’occasione concepì la speranza che la risoluzione del celebre scienziato sarebbe stata apprezzata e tenuta in qualche conto dall’autorità cantonale e federale. Sappiamo anche che influenti persone di diversi indirizzi e colleghi dell’Università si adoprarono in tal senso. Purtroppo, come sembra, senza effetto. Una grettezza beota, invidie ed intrighi che non rifuggono anche dalle più vergognose calunnie, sono opera contro il Förster». L’Hochland, cattolico (fascicolo di febbraio), e le Münchener Hochschulnachrichten, liberali, si occuparono più in particolare delle calunnie anonime e rilevarono come si volessero fare passare il Förster per un ubbriacone, mentre è astemio, e si giunse a stampare e spedire per posta partecipazioni che annunziano come qualmente egli – che vive già da tempo in felice matrimonio – aveva impalmata a Roma la nota Ellen Key che risiede a Stoccolma! Il Gossauer Anzeiger (num. 135 del 28 marzo) stampava: «Riferimmo a suo tempo che il Ministero austriaco offerse al Förster un posto di professore straordinario all’Università di Graz collo stipendio di 16.000 corone e coll’assicurazione di una rapida promozione all’Università di Vienna. Il Förster, nel suo affetto per la Svizzera e nella speranza che il suo lavoro sarebbe stato riconosciuto e ricompensato con una promozione all’Università di Zurigo, non accettò la proposta. Ma oggi egli deve vedere che non vi è posto per lui là dove l’ebbe l’ateo e il negatore di Cristo Davide Strauss. Il Förster ebbe il torto di manifestare la sua fede nel cristianesimo, di proclamare la forza rigeneratrice del mondo e, da vero amico della cultura cristiana, svelò nelle sue numerose opere tutta la vacuità e la vanità della coltura materialista e pagana per la quale si nutrono tanti entusiasmi». L’Aargauer Volksblatt (num. 113 del 25 marzo) metteva in rilievo che l’autorità cantonale dava pessima prova di sé, respingendo il Förster; il Thurgauer Tagblatt (n. 65 del 23 marzo) pur dichiarando di appartenere a un altro indirizzo notava che «lo slancio e la serietà dell’opera del Förster avrebbero dovuto procurargli già da molto tempo una docenza ordinaria; invece si promuovono dei liberi pensatori che sono vere nullità». Perfino la Neue Züricher Zeitung che aveva servito ai professori contrari al Förster per combatterlo, dovette alfine deplorare l’avvenuto ed esprimere la speranza di una riparazione. Il grosso della stampa per altro si ravvolse nel silenzio o cercò – come la Kölnische Zeitung – di negare perfino l’importanza del Förster. Ben altro fu l’interessamento e il putiferio della stampa ebraico-liberale di tutti i paesi, quando quattro anni fa, il Wahrmund dovette abbandonare l’Università enipontana e fu promosso a quella di Praga, per le volgari bestemmie con cui egli, professore di diritto canonico, aggredì la Chiesa cattolica e i suoi dogmi. Ma così la va e così la andrà in avvenire, finché nella stampa, nelle scuole, nei parlamenti, nei governi i cattolici non avranno voce che basti a farsi ascoltare. Il «rispetto a tutte le opinioni», il «rispetto a tutte le fedi», il rispetto a un protestante che mostri delle simpatie per i cattolici e più ancora il rispetto a un cattolico, non saranno che una frase ed un sogno, se – dispiace dirlo, ma purtroppo è così – se non si sarà capaci di procurarselo, magari unguibus et rostris.
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1,912
3Habsburg years
21911-1915
Leggiamo nei giornali di Bolzano che il comitato ferroviario della camera di commercio di quella città ha celebrato improvvisamente la sua resurrezione convocandosi domenica ad una seduta ed invitandovi i rappresentanti di Bolzano, Merano, Caldaro, Termeno, Cortaccia, Egna ed Ora. Erano presenti anche i deputati Leys, Kraft, Walter e Huber. Sono su per giù gli stessi signori che raccolti nel convegno di Egna avevano dichiarato di volere prima della ferrovia fiemmese la costruzione della ferrovia della Venosta e delle sue progettate congiunzioni colla Svizzera. A tale dichiarazione provocarono l’adesione di molti comuni riuscendo così a mandare in malora il compromesso di Bolzano. Tutte queste cose sono storia di ieri e se i signori sentono il bisogno di rinnegarla, schiafferemo loro sul viso le risoluzioni stampate e le relazioni dei loro giornali dove appaiono nome e cognome. Pare infatti che lo scopo primo del loro convegno sia stato appunto quello di correggere la posizione da loro assunta prima e durante la sessione dietale e di mostrarsi ai fiemmesi tutto premurosi per la ferrovia. Ed invece nell’ordine del giorno votato per il pubblico ed in modo particolare per i fiemmesi, il nuovo convegno di Bolzano deplora che questi siano stati informati del tutto falsamente intorno al contegno dei tedeschi nella vertenza fiemmese. Ora domandiamo a codesti signori: Chi ha informato male i fiemmazzi? I giornali che hanno riprodotto giorno per giorno le discussioni alla dieta, riferendo quanto i rappresentanti tedeschi dicevano, oppure i deputati di Fiemme che ai rappresentanti dei comuni e alla popolazione in pubblici comizi hanno esposto giorno per giorno coi documenti alla mano le trattative passate fra italiani e tedeschi? La verità è che i signori cambiano di nuovo posizione, si voltano sull’altro fianco sperando di infliggere agli italiani una sconfitta politica. Nel convegno infatti è venuto a galla anche il baron Sternbach, assessore di Giunta, noto avversario di tutti i postulati della nostra deputazione nella dieta, rappresentante in Giunta della corrente tedesco-radicale. Costui ha riferito nel convegno intorno a sue trattative personali colla comunità generale di Fiemme e col presidente del comitato tramviario, signor Giacomelli, dalle quali avrebbe attinta la convinzione che le cose si presenterebbero favorevoli per i suoi desideri e che questo è il momento di trattare subito della comunità generale, che, secondo lui, questo è il solo fattore competente in questa questione. Il relatore stesso del convegno, il presidente della camera di commercio Kerschbaumer espresse le stesse idee notando che nelle ultime elezioni della Comunità vennero eletti aderenti del progetto di Egna e che perciò la camera di commercio ha subito cercato di entrare in relazione colla presidenza della Comunità, mandandovi una lettera, alla quale non s’è invero data alcuna risposta, ma che, secondo informazioni private, trovò accoglienza lieta. Un altro sintomo sfavorevole sarebbe la pubblicazione di un progetto di finanziazione del signor Oss-Mazzurana secondo il quale una società inglese potrebbe costruire la linea di Egna sfruttando in parte e per un certo numero di anni le selve della Comunità. Dopo queste spiegazioni si venne alla votazione dell’ordine del giorno, nella quale, oltre ai punti accennati, ve ne sono altri caratteristici. In uno viene detto che i partiti tedeschi a nessun patto permetteranno che la linea di Fiemme abbia altro punto iniziale che non sia Egna. In un altro si rincara la dose e si assicura che tutti i partiti tedeschi sia al parlamento sia alla dieta ostacolano qualunque altra soluzione che non sia quella da loro voluta, a costo anche che la dieta per lunghi anni sia condannata all’inazione. Si garantisce d’altro canto che i tedeschi non intendono adoperare la ferrovia per scopi nazionali e politici tanto è vero che non si sollevano eccezioni contro un influsso preponderante della comunità generale. A questi patti i tedeschi si dichiarano disposti ad appoggiare con tutte le forze ed a far sì che tanto in parlamento che in dieta si votino i contributi necessari. Frattanto i signori eccitano i fiemmesi a respingere il tentativo di tirare dentro nella questione motivi d’indole non economica. Chi fa questo sono gente irresponsabile. A questo comunicato le Bozner Nachrichten e le Tiroler Stimmen aggiungono un commento nel quale assicurano che in tal modo e con questa soluzione non ci saranno né vincitori né vinti e che l’unico trionfo lo riporterà la ragione economica. Deploriamo – signori delle Stimmen e di Bolzano – di dover essere di parere contrario. Non sappiamo quali relazioni siano passate fra il neoeletto comitato tramviario fiemmese ed il comitato di Bolzano o il signor barone Sternbach, ma dalla relazione stessa del convegno ci pare dover dedurre si tratti d’informazioni. In ogni modo avvertiamo i signori di Bolzano che la peggior via per raggiungere ad un risultato è quella di scegliere per simili trattative persone che per il loro passato e per il loro carattere politico incutono negli italiani i più fondati sospetti. In secondo luogo comprendiamo benissimo che i bolzanini tentano di tagliar fuori da ogni compartecipazione a trattative oltre agli interessati nel problema fiemmese, anche i rappresentanti ed i deputati della valle, col pretesto che si tratta semplicemente di un affare economico. Contemporaneamente però i deputati di Bolzano e Merano ed Egna si offrono di cercare i milioni dello stato e della provincia e di farli votare! Il che vuole dire che tentano di sostituire i deputati di Fiemme, Cembra, ed in genere del Trentino coi propri deputati, ossia di assumere loro la rappresentanza politico-economica di Fiemme, tagliando fuori i deputati nominati dagli elettori fiemmesi ed ai quali questi recentemente proprio nella vertenza tramviaria hanno confermata la fiducia. Di fronte a questa tendenza evidentissima i fiammazzi si domanderanno: Vogliono davvero codesti bolzanini fare sul serio o semplicemente impedire qualche cosa? È noto che i deputati nostri continuano le trattative con il governo sulla base in cui si trovavano alla chiusura della sessione dietale. Di queste trattative hanno notizia tutti gli interessati, anche la comunità generale ed il suo comitato. Ora il comitato bolzanino d’un colpo fa una pubblica dimostrazione, chiama a raccolta i deputati tedeschi ed il baron Sternbach, dichiara di voler trattare solo colla comunità generale e, mentre finge di richiamarsi a ragioni economiche, mette in opera un grande apparato di minacce politiche, parlando a nome dei partiti tedeschi, i quali non permetteranno mai nessun’altra soluzione che non sia quella che loro piace, che lasceranno piuttosto che la dieta resti inerte per lunghi anni, ma non cederanno. Ora ognuno vede che se si vuole veramente la ferrovia non si ricorre a codeste minacce pubbliche, non si provocano a sangue gli italiani. Poichè tutti sanno che senza l’accordo ogni sovvenzione pubblica dello stato non è probabile ed il milione della dieta non si può nemmeno discutere . E fino che i tedeschi diranno che loro non importa niente anche aspettare anni ed anni che la dieta lavori, vorrà dire che loro non importa niente che la ferrovia di Fiemme sia là da venire per anni ed anni. La questione si può sciogliere solo in via di compromesso o di finanziazione privata, di qui non si scappa. Ma quei deputati tirolesi che si raccolgono a Bolzano e lanciano «veti» e «giammai» e assumono una posa provocante contro i deputati italiani, trattandoli da quantità trascurabile su cui si può passar sopra, invece di facilitarla rendono la questione sempre più difficile. E dovrebbero finalmente capirla che i fiemmazzi non sono gente che cambi opinione ogni mutar del vento e che se qualcuno là dentro tentasse di ingannare l’opinione pubblica, non mancherebbero certo coloro che farebbero innanzi alla popolazione la dovuta rettifica.
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21911-1915
Dichiarazione dell’On. Degasperi Signori! La risoluzione che il comitato tramviario sottopone alla vostra deliberazione si compone di tre parti: nella prima si chiede la promulgazione e la concessione della linea fino a Moena, nella seconda si stabiliscono i contributi della Comunità di fronte alla proposta concreta di finanziazione del Ministero delle ferrovie, nella terza si enumerano le condizioni alle quali il comitato aderisce alla proposta organizzativa. Circa le prime due tocca a voi, essenzialmente, quali amministratori della Comunità e come rappresentanti economici della valle dare il vostro voto ed assumere la responsabilità di accettare o respingere la proposta finanziazione. La terza parte tocca la questione dal punto di vista generale in relazione cogli interessati di Trento e della valle di Cembra; e quale rappresentante politico della valle, raccomando vivamente al consesso di accettare le proposte del comitato, poichè esse non solo esprimono solidarietà a Trento ed alla valle di Cembra, che ora raggiungono solo parte del postulato comune, ma sono un impegno che nell’avvenire tutti gli interessati lavoreranno in comune per ottenere l’intiera avisiana che servirà anche ai paesi della bassa valle di Fiemme. Questa parte contiene anche le condizioni di carattere nazionale. Sono questi raccomandabili non solo dal punto di vita dell’indipendenza della valle, di cui codesta Magnifica Comunità fu sempre gelosa, ma anche dal punto di vista politico. Della proposta finanziazione dovrà infatti occuparsi a suo tempo ed al più tardi nella prossima tornata la deputazione dietale, perché si dovrà proporre il contributo della provincia. Ora è noto, anche perché allora ne ho data ampia relazione ai comuni, insieme al collega Trettel , che l’ultima proposta della deputazione dietale italiana era appunto che si finanziassero contemporaneamente da una parte la linea di San Lugano, dall’altra la Lavis-Cembra. Condizione imprescindibile però era che la linea di San Lugano si finanziasse coi contributi dello Stato, della Provincia e della Comunità, escludendo altri fattori. La Comunità, stabilendo anche per conto suo tale condizione, può quindi avere tutte le prospettive che la deputazione italiana voti il contributo della Provincia. Signori! Il momento è grave per la valle di Fiemme. Vi trovate per la prima volta di fronte a una proposta concreta del Ministero per cominciare la soluzione del vostro complicato problema ferroviario. Voi dovete decidere dal punto di vista della Comunità se volete nella misura e nel modo domandatovi. Decidete in modo affermativo, allora vi raccomando di accogliere anche le condizioni proposte dal vostro Comitato. Qualunque sia la deliberazione del consesso, io mi riservo di spiegare a tempo opportuno queste trattative ed il mio contegno dinnanzi ai miei elettori di fronte ai quali sono responsabile. In ogni caso però dichiaro fin d’ora che se il consesso deliberasse di trattare coi circoli di Bolzano o di associarsi ad essi, combatterei a spada tratta tale deliberato, preferendo anche rinunziare alla rappresentanza politica di Fiemme, piuttosto che mostrarmi connivente al suo tradimento. [segue l’intervento del vicepresidente Deleonardi che chiede che la «Comunità sospenda le sue deliberazioni e sottoponga la decisione all’assemblea della deputazione da convocarsi a Trento»] Il Dott. Degasperi si dichiara molto lieto che nelle deliberazioni di Cavalese si senta lo spirito di solidarietà colla deputazione e che si voglia tenere conto del suo parere; ritiene però che non sia necessario un nuovo conchiuso formale perché la deputazione italiana alla Dieta fece già essa stessa una sua proposta e perché la maggior parte dei Deputati hanno avuto campo di dichiararsi. In proposito dichiara che tutti i deputati della deputazione popolare a Vienna considerano le basi proposte dal governo, date le attuali condizioni politiche e colle previsioni che si possono fare, come discutibili, e qualora gli interessati diano il loro assenso, i deputati popolari lavoreranno su tale base per migliorarla. Legge in proposito un telegramma dell’on. Gentili, il quale a nome anche del Capoclub parlamentare Dott. Conci e del dott. Cappelletti smentisce che vi siano dissensi tra i deputati popolari che si sono occupati della vertenza circa il modo di giudicare la base proposta dal governo. Tuttavia, per suo conto non vede di malocchio che i delegati di Cavalese vogliano sentire l’opinione della deputazione raccolta; osserva però che i deputati possono dare il loro parere solo sulla parte generale e politico-nazionale della questione. Circa i contributi della Comunità devono decidere gli amministratori della Comunità stessa che sono membri del Consesso. Potrebbe avvenire altrimenti che i deputati venissero posti di fronte ad un problema che non possono assolutamente risolvere. Si potrebbe quindi combinarsi in questo senso che il Consesso prenda la sua deliberazione circa la parte finanziaria, se cioè vota i contributi o meno, e in caso affermativo, prima di prendere impegni con terzi o di pubblicare la sua decisione, la sottoponga ad un convegno di deputati. Deleonardi deplora di non poter accettare neppure questa proposta e che i quattro delegati di Cavalese sono legati da formale conchiuso della deputazione. Il Dott. Degasperi insiste perché il Consesso prenda una deliberazione chiara e precisa; nella valle di Fiemme si va dicendo che ora è Trento, ora è Bolzano, che impediscono la ferrovia: si continua a urlare che è una questione economica ma che i deputati vogliono fare politica. Ora i deputati della valle vi dicono: decidete voi innanzitutto dal vostro punto di vista economico, perché si sappia quale responsabilità siete disposti ad assumere. Egli crede personalmente di avere diritto ad una risposta chiara, perché si è impegnato di fronte agli elettori di promuovere la soluzione della questione ferroviaria per il prossimo progetto delle ferrovie locali. Se la comunità per ragioni economiche prende una posizione negativa, egli sarà sciolto da ogni impegno, perché è chiaro che senza contributi locali non si possono fare ferrovie di nessuna specie. Egli ha lavorato anche per incarico del Comitato tramviario e coll’approvazione espressa del Consesso nella seduta del 15 giugno. Legge in proposito le lettere spedite da Vienna. Ha quindi diritto di domandare che il Consesso si assuma le sue responsabilità, se vuole rimandare la soluzione della questione ad alcuni anni più tardi.
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21911-1915
Nella relazione della seduta del consesso fiemmese, l’Alto Adige ha la tendenza evidente di far passare la proposta passata al consesso, come cosa mia, alla quale avrebbe, al più, aderito il presidente della Magnifica signor Giacomelli. Ciò è in piena contraddizione con quanto è avvenuto di fatto. La proposta venne accolta dal comitato tramviario a Cavalese nella sua seduta dei 10 e precisamente ebbe l’adesione incondizionata dei membri del comitato: Giacomelli podestà di Predazzo, Deladio, delegato di Tesero, Tomasi capocomune di Carano. Vi aderirono anche espressamente il D.r Deleonardi delegato di Cavalese e il signor Pettena capocomune di Moena. A parte però il loro giudizio personale, questi due signori si riservarono di chiedere il parere delle rispettive deputazioni comunali. Io dichiarai espressamente di non essere affar mio di decidere sul progetto e sul contributo e che se accettassero questi, io mi presterei per la stilizzazione di condizioni precauzionali che potessero mettere gli altri interessati in grado di non far opposizione. Si venne così alla votazione in via di massima e solo dopo si passò alla stilizzazione della proposta. Di ciò sono buoni testimoni i cinque membri del comitato ed il segretario della Comunità. È quindi da falsari il parlare di una proposta Degasperi-Giacomelli e un tentativo manifesto di ingannare la pubblica opinione. Che se in fondo a tutto, non vi fosse altro che il tentativo di ricostruire una congiura «clericale» constatiamo per la verità storica che dei 5 membri del comitato almeno tre furono sempre indiscussi aderenti al partito nazional-liberale, se non addirittura suoi capi. Certo che anch’io ritenevo la base del governo discutibile, quantunque pensavo fosse necessario tentarvi dei miglioramenti, certo che nel consesso combattei a spada tratta la proposta sospensiva di Cavalese la quale, se sincera, era un nonsenso e se rappresentava semplicemente una mossa tattica, andava combattuta, perché non è giusto che i delegati di Cavalese si sottraggano alla responsabilità di accettare o respingere un progetto ed una finanziazione. Tale fu il mio contegno nella seduta del consesso ed esso è fissato anche nelle mie dichiarazioni che feci mettere a protocollo. L’Alto Adige invece ne dà una relazione così confusa e contraddittoria, ch’è bravo chi se ne raccapezza, senza dire che stronca e contorce anche le dichiarazioni dei delegati, tanto da dipingere la cosa non come è avvenuta ma come si sarebbe desiderato avvenisse . In modo particolare quanto dissi dei deputati dietali non è stato, evidentemente, compreso dal corrispondente. Ricordai che durante la sessione dietale l’ultima proposta della deputazione italiana dietale era precisamente: ferrovia di S. Lugano da una parte e dall’altra Lavis-Cembra. Questa proposta venne fatta dall’on. Pinalli e venne accolta dai deputati dei due clubs tanto liberal-nazionali che popolari; dei liberali anzi un solo deputato si dichiarò contrario. Tanta era la convinzione che, date le presenti circostanze, più in là non si potesse arrivare. Le trattative andarono a monte non per la ferrovia di Egna o per la Lavis-Cembra, ma perché la proposta testè accennata non ebbe allora dal Governo centrale l’accoglienza dovuta e perché mentre da una parte i tedeschi pretendono un influsso ingiustificato nella linea di Egna, dall’altro volevano un impegno che la Lavis-Cembra in realtà non fosse più continuata. Se il governo avesse allora mostrato più condiscendenza e se non fossero state sollevate tali pretese da parte dei tedeschi, la dieta in pieno accordo colla deputazione italiana avrebbe votato il contributo per la Egna-Predazzo o Egna-Moena e dall’altra per la Lavis-Cembra. Questa è storia che nessuno può smentire e non è nemmeno una novità, perché fu a suo tempo pubblicata. Il D.r Degasperi aveva quindi pieno diritto di ritenere che se a questo mondo c’è una logica, la deputazione dietale avrebbe accolta come discutibile la base proposta dal governo perché da un lato escludeva la partecipazione dei bolzanini, dall’altro costruiva la Lavis-Cembra contemporaneamente ed in modo da poter venir continuata. Certo che la deputazione poteva riservarsi ancora di tentare un miglioramento, cioè di arrivare forse fino a Grumes, come chiedeva il potestà di Trento al ministro, ma questo non solo non era escluso, ma anzi espressamente favorito dalla proposta del comitato fiemmese. In quanto alle asserite trattative segrete tra Degasperi e Giacomelli, dichiaro fermamente che non esistono se non nella fantasia e nella coscienza di chi vuole intorbidare per i suoi loschi scopi le cose che sono chiarissime. Come abbiamo stampato altre volte su questo giornale ed io stesso ho accennato in Municipio, i deputati parlamentari tentarono di riprendere a Vienna le trattative bruscamente interrotte ad Innsbruck. L’on Conci, l’on. Gentili, Mons. Delugan e il sottoscritto con grande tenacia misero in opera ogni mezzo per arrivare ad una soluzione. I politicastri da caffè non sanno immaginare quanto abbia costato il guadagnare conferenza per conferenza un miglioramento delle proposte governative che dapprincipio erano indiscutibili. Era intenzione dei deputati indurre il governo a fare una proposta concreta che potesse poi venir presentata agli interessati: Fiemme, Cembra, Trento, discussa fra essi e collo scopo comune eventualmente migliorata. Ma le cose precipitarono per altre circostanze. Si seppe che il comitato fiemmese trattava per un progetto del signor Felice Oss-Mazzurana che questi espose anche al pubblico in opuscolo a stampa, scoppiò l’agitazione tedesca nel comizio di Egna, in cui si parlò molto di un convegno del baron Sternbach e ne venne per naturale reazione l’agitazione di Trento e le deliberazioni del consiglio municipale. Di fronte a questi fatti scrissi al comitato descrivendogli minutamente lo stato delle cose e quando scrissi comunicai anche a voce al signor podestà Tambosi. Posteriormente spiegai al comitato il mio contegno a Trento e lo resi attento che l’avviare un’azione solidale con Trento avrebbe rafforzata la posizione di coloro che tentavano strappare allo stato le massime concessioni. Di queste lettere tengo copia, e, se sarà necessario le schiafferò sul muso ai calunniatori. Del resto ne fu data comunicazione nell’ultimo consesso, il quale approvò pienamente il contegno del comitato ed a me votò un ringraziamento . Dunque niente congiure, niente trattative criminose, ma opera franca e faticosa di chi lavorava per quello che ritiene il bene del paese, mentre altri si pasceva di cianciafruscole al caffè o alla birreria. Queste nuove azioni, però, non promosse dai deputati parlamentari, contribuirono ad accelerare la soluzione, prima che i deputati popolari per parte loro avessero in mano una proposta impegnativa del governo. Questa venne fatta invece a voce nella conferenza col ministro ai rappresentanti degli interessati stessi e precisamente in forma perentoria e senza dilazioni. Come si arrivò a questa conferenza è chiaro, e non comprendo perché si faccia di una questione affatto secondaria la questione principale. Il comitato fiemmese aveva scritto al municipio di Trento: noi vogliamo una soluzione ferroviaria nel prossimo progetto delle ferrovie locali, quindi bisogna risolversi presto. La storia di tanti anni c’insegna che l’avisiana non è costruibile, perché non avremo i contributi dello Stato e della Provincia. Ci tocca quindi pensare alla linea di S. Lugano. Se il Municipio di Trento crede invece che sia proprio raggiungibile l’avisiana, ci dia le prove lui, voti cioè un contributo adeguato e ci procuri una dichiarazione favorevole di massima del governo. Il Municipio di Trento rispose votando il contributo, ma domandò che anche il Consesso votasse antecedentemente per l’avisiana un contributo e poi si associasse a Trento per provocare una dichiarazione del governo. Ora io sono dell’idea che per chiarire la situazione non fosse necessaria una previa delibera del consesso sull’avisiana. Se fosse stato respinto, com’era probabile, dove sarebbe finita l’azione di Trento? E non bastava che il comitato tramviario, di fronte al Ministro, avesse dichiarato d’essere pronto a proporre un contributo per l’avisiana? Tale mio parere espressi a Trento tanto al Giacomelli che al signor Tambosi. Siccome però si trattava di una mossa tattica, a cui non davo grande valore, non me ne immischiai altro. E seppi a Vienna che si era proceduto diversamente e che a Cavalese rappresentanti di Trento avevano domandato che il consesso prendesse un formale deliberato sull’avisiana e che il comitato tramviario vi aveva aderito. Il presidente Giacomelli mi telegrafò che in seguito a ciò volessi domandare al ministro che rimandasse l’udienza comune al prossimo sabato o lunedì, dovendo prima il consesso prendere una deliberazione. Bisogna avvertire che la prima udienza per martedì l’avevo chiesta in seguito a un telegramma del pres. Giacomelli, ritenendo naturalmente che si trattasse della progettata conferenza comune. In ogni caso pregai il D.r Battisti che ne desse notizia a Trento. Evidentemente il presidente Giacomelli, credendo che il sabato, giorno di convegno dei trentini a Cavalese, si combinasse tutto, sperava di poter arrivare a Vienna già il martedì. Quando chiesi la proroga, il ministro si mostrò molto stizzito e mi diede l’ultimo termine per il giovedì. Telegrafai a Cavalese, avvisai il D.r Battisti, da Cavalese si telegrafò a Trento e i delegati si misero in viaggio. Io credevo in verità che la convocazione del consesso fosse possibile anche entro il breve termine e perciò avevo spedito in un lunghissimo telegramma le mie dichiarazioni. Il Comitato di Cavalese credette invece il tempo troppo breve e non lo convocò. Comunque non è questa la questione principale. La questione è che la domanda circa l’avisiana è stata posta al ministro e che questi ha dato risposta negativa. È evidentissimo che essa non sarebbe stata diversa anche se il milione della Comunità, invece che messo in vista dal D.r Degasperi, fosse stato votato formalmente dal consesso. Così stanno le cose, né più né meno. E se si desidera proprio che ingaggiamo una polemica su tutta la linea, io sono pronto a pubblicare tutti gli atti e servirò i signori a dovere. Ci tengo a dichiarare che, salvo il mio programma antinullista, cercai sempre l’intesa tra Fiemme e Trento e ne possono far fede non solo i fiemmazzi e gli atti ch’esistono nell’archivio della Comunità, ma anche coloro che parteciparono alle adunanze confidenziali in Trento, l’ultima delle quali fu lunedì, proprio il giorno prima che partissi per Fiemme. Bastino questi accenni per far capire all’Alto Adige che né io né i miei amici temiamo affatto la polemica che l’Alto Adige mette in vista per altri tempi e che non indulgeremo, in caso, a stabilire secondo la verità storica le responsabilità positive e negative di tutto il problema. Dai nostri documenti esse risulteranno ben più lampanti che dalla relazione monda e tendenziosa pubblicata dall’Alto Adige. A.D.
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21911-1915
Grandi apparati coreografici – La neutralità di Cogoli e Greif – Insidiosi attacchi nell’«Alto Adige» e nel «Popolo» – Confessione preziosa – Metodi socialisti di sincerità e di lotta economica – Le nuove società ristaurano il vecchio vessillo – Inevitabilità e inutilità del cozzo dei principi. Le vecchie società magistrali – le cosidette neutre – da qualche tempo hanno adottato un nuovo metodo di battaglia. Inscenano dei congressi con grande sfoggio di adesione e di partecipazione; incielano il loro passato con iperboli da disgradarne i seicentisti; danno cristianamente delle graffiate ai maestri che non si assoggettano al loro infallibile tribunale, proclamano che ad esse sole appartiene l’avvenire e che fuori di loro non vi è salute. Un congresso si tenne mesi or sono a Cles, e un secondo nel mese di giugno a Trento per festeggiare il venticinquesimo anniversario della fondazione della società magistrale di Trento e Mezzolombardo, che, com’è noto, esercitò ed esercita su tutte una speciale influenza. L’Alto Adige e il Popolo portarono la cronaca della giornata. «Notammo – così l’Alto Adige – il nostro podestà Antonio Tambosi, il deputato Dott. Battisti, il deputato Dott. Viesi , il direttore delle scuole cittadine Don Rigo, il Prof. Bertagnolli, l’avv. Dott. Menestrina, i rappresentanti le diverse società magistrali trentine, i rappresentanti del Popolo e dell’Alto Adige, dell’Eco del Baldo e di tanti altri ancora» . Fra i «tanti altri», come risulta dalla relazione, c’erano – in segno di perfetta superiorità e neutralità – anche il Prof. Cogoli e l’ispettore in pensione Greif che presero la parola. A leggere questa serie di nomi mi corse alla mente – sia lecito ristorarci con una reminiscenza – mi corse alla mente il banchetto del conte zio. «Tutto ben ponderato, racconta il Manzoni, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente dei più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no». Come risponde bene, per più capi, il paragone! Il conte zio, a tavola parlò di Madrid: «della corte, del conte duca, dei ministri, della famiglia del governatore, delle cacce del toro...», insomma dei suoi successi, dei suoi trionfi, delle sue glorie; e dopo tavola «con un grande studio, una grand’arte, di gran... parole» compì l’opera e riuscì ad ottenere «effetti corrispondenti»: «riuscì, dice ironicamente il grande Lombardo, a far andare fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, ch’è una bella passeggiata». Vedete che bizzarri ricordi mi frullarono nel capo a leggere la cronaca sopra menzionata! E per poco che avessi lasciata correre la fantasia, chissà che per poco dal sacrificio del povero, innocente e benefico fra Cristoforo, immolato a un banchetto diplomatico, non fossi volato alla testa di Giovanni, troncata in un banchetto festivo... Gioca dei tiri birboni la fantasia! Quasi non bastassero i partecipanti in persona, c’erano, in ispirito e per lettera, degli aderenti: «il d.r Antonio Zampedri, capitano distrettuale di Mezolombardo, l’on. d.r Bertolini, l’on. Bellat, il maestro Zaniboni per il consiglio scolastico di Riva, il prof. Agostino Bonomi, Antonietta Bonelli» ecc. ecc. ecc. Cavate il fiato se potete dopo tanti nomi e sotto tanto pondo! Provate, se siete capaci, a dire... di no! Tanto più che i dissidenti, a quest’ora sono arciconvinti del loro torto. Infatti il cronista dell’Alto Adige o il rappresentante della Valsugana – dalla cronaca non apparisce con tutta chiarezza chi dei due, ma forse l’uno e l’altro – assicurano che «i manipoli dei maestri clericali... ben presto vennero delusi nelle loro aspirazioni...» (questi ultimi eloquentissimi puntini sono dell’Alto Adige); e il presidente della società trentina sembra vederli nuovamente nell’antico ovile benché, da profeta che non vuol essere smentito, pigli tempo a celebrarne la conversione di qui a cinque lustri. Forse per accelerare lo storico momento, dopo i rimproveri e le ammonizioni impartite nella fausta giornata del venticinquesimo, si ebbero nella stampa liberale e socialista delle cariche a mitraglia. Chi vuol vederne esempio legga l’articolo di un «vecchio collega» del Popolo dei 25 giugno e quello posteriore che il Trentino, con ottimo pensiero, riportò dall’Alto Adige del 1 luglio. L’uno e l’altro sono scritti colla penna intinta nella bava e nel fango e sono un triste sintomo di certi elementi che si sono infiltrati nella classe magistrale. Curiosa del resto questa campagna! Si continua a ripetere che i dissidenti sono un piccolo pugno di gente e che il loro distacco, nonché danneggiare, rinvigorì le vecchie società ; ma con tutto ciò non si lasciano in pace, ed ora con grandi apparati coreografici, ora colle rampogne, colle offese, colle minacce, si cerca di farli tornare sui loro passi e di farli rinnegare la bandiera intorno alla quale si sono schierati. Donde e perché tanto accanimento? Forse vi fu dato appiglio con un contegno rude ed aggressivo? Tutt’altro! Lo stesso Popolo, sopra citato, scriveva: «... non sono punto violenti, non ricorrono all’arma della prepotenza, adoperano le lusinghe. E però sono maggiormente temibili». Bella confessione, non è vero? La prepotenza e la violenza sono lungi dalle nuove società. Unico rimprovero... le «lusinghe». Quali? Non certo quelle dei posti di prima classe. Non è alle adunanze delle nuove società che intervengono certi pezzi grossi dei luoghi maggiori, e con quella frase non si può alludere ad altro che ai benefici arrecati e che ancor si possono arrecare al ceto dei maestri in generale. Infatti è noto che gli ultimi miglioramenti votati in proposito alla Dieta, son dovuti principalmente ai deputati popolari. Questo è lo spino nell’occhio a certi signori delle vecchie società; questa è l’assidua cura che li tormenta! Perciò, dopo avere invocata e ottenuta la legge del 1910, offrono il triste spettacolo di azzannare rabbiosamente la mano che la concesse. Il Vigile dell’Alto Adige la chiama «nulla di meglio che un tradimento, per il quale i maestri non possono essere che arrabbiati, anziché soddisfatti» ; e si noti ch’ei parla della legge in genere, riservando per la divisione in classi, generalmente lamentata, altre e più forti invettive. L’Alto Adige pur di sfogare il suo spirito di parte e confermare i maestri nella... neutralità, accoglie sfoghi così triviali, non pensando che alla legge contribuirono anche i deputati liberali o sperando che il pubblico l’abbia dimenticato! Ma di ciò non è a farsi meraviglia. Meraviglia invece che si chiami un tradimento quella legge, per cui gli stipendi dei maestri della provincia che nel 1909 non toccavano il milione, furono portati a più di 2 milioni, con un miglioramento complessivo di più che il cento per cento. Meraviglia che si chiami tradimento quella legge che, se fu combattuta da certi maestri, seguaci del Popolo, fu invece chiesta insistentemente, proprio nella sua forma nota e concreta, da tutti gli altri, non senza proteste contro i nemici intestini che tentavano d’impedirla; quella legge per la quale si ringraziarono i deputati e che – fu detto in adunanze delle stesse vecchie società – diede finalmente ai maestri il modo di attendere con più pace e con più amore alla scuola. Questi sono fatti storici che stanno ancora nella memoria di chi si interessa delle cose pubbliche e che, all’occorrenza, si possono provare con numerosi e irrefragabili documenti. Vano è il tentativo di sorpassarli o metterli in oblio, e i metodi di ingiusti e villani attacchi contro la maggioranza alla deputazione dietale, se possono riuscire graditi alla stampa liberale e socialista, non sono perciò né più degni di educatori, né più confacenti allo scopo. I maestri che hanno ancora un senso del giusto e dell’onesto, non possono che sentire ribrezzo di sì triste campagna e convincersi sempre più che non è certo la migliore compagnia quella di chi trascura i più alti problemi dell’educazione ed usa nella questione economica tutto il linguaggio e le arti del socialismo più spoglio di ogni coscienza e più sbracato. E poi si lagnano delle «defezioni», delle «scissioni», delle nuove società. Che fecero queste infine? Nient’altro che ritoccare al vecchio programma «Educa e spera», programma che, come disse il Prof. Cogoli, non si può attuare prescindendo dai principi religiosi. E in questo riguardo, quanto, oh quanto lasciarono a desiderare le vecchie società! Quante volte nel loro periodico, nelle loro adunanze, tra i loro soci fu nominato Colui da cui tutto dipende e che è il fine ultimo dell’educazione? Quante volte fu reso omaggio al redentore dell’Umanità che disse: Unus este magister vester, Christus? Quante volte si ricordò la Chiesa, ch’egli costituì depositaria della sua dottrina, suprema tutrice della gioventù? Quante volte invece non si predicò il maggior possibile distacco da quanto sa di religioso e di ecclesiastico! Quante volte non si fece atto di adesione a manifestazioni di partito con nota spiccatamente liberale! Basti ricordare a tale proposito l’adesione a congressi della società studenti trentini che rimase celebre per le sue gesta anticlericali. Quante volte si ricorse all’Alto Adige e al Popolo, con pubblicazioni deplorevoli, senza badare che il Popolo nel 1910 tentò perfino di frustrare i miglioramenti che la Dieta stava per concedere ai maestri che l’Alto Adige – che ha una gran voglia di tornare all’ostruzione – condannò con essa per lunghi anni i maestri alla miseria e alla fame! Ma l’Alto Adige è liberale; ma il Popolo è socialista; quindi essi combattano pure, finché si vuole, in certi momenti decisivi lo stesso benessere materiale dei maestri, tuttavia sono e rimangono gli organi diletti di tanti... neutri! E dopo ciò si ha il coraggio di assalire le nuove società e i loro membri? E vi sono perfino persone che occupano nella scuola posti distinti e che – velle o nolle – portano acqua a questo molino? E un Greif, ispettore scolastico distrettuale in pensione, osa dire in un’adunanza di maestri: «Se vi fossero dei vili, di cui mi vergogno d’essere stato ispettore, che disertano dalla società, sulla cui bandiera immacolata (!) sta scritto Educa e spera per farne sventolare una prezzolata su cui potrebbe scriversi Disertazione e tradimento non seguiteli: non possono essere convinti d’aver agito bene e certo non lo sono». Queste parole si leggono nella relazione dell’adunanza della società di Valsugana pubblicata dal Popolo dei 9 luglio né, ch’io sappia, finora smentite . Signor ispettore, con che diritto e con che giustizia entra lei nelle coscienze e le condanna? Con che diritto e con che giustizia dà lei delle anime vendute a tanti egregi maestri? Non sente ella l’iniqua volontà di tali accuse e l’indegno abuso che fa della sua posizione? E cosa vuole che dicano quelli che dall’ispettore in pensione argomentassero all’ispettore in servizio? Ma né ire di parte, né minacce né pressioni varranno a smuovere i maestri che hanno spiegato nuovamente al sole l’antico vessillo e che non credono darsi educazione che non sia pervasa dallo spirito religioso. La tempesta che si scatena contro di loro coll’aiuto degli uomini e della stampa liberale e socialista, stretta in intimo amplesso, non varrà che a confermarli nei loro propositi e a convincere sempre più quanti hanno gli occhi aperti, che ormai anche nel campo scolastico è aperta la lotta sui principi fondamentali e che il sorgere delle nuove società fu ad un tempo una necessità e una vera provvidenza. Giù la maschera, signori! Troppi indizi e troppi fatti ormai v’accusano. Voi siete liberali, voi siete socialisti, voi volete portare principi deleteri e condannevoli nel campo più delicato, quello dell’istruzione e dell’educazione giovanile. Se vi sono ancora delle buone anime che credono di farsi valere in mezzo al vostro seguito, noi le compatiamo, ma il giorno amaro della delusione non mancherà. Per ristaurare un’organizzazione non basta tornar a nominare qua e là il Creatore e la religione, messi tanti anni nel dimenticatoio; e basta ancor meno, quando certe amicizie, certe ostilità e tutta una serie di manifestazioni nella pubblica stampa danno testimonio troppo eloquente dello spirito dei due e di parte almeno dei soldati. Del resto, era naturale che la lotta di principio, anche in questo arringo, scoppiasse pure fra noi. Un tempo si nutrì l’illusione che il Trentino non fosse terreno per il socialismo. Invece venne e corrose perfino parecchi «educatori del popolo». La divisione degli spiriti e il conflitto del bene e del male cova e si espande indisturbato sotto una vernice ingannatrice, è di gran lunga preferibile alla netta separazione, la sincera professione delle proprie idee, il loro cozzo. E in questa battaglia di idee e di principi la stragrande maggioranza dei genitori e cittadini del nostro paese, starà dalla parte dei maestri che sono e si professano cristiani. Un amico dei maestri
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21911-1915
Il signor Gamma oppone alcune osservazioni al mio articolo «le cose a posto» . Ma esse sono in fondo delle attenuazioni e delle ammissioni contro quanto, scrivendo la prima volta, affermava con tanta sicurezza. In ogni caso io non ho nulla da ritirare e nemmanco una parola da modificare. La mia proposta era quella conciliativa, offerta invano ai delegati di Cavalese. Il D.r Cappelletti ha dichiarato che s’opporrebbe ad oltranza alla costruzione della sola linea di Egna; e quindi non è affatto in contradizione se trova discutibile la base proposta dal governo Egna-Predazzo e Lavis Cembra. Gamma riduce ora le «trattative segrete» fra Giacomelli e Degasperi ad un «lavorio tenuto segreto, fino a pochi giorni or sono». Ripeto ch’io non ho fatto segreti di sorta e che non ho nulla da nascondere: tutte le lettere e i telegrammi ho diretto alla Comunità in Cavalese, e solo una volta telegrafai al presidente in Predazzo, per avvertirlo che venisse a Cavalese per prendere notizia di un importante telegramma spedito alla Comunità. Questo secondo era precisamente il telegramma sulla conferenza col Ministro. Di ciò potevano avere esatta conoscenza i membri della Presidenza, del comitato tramviario, del consesso e se tuttavia queste notizie non si poterono raccontare per filo e per segno al caffè, io non ci ho colpa. Delle relazioni fra caffè e comunità non sono responsabile. Premesso questo, ripeto per l’ultima volta: 1. Parlai e scrissi sempre della contemporanea costruzione della linea di S. Lugano e della Lavis-Cembra e non della sola Egna-Predazzo. 2. Nell’opera di sollecitare dal governo una proposta concreta per il prossimo progetto delle ferrovie locali, non feci che collaborare con deputati più esperti di me, cioè l’on. Conci, il d.r Gentili, Mons. Delugan; e mi mossi sempre sulla base proposta dalla deputazione trentina alla dieta, liberale e popolare. Cercai sempre un possibile accordo con Trento e ne favorii la cooperazione coi fiemmesi; e creda il signor Gamma che in argomento sono abbastanza informato. 3. La deputazione popolare non intende fare il nuvolo o il sereno in Fiemme. Tutt’altro! Essa si rimette anzi ai fiemmazzi stessi, ai quali sarà grata, se, rinunziando per ora alla ferrovia, la liberano da una costruzione che inceppava l’attività dietale. Il deputato della valle a sgravio della sua coscienza e degli impegni presi dinanzi agli elettori doveva però avvertire che la proposta del governo rappresentava rispetto al prossimo progetto delle ferrovie locali l’ultima parola e che quindi o bisognava trattare su tale base o rinunziare frattanto alla soluzione della questione tramviaria. Con ciò ciascuno si assume innanzi all’avvenire la parte di responsabilità che gli spetta. E se il signor Gamma accenna con ironia al mio trionfo di Cavalese, io gli rispondo che aspetti tranquillamente in 3, 4, 5, 10 anni il trionfo di coloro che intendevano fare un grande rifiuto. Partigiano dell’avisiana come soluzione ideale, propugnatore delle due linee del compromesso, impostoci dalla realtà della vita politica, credo che la tattica del «tutto o nulla» è fatale e ci conduce al disastro economico e nazionale. M’auguro d’essere cattivo profeta; ma non so cacciare indietro i più tristi presentimenti, i quali pesano del resto anche sull’animo di persone invecchiate nella questione fiemmese, persone che hanno dato ad essa entusiasmo ed opere e fatiche da più di un ventennio. Sarò tuttavia lieto se per opera dei miei avversari d’oggi il mio pessimismo si mostrasse ingiustificato e se chi si è assunta la responsabilità di distruggere, domani sarà capace di edificare. Frattanto il consesso della Comunità complicando il problema colla questione della partecipazione del capitale lasciava adito a qualunque altro tentativo di soluzione, poichè il tempo, passato una volta il progetto delle ferrovie locali, non preme. Chi più che alla risposta negativa del Ministero vuole dar valore ad un deliberato formale del consesso, ha tutto l’agio di provocarlo. A cose finite, quando non si potrà attribuire alla mia parola nessun’altra intenzione che quella di un doveroso rendiconto ai miei elettori, uscirò dalla mia posizione riservata e mi conforterà il ritrovarmi cogli avversari di oggi in campo aperto per discutere, deliberare e forse – chi sa? – a lavorare insieme. a.d.
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21911-1915
Intorno alla notizia del trasporto delle cattedre giuridiche è già un incrociarsi di smentite interessate o ufficiose ed anche di proteste e minacce slovene . Ma intanto interessa soprattutto il contegno della stampa italiana. Leggete il Piccolo e l’Indipendente sempre così fieri, così inesorabili contro ogni soluzione parziale o provvisoria, sempre così pieni di sarcasmo contro gli «ingenui» che vedevano in proposte governative ben migliori di questa che si sta per attuare, un passo in avanti, un progresso da non respingere ma accettare. Quante volte non s’è gridato al tradimento perché i popolari avrebbero accettato per parte loro una facoltà – una vera facoltà – in una sede provvisoria, magari in una città del Trentino! Quante volte non s’è scritto che i clericali volevano una soluzione di partito che essi ammettevano Trento e magari Rovereto, per farne una scoletta di preti; quante volte non s’è rinfacciato a chi seguiva una tattica possibilista un egoismo locale o regionale e, intransigenti irremovibili, boiardi della fierezza nazionale si è gridato loro: Trieste o nulla. Ed ora si confronti il contegno di oggi, la remissività, la sapiente riservatezza, l’atteggiamento positivo del mercante che bada al negozio e tira avanti . Guardiamo al cielo, non diciamo altro; ma il tempo è galantuomo! Anche la stampa liberale e socialista di casa nostra, qual contegno diverso, quale tattica «accomodante»! Il Popolo la definisce invero una soluzione disastro, ma è l’atteggiamento di Mario che per inquadrare una sua posa nella storia piange sulle rovine di Cartagine. Ma l’Alto Adige s’è messo addirittura a filosofare. Nessuno scatto, nessuna fiera protesta contro gli accomodamenti, nessun’invocazione del pieno e irreduttibile diritto latino; ora bisogna ragionare e valutare. Si tratta infine di apprezzamenti molto soggettivi. Il ragionamento possibilista del Piccolo corre benissimo come un altro. Per decidersi bisogna saper valutare le intenzioni del governo, e qui potrebbero informare, magari in confidenza, i deputati. Mondo cane! Oggi volete valutare le intenzioni, informarvi dai deputati... Ottimamente, ma dicevate così quando si trattava dei deputati vostri avversari, o non sentenziavate subito o immediatamente sul loro punto di vista? E non affermavate subito con una sicurezza da non sopportar smentite, che noi eravamo ingenui, che ci lasciavamo turlupinare dal governo; non gridavate, senza tanti riguardi alle opinioni soggettive, che i possibili fautori della tattica antinullista, tradivano i postulati del paese? Com’è diverso il metodo e come sono sconfortanti le contradizioni di codesta politica. Oggi nella questione universitaria si chiedono informazioni ai deputati per valutare le intenzioni del governo; fino a ieri nella questione di Fiemme non solo non si invocano informazioni, né si ammettono valutazioni, ma persone che non hanno partecipato a trattative di sorta o che conoscono la questione da lontano rinfacciano ai deputati l’ingenuità più crassa e attribuiscono a sé l’accortezza di una politica meravigliosa. Qui non si tratta d’imposizione e di valutazione; si tratta della difesa dei dirittti. Ebbene, largo alla furberia! Gli ingenui attendono al varco. Anche qui il tempo è galantuomo!
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21911-1915
Giorni fa nel consiglio comunale di Trento c’è stato chi a proposito della volontà di Fiemme di avere una ferrovia parlò di leggende. È una leggenda, si disse, che la valle di Fiemme incalzi per avere presto una ferrovia. Ora l’Alto Adige tenta di far passare nel mondo leggendario un altro fatto, l’esistenza di una politica del tutto o nulla . È una leggenda che nel Trentino vi siano dei nullisti. Il prospetto dell’autonomia sotto il baron Schwartzenau fu, afferma l’Alto Adige, respinto dai tedeschi; nella questione universitaria noi accettammo anche la soluzione provvisoria di Vienna, nella questione di Fiemme ci adattammo anche al compromesso di Bolzano. Il nullismo è dunque una leggenda. Risponderemo brevemente. Chi afferma leggendaria l’insistenza di Fiemme per una ferrovia, azzarda un’affermazione contro la quale stanno fatti e documenti di parecchi anni, l’incarico preciso dato dall’attuale consesso al comitato tramviario e la seduta decisiva del consesso, nella quale pur non trovandosi una maggioranza per la proposta spesa, tutti i delegati parlarono in favore della proposta congiunzione ferroviaria. Chi afferma leggendaria la tattica nullista dimentica che il progetto dell’autonomia venne respinto nei cosiddetti comizi, che per una menzogna convenzionale rappresentavano il «Paese». Fu «il grido di dolore di Fassa» che diede il tracollo per il no. Arrivammo così al nulla, nel quale, anzichè in conquiste, dovemmo concentrare tutte le energie nazionali a difenderci dalla germanizzazione in casa nostra, ciò che viceversa sarebbe stato facilissimo, se avessimo avuto una propria sezione del consiglio scolastico. E ora si può dire che tutte le disposizioni dei tedeschi di fronte agli italiani siano migliorate? Nella questione universitaria è vero che l’Alto Adige si mostrò favorevole al provvisorio viennese ma non vi aderirono tutti i fattori competenti. In ogni caso l’Alto Adige fece la campagna del «Trieste o nulla» nei momenti decisivi quando si trattava di avere una facoltà universitaria in una sede italiana e la fece con una tale veemenza da ricacciarci nel nulla, in cui fatalmente amiamo finire. E se oggi voi proclamate il ritorno al progetto dell’avisiana , noi abbiamo il sacro dovere di avvertire il paese che lo trascinate verso il disastro. Nessuno di voi ha potuto dimostrare come si possa attuare il progetto avisiana senza i denari dello stato, della provincia e della Comunità. Nessuno di voi ha tentato di dimostrare in che tempo prevedibile gli italiani avranno la forza di costringere Governo e Provincia a fornire danari per l’avisiana. Nessuno potrà negare che prima di conchiudere il compromesso di Bolzano , cioè di ammettere anche la linea di Egna, a Trento, quattr’anni fa i fattori competenti si chiesero se la sola avisiana avesse prospettive di attuazione e dovettero rispondersi di no. D’allora ad oggi la situazione politica è peggiorata. E se voi oggi argomentate, citando uno spunto polemico dell’on. Schöpfer , di cui non ricordiamo, che i tedeschi ritenevano che anche l’assicurazione per via legale della Grumes-Cavalese non ne avrebbe assicurata l’attuazione, con quali sortilegi ci dimostrerete la possibilità della sola avisiana? Noi v’impediamo di discutere, di studiare. No davvero; anzi vi abbiamo invitati a prendere l’iniziativa e a fare proposte attuabili. Ma, in coscienza, innanzi alle gravi responsabilità dell’avvenire, abbiamo il dovere di politici onesti di dire franco ed alto il nostro parere e di manifestare la verità perché il paese non patisca una grave delusione. Nessun partito come il nostro ha fatto tanto lavoro pratico per la soluzione del problema fiemmese. Negli ultimi anni si fecero sacrifizi pecuniari, si concentrò nella questione fiemmese ogni sforzo politico, si arrivò all’ostruzione in Dieta, all’opposizione più risoluta in Parlamento. La sonda è stata lanciata fino in fondo. Se oggi quindi affermiamo di avere misurata la profondità del problema, crediamo di aver diritto di dirlo. Voi dite: vi rimane l’ostruzione alla Dieta. Continuate senza tregua, ma voi dimenticate che l’ostruzione deve avere un termine fisso e un risultato prossimo in vista. Passato il blocco delle ferrovie locali, dovrà il nostro paese sanguinare per anni ed anni riconfortandolo della pietosa illusione che così si farà più forte? Sarebbe politica da pazzi e da irresponsabili. Infine, per la verità, ci sia permesso ricordare che l’enorme maggioranza del popolo fiemmese vuole la ferrovia, ne sente il bisogno e soffre danno per la sua mancanza. Una deputazione italiana deve tener conto anche di ciò, perché Fiemme è una valle trentina, è una valle nostra e non possiamo rimetterla ai tedeschi per il soddisfacimento dei suoi postulati. L’Alto Adige può vedere da ciò che è ingiusto attribure alla nostra insistenza il semplice ripicco di chi non è riuscito in un piano premeditato. No, parliamo così perché abbiamo la profonda convinzione che si sta per commettere un altro di quegli errori politici, che si sono commessi respingendo l’autonomia e rifiutando la facoltà italiana. P.S. L’Alto Adige dà una nuova interpretazione al voto di Cavalese. Ma dove finiamo se si continua a violentare la storia? Cavalese non ha chiesto la sospensiva «per uno studio più diligente del progresso», ma per attingere informazioni dalla deputazione trentina se dal punto di vista politico, credesse accettabile o meno la proposta del Ministero. E noi non abbiamo combattuto la tendenza di cercare l’accordo colla deputazione o con Trento, ma abbiamo rilevato che prima conveniva che Cavalese si esprimesse attorno al contributo. Fu quando l’ispettore di Cavalese ebbe il... coraggio di parlare di una soluzione più sollecita che si otterrebbe non accogliendo la proposta governativa, che abbiamo dovuto mettere le cose a posto. È chiaro?
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21911-1915
L’Alto Adige di iersera torna sulla questione del «nullismo» di Fiemme . Non spenderemo troppe parole a rispondergli. Quanto al «nullismo» basta scorrere la storia del Paese e dell’Alto Adige stesso, per convincersi che periodi di fiore abbia avuto questa mala pianta; i frutti furono anche abbondanti; ma son «frutti di cenere e tosco». Due volte, che noi ci ricordiamo, l’organo liberale abbandonò, ma troppo tardi, la politica del «tutto o nulla»: quando nel 1897 desistette nella questione dell’autonomia dal postulato di una provincia separata, e quando il governo, nella questione dell’università, propose la sede temporanea di Vienna. Del resto si battè sempre la medesima strada: dichiarare, con un appiglio o coll’altro, inaccettabili le soluzioni che presentassero speranza di riuscita e così giungere per il momento al «nulla», e più tardi a nuove proposte peggiori delle tramontate. E chi ci assicura che non abbia a succedere altrettanto a Fiemme? La storia ci è severa ammonitrice e l’adunanza di quasi tutti i comuni di Fiemme, di cui ieri pubblicammo il protocollo , dovrebbe dar da pensare. Si fa presto a parlare più o meno apertamente e direttamente di «tradimento», di «disastro», di «debolezza» e «viltà»; ma il «tradimento», il «disastro», la «debolezza», la «viltà» dinnanzi ai paroloni ed ai motti d’ordine potrebbero – consciamente e inconsciamente – stare proprio dalla parte di chi si atteggia ad eroe e si assume la responsabilità sia di ciò che potrebbe succedere in Fiemme, sia dei danni cui andrebbe incontro tutto il Paese. Ed è inutile che l’Alto Adige polemizzando con l’on. Conci , faccia il gnorri su queste eventualità e su questi danni, chiedendo: quali sono? che misteri ci covano? parlate! esso stesso comprende la cosa tanto bene che è un atteggiamento poco sincero il domandare spiegazioni. L’arco troppo teso si spezza; ecco tutto. Del resto a che parlare di tradimento e viltà riguardo alla deputazione popolare? La storia non si cancella e la storia dice: 1. che ambo i club – assieme raccolti nell’Unione italiana – chiesero in febbraio al governo la Egna-Predazzo e la Lavis-Cembra, e avutane risposta non soddisfacente e aggiuntasi a ciò la pretesa dei tedeschi nazionali e dei conservatori di votare un contributo per la sola Egna-Predazzo, ricorsero all’estrema arma di difesa che è l’ostruzione. Era traditore, debole e vile anche il club liberale che insieme col club popolare fece l’accennata proposta, e dal vederla non appoggiata o combattuta, tirò le ultime conseguenze? 2. Sta il fatto, ormai noto, che il Podestà di Trento nella conferenza avuta a Vienna insieme coi fiemmesi presso il Ministro della Ferrovie tentò – ciò che anche la deputazione parlamentare e dietale avevano fatto – di far accettare almeno la Lavis-Grumes. È anche il Podestà di Trento reo di un «tradimento», di un «disastro», di «debolezza», di «viltà»? Si fa presto a fabbricare queste marche e applicarle; ma l’Alto Adige anziché illudersi sui dispareri altrui e lanciare epiteti, farebbe assai meglio riflettere che non tutti nel suo campo partecipa le sue idee e rammentarsi di ciò che in febbraio chiesero al governo e alla dieta anche i deputati liberali, ciò che domandò al Ministro, non è ancora un mese, il Podestà di Trento. Anziché togliere la possibilità di una soluzione parziale e rimandare tutto alle calende greche, molto più opportuno sarebbe cercar di migliorare la proposta governativa. A questo tendeva l’ordine del giorno presentato al Consesso della Magnifica Comunità di Fiemme nella seduta dei 13 luglio, ordine del giorno il quale, fra il resto, chiedeva a nome della stessa Comunità «che il tratto della linea avisiatta si prolungasse fin d’ora più che fosse possibile verso la val di Fiemme» e che nella sua costruzione il Ministero seguisse «tali criteri tecnici ed economici da rendere possibile la continuazione in un periodo posteriore in modo da sodisfare le esigenze del commercio tra Fiemme e Trento» . Invece di seguire tali criteri, le discordie dei comuni fiemmesi e il radicalismo di certi fattori a Trento fecero cadere ciò che era raggiungibile e dava la base di ulteriori trattative. Beato chi si contenta della semplice negazione! Si era peraltro promesso che i demolitori avrebbero raggiunto «ben più presto» molto di meglio. Chi ne vede il più lontano accenno? Di un’altra questione – famosa nella politica nullista – si occupa ancora l’Alto Adige nel numero di ieri, e dà delle lezioni al Trentino e al Secolo. Curioso il contegno dell’Alto Adige in tutta questa faccenda. Esso raccoglie le insinuazioni – sparse da fonte triestina – contro i popolari, quasicché questi si opponessero al trasporto delle cattedre giuridiche all’Accademia Revoltella , per ragioni di campanile; esso chiese e chiede al Trentino spiegazioni sul trasporto, sulla sua natura, sui suoi effetti; ma quando le riceve, finge di non averle lette e torna a lagnarsi che lo si tiene al buio. Il Trentino dichiarò e dichiara: 1. che non per ragioni di campanile ma perché il trasporto non significa a parer loro, alcun passo avanti nella questione universitaria; perciò e non per altro i popolari si pronunziarono contro lo stesso. 2. Siccome però i liberali vedono invece nel trasporto un germe dell’università e vi attribuiscono valore, i popolari decisero di non frustrarlo. 3. Le cattedre da trasportare e quelle ulteriori da erigere comprenderanno solo gli oggetti del secondo e terzo esame di stato. 4. L’iscrizione alle cattedre giuridiche presso la Revoltella, come risulta con tutta certezza e fuori da ogni controversia, non ha alcun valore ed effetto per gli studi superiori. Chi frequenterà quelle cattedre, dovrà ciononostante iscriversi agli esami presso qualche università. 5. Accettato che fu dal club liberale tale disegno, il Ministero dell’istruzione diede le istruzioni e gli ordini necessari alla Luogotenenza di Trieste. Tutto ciò ebbe già a pubblicare a più riprese e ripubblica oggi il Trentino e ci pare che sia più che sufficiente per farsi un’idea dello status rerum. Vedremo se, almeno ora, se ne prenderà nota. Infine osserviamo che, siccome le trattative vennero e vengono condotte sotto la sua responsabilità, dal club liberale, l’Alto Adige non ha che da rivolgersi allo stesso per avere ampie e minute informazioni su tutti i particolari. Lo avvertiamo, se nol sapesse, che presidente del club liberale al Parlamento è l’on. bar. Valeriano Malfatti, che dimora a Rovereto, un’ora distante da Trento. E dopo tutto ciò si ha la mutria di rivolgersi burbanzosamente a noi per informazioni; non solo, ma mentre si usa un linguaggio più moderato che sia possibile coi fautori del «trasporto», si ama un vocabolario sconcio ed odioso contro i popolari nella questione di Fiemme, dove si ottennero proposte ben migliori che nell’altra. Ma naturalmente l’Alto Adige e compagni considerano le cose sempre e solo oggettivamente, né sono mossi mai da gelosie di partito, bensì unicamente da amore di patria!
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Diamo in riassunto il discorso del Dott. Degasperi che nel comizio di domenica mattina ebbe il compito di ricapitolare in forma comprensibile a tutti i lavori e le conclusioni del congresso. Quindici giorni fa, disse il Degasperi, le persone che dovevano preparare il congresso erano così assorbite da altre attività, così stanche in una sovroccupazione la quale durava da mesi, che si fu a un pelo dal rimandare il congresso ad un altr’anno. L’enorme concorso odierno, l’entusiasmo col quale si rispose all’appello, ci dicono però che il congresso era invocato dal popolo e che rimandarlo sarebbe stato un errore gravissimo. L’accorrere in folla incominciò già per la seduta inaugurale, in cui il nostro P. Vescovo lesse l’autografo di Pio X. Quale ovazione raccolse, quale scoppio d’entusiasmo. Qualche avversario e qualche lavoro avevano insinuato che al nostro lavoro mancasse l’approvazione del Pontefice. Ora è venuta una smentita solenne (Grida di viva il Papa!). Eloquentissima fu anche l’accoglienza che il congresso fece al nostro P. Vescovo, e se c’è qualcuno che si lagna di non trovare la stessa corrispondenza, venga qui tra noi ed impari che l’amore del popolo si guadagna non con sfoggio di potenza, ma predicando la verità e difendendo la giustizia (grandi applausi). Pari all’entusiasmo fu l’impegno, la serietà dimostrata nelle discussioni. Gli amici di Verona avevano ragione di notare nei popolari intervenuti una particolare maturità per la discussione anche di oggetti tecnici e relativamente difficili. Non era lavoro semplice il ripassare le ruote di quello che Mons. Inama definì l’orologeria del movimento, raggiustare gli ingranaggi, rinnovare le molle, rinsaldare i perni. Si comunicò col perno principale, cioè il comitato diocesano. Venne stabilito: nessun centralismo, ampia autonomia all’azione locale ma rigida disciplina di tutte le associazioni sotto la direzione del Comitato diocesano per quanto riguarda le supreme ragioni di principio e di unità e salva la competenza delle altre società centrali. Si affermò anche come norma imprescindibile che il Comitato diocesano debba servire quale supremo tribunale arbitrale in caso di differenze d’ordine sociale e morale fra le società centrali. A questo compito non facile speriamo di soddisfare sotto la guida di quel luminare dell’azione cattolica che è il D.r Gentili (ovazione). Il Comitato diocesano nella prossima seduta generale voterà un nuovo regolamento, stabilirà i fiduciari in ogni distretto decanale. Il congresso ha fatto un dovere a tutti di sostenere ed appoggiare quest’azione riorganizzatrice. Il relatore sull’azione locale ha però anche proposto ed il congresso ha votato doversi fondare in ogni più piccolo luogo almeno una società di cultura, almeno un circolo. Per un circolo bastano tre persone di buona volontà. Non ci sono quindi scuse ragionevoli per non farlo. Nel prossimo congresso – in 5 anni segneremo sul libro nero quei paesi dove non si sono raccolte per l’azione cattolica nemmeno tre persone (applausi). Se l’organizzazione di cultura rappresenta la rete fine e delicata dei nervi, l’organizzazione cooperativa costituisce l’ossatura del nostro corpo sociale. Il congresso ha stabilito diversi presidi per il buon andamento delle associazioni di credito. Inoltre il nostro presidente federale ha detto che le casse rurali sono ancora troppo poche. Ne mancano ancora 100 . In 5 anni le 100 casse – se pur non mancano le necessarie premesse – debbono essere costruite. Ma – ha aggiunto il relatore – è necessario grande rigore nell’assunzione dei soci. Base imperitura dev’essere la religiosità e moralità. Il congresso ha confermato solennemente la necessità che le nostre istituzioni s’ispirino ai principi sociali cristiani. Guai a chi manca a tale dovere (applausi). Il congresso ha poi raccomandato di appoggiare la Banca Cattolica , di rafforzarla sottoscrivendo nuove azioni. Se saremo uniti, anche sul terreno economico, non ci sarà arte o malignità che valga a scuotere la nostra compagine. Nella cooperazione di consumo il relatore D.r Lanzerotti ha fatto appello ad un maggior senso di solidarietà per il Sindacato e un maggior rigore nella scelta dei soci. «Meglio pochi, ma situazione chiara!» ha esclamato accennando a qualche famiglia cooperativa, ed il congresso ha applaudito . Siamo fedeli alle nostre istituzioni e riconoscenti a coloro che specie sul principio hanno diffuso l’idea ed avviato così i congressi del popolo. Non si dice dei cattolici trentini che sono degli ingrati che dimenticano il bene ricevuto (applausi). Nella cooperazione di smercio abbiamo approvata una forma che non è nuova, ma si presenta oggidì con maggior insistenza: la lega dei contadini (cooperativa di smercio, eventualmente di produzione agricola). Si è però raccomandato di procedere con prudenza sia in linea economica che morale. Si è stabilito che nel fondare associazioni nuove si debba tener conto delle esistenti, di farle aderire tutte al Comitato diocesano e soprattutto di assicurare e coltivare con opportuni provvedimenti il carattere cristiano e lo scopo di educazione. Associazioni nuove evitino vecchi errori: nessuna società economica sia fatta in modo che si esaurisca – per statuto o per la pratica – nell’affare e nella speculazione. In altro dibattito ci siamo occupati dell’organizzazione professionale. Nel campo degli operai industriali urge riguadagnare il terreno perduto. È un terreno difficilissimo, della cui asperità non hanno idea coloro che stanno in mezzo ai contadini. Ben lo sanno gli amici di Merano, qui presenti, i quali difendono la loro bandiera con strenua costanza tenendola alta in mezzo al turbine socialista. Lode a voi, milites confinarii della democrazia cristiana trentina, noi riconosciamo le vostre fatiche e vi ammiriamo (grandi applausi. Viva i forti di Merano!). Se anche altrove il loro esempio sarà seguito, arriveremo alla sospirata unione professionale trentina. Migliaia di non organizzati ancora ci attendono. Al lavoro! Altro esempio luminoso di organizzazione professionale è quello scelto dalle alleanze di Vallagarina e del Vezzanese . È qui piantata in mezzo ad una folla la bandiera dei Lagarini colla vanga dorata. Salve, o vanga del novale cristiano! Va giù fonda nel tuo simbolico campo, affinché la classe dei contadini rimanga quella su cui la Chiesa possa contare in ogni tempo. Laggiù abbiamo avuto un momento di trepidazione, ma poi i bravi si sono ridestati, hanno preso il sopravvento ed hanno trascinato col loro entusiasmo gli avversari. Qui sono amici vecchi, e accanto a loro i convertiti. (Ovazioni dell’Alleanza). Il congresso ha pensato anche ai fratelli emigranti nelle provincie vicine , dovendo purtroppo rimandare ad altra occasione la trattazione del problema transoceanico. Dobbiamo far voti che col concorso dei parroci nei luoghi d’emigrazione, del Comitato diocesano, dell’ordinariato e della benemerita Bonomelliana si riesca a creare i segretariati che il congresso desidera. Un dotto relatore ha riferito sulla necessità di un’intesa fra gli studiosi cattolici per promuovere un movimento scientifico e letterario . I popolani hanno ascoltato volentieri anche tali discussioni perché sanno che nei gabinetti degli studiosi si elaborano, come la rivoluzione francese, tutti i grandi movimenti sociali. Generale interesse ha destato la proposta che si dia finalmente una storia dei nostri padri che valga a rafforzare le buone tradizioni del paese. Infine su due altri argomenti importantissimi venne richiamata l’attenzione dei congressisti: l’organizzazione e la stampa. Per la prima più che un piano concreto dovremo limitarci a dare le grandi linee, per il secondo argomento abbiamo ancora negli orecchi il grido d’allarme del D.r Grandi , che con grande eloquenza ha spronato al lavoro. La riconoscenza espressa ai giornalisti fa onore alla modernità dei cattolici trentini (applausi). Un fatto va notato come caratteristico per tutte le discussioni. Non una parola né un cenno che avesse potuto recare la più lontana offesa per gli avversari. I cattolici sanno la loro forza, conoscono la loro via e camminano innanzi, senza occuparsi degli avversari. Eppure ve n’ha fra essi di accanitissimi e provocanti. In occasione del congresso stesso un giornale ci schernisce quotidianamente, ed ebbe a scrivere che i cattolici migliori non compariranno qui . Ora noi gli rispondiamo che certo, perché noi ci diciamo cattolici, non vogliamo con ciò affermare d’esserlo soli o d’essere i migliori tra loro. La Chiesa c’insegna a recitare il Domine non sum dignus ed a pregare che il Signore crei in noi un cuore puro e ci rinnovi lo spirito e lo facciamo con atto di doverosa umiltà, innanzi a Dio ed agli uomini. Ma sappiamo anche che i nostri principi sono buoni e che a preferenza di altri ci stringiamo intorno al papa e al vescovo, lavorando per il bene del popolo cristiano, certi che Cristo, il quale premia un bicchier d’acqua dato all’assetato, ci userà misericordia anche per questa nostra azione cattolica sociale che dedichiamo alle classi lavoratrici (applausi). E nient’altra pretesa abbiamo dai nostri avversari se non che rispettino questo nostro buon volere e questa nostra concezione ideale della vita (grandi applausi). L’oratore accenna a questo punto alla fraterna e sapiente collaborazione data al congresso dagli amici di Verona, Milano, Torino. I trentini sanno in quali condizioni estremamente difficili si combatte laggiù e tanto più vivo quindi è l’augurio che riesca ai loro sforzi di rifare l’Italia tutta cristiana (applausi). Dicano laggiù i nostri amici, dicano laggiù nei comizi e nei congressi che noi trentini posti quassù fra le Alpi a difendere le grandi tradizioni della civiltà cristiana e latina ed a battagliare giornalmente per le nostre stesse condizioni d’esistenza, abbiamo compreso il grande dovere impostoci dalla Provvidenza e dalla Storia e facciamo ogni sforzo per adempierlo (grandi applausi). Ed altri amici che ritornano verso il Nord dicano pure anche lassù che chi vede in noi un pugno di sciovinisti imbevuti di fanatismo di razza, mal ci conosce. Dicano esser nostro vivo desiderio che fra i cattolici dell’una e dell’altra nazione sia tregue e che nessuno cerchi il predominio sull’altro, ma che la democrazia cristiana di tutte le nazioni marci verso quel giorno in cui – sovra tutti – regni ed imperi Cristo sovrano (uragano di applausi).
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La campagna dei giornali di Bolzano contro i cattolici trentini continua con particolare veemenza. Un articolo in difesa del clero trentino comparso nel Tiroler, ne ha tirato con sé una seria di tendenza opposta. Sono preti e laici tedeschi, di parte cattolica, dimoranti in Trentino, che scrivono ai due giornali bolzanini, il Tiroler ed il Tiroler Volksblatt, descrivendo le nostre organizzazioni quasi fossero covi dell’irredentismo più pericoloso, denunziando come garibaldini ad uno ad uno i capi più esposti del nostro movimento e perscrutando con cura minuziosa la raccolta del nostro giornale per infilzarvi colla forchetta del patriottismo una frase, un periodo che con un’interpretazione forzata, o una traduzione falsa, potrebbe diventare un sintomo, una prova della nostra psiche antistatale. Anche il congresso cattolico , il quale si astenne con scrupoloso rigore da ogni manifestazione politica, non trova grazia dinnanzi a codesti signori, i quali c’insegnano che l’omaggio fatto a Dante Alighieri e la dichiarazione che difenderemo sempre il patrimonio nazionale dei nostri padri è un atto pericoloso all’integrità della Monarchia e degno di venir denunciato all’alta polizia che ci governa. Non senza stupore, guardandoci attorno e considerando codesti attacchi concentrici, ci siamo chiesti quale possa essere lo scopo di tanto rumore d’armi. Se sono vere le premesse, dalle quali i nostri amici bolzanini si dipartono e se i cattolici trentini sono per davvero irredentisti, credono che una campagna delatoria e l’invocazione di una politica repressiva siano i mezzi migliori per convertirli? E se invece le premesse non sono vere, credono i sullodati che il loro sistema di calunniare colla massima leggerezza, sotto la maschera dell’anonimato, tutta una classe di persone e di istituzioni intiere e di condurre siffatta campagna in nome del patriottismo sia la cura migliore per rinforzarlo? Nel Tiroler Volksblatt una delle oche del campidoglio tirolese, prevedendo forse questa domanda, risponde anticipatamente che fanno codesto schiamazzo non per il cosidetto Trentino, «nel qual caso i tedeschi non si scalderebbero d’avvantaggio», ma perché è in pericolo tutto il Tirolo meridionale fino al Brennero. «Si tratta dei nostri futuri destini, si tratta delle sorti della nostra amatissima terra tedesca bagnata nel sangue dei nostri padri». Queste parole sono scritte con tale accento di verità che, di colpo, ci è parso davvero di vedere un’anima in pena. Ed avremmo voluto gridare parole di conforto, assicurandola che nessuno pensa a toccare la terra dei suoi padri, che specie i cattolici trentini sono così immersi nel lavoro per il loro popolo che dei vicini non possono interessarsi se non per chiedere loro che rispettino i confini di casa. Ma poi ci è venuto il dubbio che le preoccupazioni per le sorti del Brennero non siano molto sentite, in specie quando abbiamo letto nello stesso numero dello stesso giornale una notizia inventata di sana pianta, che l’on. Gentili abbia onorato nell’estate scorsa i bagni del Brennero (Brennerbad) di sua lunga dimora e vi abbia fissati, interinalmente, i confini del Trentino. L’elevatezza di codesta satira caratterizza la profondità e la sincerità del sentimento. D’altro canto il medesimo giornale ci rivela, forse involontariamente, il vero movente di tutta la campagna antiirredentista. Nel Tiroler Volksblatt, datato da Trento, 7 settembre, leggiamo una corrispondenza che difende l’opuscolo Irredenta di fronte alla protesta solennissima del Congresso. In essa è detto che «da qui innanzi (codesti signori) si riservano il libero e pieno diritto di difendersi, anche se dovessero diventare incomodi». In altro punto è detto che si è taciuto abbastanza e che è venuto il momento di mettere fuori il dossier delle cose registrate. Mettete queste espressioni in esso – e il nesso non occorre crearlo – colla raccomandazione del Volksbund nel famigerato opuscolo, coi rabbiosi attacchi al «Trentino» anche dell’articolista H. S. nei numeri recenti del Tiroler perché il Trentino ha combattuta la campagna antivolksbundista, e concluderete che la presente campagna è una mossa offensiva, in vendetta alla sconfitta che hanno patite nel nostro paese le mene del Volksbund. È la rappresaglia, il contrattacco. Ma noi – per quanto ragazzi, come ci beffeggia uno scrittore del Tiroler – conosciamo i nostri polli e anche le regole della tattica. E se voi oggi mescolando nell’olla putrida della vostra concezione angusta e confusionaria della situazione nazionalismo e irredentismo, italianità e nesso politico, credete d’indebolire la resistenza del popolo nostro o dei cattolici trentini nella difesa dei propri diritti costituzionali, nella libera e sana esplicazione delle proprie energie, come nazione, vi sbagliate di grosso e male vi ha ammaestrati la storia. Che se voi desideraste per avventura, e sinceramente, che in questo lembo di terra il nazionalismo trovi esplicazione più calma e tollerante e che forze centrifugali trovino minore alimento negli urti quotidiani della vita collettiva non avete che a tirare le logiche conclusioni della situazione creata negli ultimi anni. Provvedete affinché cessi la minaccia continua della nostra esistenza come popolo, cacciate i propagandisti della germanizzazione, e togliete loro il diritto di parlare in nome del patriottismo austriaco: lasciateci in pace, in poche parole! Vi abbiamo pregato e scongiurato al principio dell’invasione, abbiamo ammonito, ma invano durante tutta la campagna. E oggi ancora volete affidato allo stesso Volksbund il compito di convertirci? Mai, mai, tenetelo a mente, mai! Dovrete sconvolgere la nostra casa fino alle fondamenta, prima che cediamo. Anche noi abbiamo la libertà, il diritto e il dovere di difenderci contro tutti, malgrado tutti. Uno degli articolisti si lagna ancora che non entriamo nel merito della discussione. Forse ci prenderemo un giorno di divertimento per farlo, e agevolmente ci riuscirà di mostrare che specie le prove portate contro il nostro giornale dal signor H.S. e dal Tiroler Volksblatt provano solo una delle due: o che l’articolista è un falsario o che non capisce l’italiano. Per dirne una vedasi a mo’ d’esempio cosa si scrive nel giornale conservativo di Bolzano attorno al collegio vescovile (Volksblatt, 11 settembre). Viene detto che «nel vescovile si portava nel giorno della morte di Garibaldi cravatte nere e nell’anniversario della nostra Imperatrice cravatte rosse»!!! L’evidente assurdità della storiella è proprio da prendersi colle molle. Figuratevi che l’anniversario della morte della Imperatrice è ai 10 settembre, giorno in cui perdurano le vacanze estive e il vescovile è vuoto. Chi l’avrà portate le cravatte socialiste? E potremmo continuare ma basti questo esempio per tutti. Una sola consolazione possono avere questi signori nordici, cioè che a falsare la storia non lavorano da soli. Se per i Bolzanini che stanno a Trento o altrove noi siamo «verkuppte Irredentisten» e il Trentino è «williges Werkzueg des Irredentismus» per gli anticlericali nostrani noi compiamo una «tragicommedia clerico-lealista, cattolico monarchica, episcopo militare, italo-tedesca». E se capita quassù qualche pubblicista del regno a studiare dalle panche di un caffè-concerto la nostra vita politico-nazionale, ci avviene poi di leggere sui giornali più in voga della nostra nazione che siamo qui fra i monti ad asservirne l’onore ed a comprometterne l’esistenza. Non più tardi della settimana scorsa faceva il giro dei giornali una chiacchierata con un certo signor Orazio Pedrazzi che in un suo breve viaggio nel Trentino ha imparato che i cattolici trentini «ad Innsbruck, nella Dieta e a Vienna, sono assolutamente austriacanti e spesso pangermanisti» e che si danno in ogni caso alla «propaganda teutonica». E noi dovremmo turbarci, perché tanto a sud che a nord si sta falsando la nostra storia? Scrivono così, perché sì gli uni che gli altri ci trovano il loro tornaconto. A noi manca il tempo di correggerli, perché più che a scrivere la nostra piccola storia, siamo occupati a farla.
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Hanno sbeffeggiato, schernito, sghignazzato con una visibile amarezza nell’anima . Ridevano, perché l’imprecazione non era lecita né prudente, ma c’era in quel riso l’acerbità degli apostati, e l’oscurità di chi non vede nulla in un mondo che per altri è pieno di sole e di splendore. E di fronte ad un grande spettacolo di fede, rimpetto ad una solenne affermazione dello spirito, gli uomini che non credono, non hanno saputo stare in disparte e racchiudersi in un silenzio rispettoso. I cattolici in uno slancio generoso di anime, con uno sforzo collettivo di volontà nobilitate hanno spezzato la triste nebbia che li serra attorno nella vita quotidiana e, levandosi sopra la greve atmosfera della terra hanno contemplato il cielo. I protestanti, i maomettani, i buddisti hanno guardato attoniti e meravigliarono in silenzio. Ma perché voi, cristiani di nome, non avete saputo tacere e rispettare? Perché avete sentito il bisogno del lazzo e del dileggio? A Vienna, come dappertutto, come a Trento, fra gli schernitori in prima fila abbiamo visto i socialisti. Eppure sono costoro i redentori dell’umanità sofferente e sfruttata, sono i profeti di un mondo avvenire rinnovato e migliore, sono gli iconoclasti che spezzati i vincoli del passato ed infranti gli idoli suoi costruiranno sulle rovine lo stato della libertà, dell’eguaglianza, del progresso e del bene infinito. Dove attingeranno costoro la grande forza morale che, coi corpi, rinnoverà gli spiriti? Qual cielo dischiuderete voi sul capo dell’umanità se per quello che ci sta sopra avete lo scherno e il disprezzo? E quale libertà vi darete nello stato avvenire se oggi non sentite i limiti di tolleranza che v’impone la libera manifestazione delle nostre convinzioni? L’organo socialista del deputato di Trento ha fatto a gara coi suoi compagni di Vienna nello svisare e dileggiare ogni manifestazione eucaristica. Mentre i cattolici di tutte le nazioni facevano il nobilissimo sforzo di sollevare le loro discussioni al di sopra di ogni competizione politica, al di fuori, vorremmo dire, della veste terrena che devono pur prendere le idee e le convinzioni; mentre tendevano in alto levati su da un soffio bellissimo di meraviglioso idealismo, gli uomini dell’indomani, coloro che lanciano al Cristianesimo l’accusa di aver incatenata l’umanità per venti secoli al servizio di pochi ricchi, tentavano di trascinare ogni manifestazione eucaristica, sempre più in giù, sempre più in basso fra le gelosie delle fazioni, fra gli odii di parte. Poichè i profeti del nuovo regno si sentivano troppo piccini per elevarsi, lanciarono fango allo splendore della grandezza, per oscurarla. Ma passi per i talmudisti dell’Arbeitezeitung. Scorre nelle loro vene il sangue di quei padri i quali, mentre bestemmiavano Cristo, acclamavano Barabba. Ma Trento ha una storia diversa e il sangue trentino è sangue cristiano. Il nostro popolo fu trentino, cristiano e latino nello stesso tempo e per le stesse cause. Cancellate il Cristianesimo nella nostra storia, e noi cesseremo di esistere. Cancellate il Cristianesimo dalle valli, e ridiventeranno selvagge. Cancellate il Cristianesimo nella città e Trento sarà un cumulo di rovine. E se c’è fra voi, o riformatori democratici, chi grattando sulle pareti frescate d’antico tempo crede cancellare i simboli cristiani quasi fossero cosa posticcia o un’aggiunta dei tempi, di cui si possa fare a meno, v’ingannate. Grattando sulla parete, voi corrodete la casa la quale cadrà in polvere e in frantumi. Trento rimarrà cristiana, o non sarà più Trento. Voi cercherete invano un altro maestro Adamo di Arogno che v’innalzi il tempio dei vostri ideali, voi invocherete invano i vostri Romanino, i Dossi, i Fogolino , o via via per la nostra storia, i Rovisi e gli Unterbergher! E allora, se dentro e attorno di voi sentite spezzato l’anello spirituale che ci congiunge al nostro grande passato, almeno tacete, e non beffeggiate a coloro che sentono d’amare la patria anche per la storia buona, che sono orgogliosi di dirsi trentini, sovratutto per il sacro retaggio dei padri, e che sanno di dover tramandare alla generazione che vien su, la vita morale e civile, come fu animata e raffinata dell’opera di tanti secoli di glorie cristiane. Anche per questa generazione bambina il Popolo ha avuto un momento di stizza. Ad un certo punto nella sua relazione di stamane il giornale socialista ha scritto: «Di speciale due cose: anzitutto lo spiacevole camuffamento in angioletti con le ali di 15 bambini dell’Asilo della Lega Nazionale . Che si dimentichi di non dover avere partiti la Lega Nazionale?» Poveri bambini di S. Martino! Anche voi dunque così piccini e tanto innocenti siete divenuti clericali? O non sapevate voi che oggidì il giungere le mani ed il portar fiori nella processione dietro la Croce è diventato un crimine di leso laicismo al cospetto dell’inquisizione rossa? Non sapevate che l’erigere una chiesa a Cristo redentore nell’Eucarestia è aumentare le fucine di quel clericalismo che i profeti di Marx sono venuti a distruggere? Povere testine dai riccioletti d’oro! Che il Dio dei vostri padri vi protegga affinché, fatti grandi, non vi troviate sudditi dello stato avvenire, nel regno della loro fratellanza e della loro libertà!
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21911-1915
Quel consorzio di preti e laici di nazionalità, di tradizioni, di usanze diverse dalle nostre, che s’è recentemente costituito nel Trentino per iniettare nel nostro sangue il loro preparato, composto di tirolesismo italianofobo, conservatorismo storico, e formalismo patriottico, continua la sua reclame in favore dei suoi metodi profilattici contro l’irredentismo. Ci siamo permessi recentemente di rendere attenti i signori che la cura da loro intrapresa era completamente sbagliata, e che il lanciare accuse d’irredentismo per provocare manifestazioni in senso inverso è un giuoco troppo evidente, perché gli accusati non rinunzino a testimoniare inanzi a giudici così scorretti. Inoltre abbiamo avvertito gli stessi archiatri che il nostro organismo politico reagisce contro il loro preparato e non lo assimila, perché troppo diversa e d’altra natura è la nostra vitalità come popolo e come nazione. Il mescolare quindi con gli altri componenti il senso dello Stato è come volerlo compromettere e provocare anche contro di esso la reazione spontanea della nostra natura. Insomma è sbagliata la cura, è pericolosa la... vaccinazione e sovratutto i medici, che presumono la guarigione, sono affatto inetti. Un tirolese nato e vissuto nel suo cosmo politico-sociale imbevuto di tutte le idee e di tutti i pregiudizi contro il Welschtirol, cresciuto nell’avversione contro la forma, la vitalità, la psiche italiana è – fatte rarissime eccezioni – assolutamente incapace a prendere l’organismo politico-sociale del Trentino per quello che è, meno che meno poi a fare una diagnosi qualsiasi delle sue malattie. Questo fatto inconfutabile si può notare ogni qualvolta c’imbattiamo in persone autorevoli o funzionari dello stato, fuori del Tirolo, i quali abbiano avuto occasione – ed è purtroppo rara – di conoscervi davvicino senza il medium bolzanino od enipontano. Da una parte il criterio austriaco secondo la sua costituzione, secondo il discorso al trono dell’Imperatore, secondo le necessità stesse dell’esistenza dell’impero poliglotta, dall’altra l’orizzonte piccino di chi sospettava ogni sviluppo nazionale un pericolo per la propria egemonia locale e pretende costringere sul letto di Procuste tirolese un popolo intero. Se non ci sta, peggio per lui: si faccia l’amputazione, perché quel letto tirolese è il Tirolo, ma è anche l’Austria ed è l’unica tavola su cui potete mettervi affinché vi riconoscano il diritto di cittadino ed ammettano che ne abbiate compiuto i doveri. Abbiamo insistito su questo perché forse potrà giovare al sullodato consorzio, sì che divenga un po’ meno presuntuoso. In ogni caso sappiano codesti signori e prendano a notizia una volta per sempre che i cattolici trentini non riconoscono affatto la loro tutela né per quanto riguarda i loro sentimenti né per le loro manifestazioni pubbliche. Si figurino i lettori che nell’ultimo numero del Tiroler Volksblatt l’autore del libello Irredenta o un suo intimo amico accusa il nostro congresso cattolico di non aver preso posizione contro l’irredentismo – in modo speciale dopo le istruzioni dateci dal libello – e dice che eleveranno questo rimprovero ancora molte volte, finché le cose si muteranno (bis die Sache anders wird!). Questo tono di intimidazione troviamo ripetuto parecchie volte, e assicurano dass sie nicht rasten und nicht ruhen werden... Ora noi potremmo rispondere che, per conto nostro, possono gracchiare a lor talento. Sappiamo la nostra via, i nostri doveri, i nostri diritti ed andiamo innanzi liberamente. Pressioni, intimidazioni, calunnie, denunzie non impediranno il nostro cammino. Come noi non abbiamo mai preteso di raggiustare le teste ai cattolici tirolesi i quali da parecchi anni danno miserando spettacolo di sé negandosi gli uni agli altri la buona fede e l’ortodossia dei principi, così pretendiamo di essere i soli a disporre delle cose nostre in casa nostra, e tratteremo da rappresentante di una potenza estera chi, non essendo né cattolico né italiano, né trentino, vuole dirigere, influenzare, ridurre secondo i suoi gusti ed i suoi interessi il partito popolare trentino. Questo sia detto sine ira et studio, ma anche in una forma precisa che escluda qualunque equivoco. Tuttavia non vogliamo limitarci in questa breve replica alla parte negativa. Ed aggiungiamo: Noi siamo disposti ad entrare nel merito della discussione ed a vedere con voi fino a qual punto le accuse lanciate abbiano se non una base almeno un pretesto per esistere. Siamo anche disposti ad aiutare la vostra presbiopia tirolese nella diagnosi delle nostre malattie politiche ed a contribuire alla cura che si dimostrerebbe necessaria. A due condizioni essenziali che sono anche le condizioni della nostra esistenza. In primo luogo voi dovrete riconoscere ai trentini il diritto di un proprio sviluppo nazionale, garantito e protetto dallo Stato di conquistarsi nella vita pubblica tutte quelle autonomie che a tale sviluppo sono necessarie sia rispetto al nesso storico tirolese sia di fronte al centralismo statale. In secondo luogo voi dovrete condannare e combattere l’azione del Volksbund nel nostro paese in quanto attenta alla nostra vita nazionale. Voi dichiarate di deplorare i turbamenti (Störungen) che ha recato nel campo pastorale. Tali dichiarazioni riguardano l’autorità diocesana, ma non bastano a noi, popolo, nazione, partito. Voi dovete deplorare e combattere il Volksbund in quanto germanizza e costringe i figli di madri italiane a studiare il sillabario e perfino il catechismo in una lingua straniera. Voi, come cristiani dovete combattere la politica della prepotenza teutonica. Ne avete il sacrosanto dovere. Che sacerdoti, che cattolici laici contribuiscano invece a tale ingiustizia è un’infamia contro la quale la nostra protesta si leverà sempre più forte. Wir werdern auch nicht rasten und nicht ruhen... Poi quando ci avrete fatta giustizia, ci metteremo a sedere rappacificati allo stesso tavolo, e parleremo d’irredentismo.
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21911-1915
Vienna, 13. Il momento psicologico venne scelto bene. La commissione militare ha votato ieri quasi ad unanimità le nuove spese straordinarie chieste per l’esercito e per la marina. I delegati espressero qua e là le loro apprensioni e mostrarono dapprincipio una certa renitenza. Ma di fronte alla misteriosa fisionomia del conte Berchtold che accennava vagamente alle probabilità dell’avvenire e più ancora alle energiche dichiarazioni del ministro Auffenberg e del conte Montecuccoli, i quali con gesto deciso si rifiutarono di assumere qualunque responsabilità in caso di voto negativo, non rimasero all’opposizione che i delegati socialisti, e questi stessi si limitarono ad una breve affermazione del loro principio presentendo che un’opposizione più energica mancava in questo momento di base favorevole. Domani la delegazione si occuperà del bilancio militare in seduta plenaria. È facile prevedere che le conclusioni assomiglieranno molto a quelle della commissione. Così l’Austria che da quattro anni tira avanti stentatamente con un bilancio magrissimo e con un pareggio più che apparente, dovrà assumere nei prossimi giorni un nuovo prestito, aggravando ancora più la posizione già oberata del fisco pubblico. I delegati hanno dapprima nutrito il timore che i 52 milioni circa di spese in più per il 1912 e il 1913 (quota austriaca) venissero tolti dal bilancio ordinario facendo dei tagli nel preliminare già pronto. Spinti da questa paura e persuasi oramai che le spese dovevano esere votate, ognuno badò a premunirsi per conto proprio. I polacchi posero la condizione che non si ritardasse la costruzione dei canali, i deputati delle Alpi che non venisse procrastinata ancora la presentazione della legge ferroviaria. Gli Slavi del sud che non si rallentassero i lavori di costruzioni idrauliche. Il conte Stürgkh s’affrettò a calmare gli animi con una dichiarazione esplicita che tutto rimarrebbe come nulla fosse intervenuto a prendere il preventivo dell’amministrazione pubblica. E il Ministero delle finanze aggiunse nella forma più precisa che il bilancio per il 1912 era già bell’e fatto, che le impostazioni previste vi sarebbero rimaste per intiero e che si sarebbe limitato ad aggiungere nel passivo l’importo di circa 2 milioni necessari per pagare gl’interessi del nuovo debito militare. Il bilancio dunque non viene ritoccato; ma questa sarà purtroppo teoria. Nella realtà, se il conflitto balcanico assumerà proporzioni gravi le casse dello stato, come già nel 1908 verranno prese d’assalto dal ministero della guerra e si ripeteranno quei ritardi di pagamento, quelle rate a scadenza lontana che sono tristemente note anche da noi presso le concorrenze stradali e nei lavori fatti dai comuni coi contributi dello stato. Del resto è vero che il nuovo debito difficilmente può peggiorare ancora in uno stato di cose che è presso la bancarotta. L’Austria, appena uscita dalla crisi dell’annessione e arrestata nei suoi progressi economici dalla stasi parlamentare, è colta dalla guerra balcanica in un momento finanziario molto critico. Malgrado tutti i puntelli ufficiali e ufficiosi la rendita discende sempre e colla rendita notano perdite considerevoli tutti i valori pubblici ed il titolo delle grandi compagnie. Ieri la Borsa era dominata da un panico generale. Vero che condizioni simili si sono verificate a Berlino, a Londra, a Parigi e in parte anche a Milano, ma qui il fenomeno è più profondo di un’oscillazione momentanea solita ad intervenire alla viglia di una guerra. Vienna è il grande emporio dell’oriente e degli stati balcanici. L’esportazione austriaca negli stati della penisola varia dal 12 al 75% (Montenegro) di tutta la loro importazione. Molte industrie hanno il loro sfogo principale nei paesi agricoli dell’Oriente. Ora laggiù non si fanno più commissioni, e quel ch’è peggio, non si paga, perché i rispettivi governi hanno proclamato le moratorie per i debitori. Così mentre l’Austria-Ungheria deve pagare le merci importate, è costretta da leggi straordinarie estere ad accontentarsi di cambiali per la sua esportazione. Ma che vale la carta in tempo di guerra, specialmente se i belligeranti sono gli staterelli balcanici e quando è impossibile prevedere con qualche probabilità l’esito finale? Ad accrescere il panico generale scoppiò ieri l’altro sera la bomba dell’imminente rottura delle trattative d’Ouchy . Ma questa era la catastrofe, bisognava scongiurarla ad ogni costo; e così avete visto i giornali viennesi raccomandare ieri mattina con tutta energia la remissività non più all’Italia, ma alla Turchia...!! Le ulteriori notizie, le quali davano meno certa la rottura delle trattative, non poterono più arrestare il ribasso della Borsa, che in questi giorni distrugge molte esistenze e cancella ad un tratto patrimoni che sembrano solidissimi. Riguardo alla Borsa si potrà però infine consolarsi col dire che si tratta di speculazione e che in via generale il reddito del lavoro non viene diminuito. Ma anche questa consolazione ha fondamento solo fino a un certo punto. Non v’ha dubbio infatti che il tracollo del mercato finanziario, se perdurerà ancora per qualche tempo, sarà seguito da una crisi commerciale e industriale ed avrà per contraccolpo un nuovo rincaro dei viveri. Quest’atmosfera satura d’elettricità va diventando giorno per giorno sempre più intollerabile e pare che ci avviamo verso quel giorno, in cui, anche i migliori pacifisti del mondo preferiscano in un momento di legittima impazienza lo scoppio violento all’eterna e pericolosa tensione.
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21911-1915
In pochi giorni si riapre il Parlamento per una sessione piuttosto lunga. Il ministro delle finanze presenterà il bilancio preventivo e, senza dubbio, uno schema di legge per l’assunzione del nuovo prestito corrispondente al credito militare straordinario votato dalle Delegazioni. Si può prevedere quindi che la Camera avrà e coglierà l’occasione di fare una lunga discussione di politica estera. Quello che verrà più discusso sarà però la situazione interna che ne deriva. Le guerre e gli armamenti hanno colto lo Stato in un brutto quarto d’ora. Il compromesso boemo è arenato, per non dire in secco. Ciò vuol dire che si procrastinerà di nuovo la riforma tributaria, quella che deve dare i nuovi e sempre più reclamati cespiti d’entrata. E questo a sua volta significa che l’Austria dovrà tirare innanzi con un altro bilancio posticcio, fatto di mende e rattoppature. Si avvicina così il tempo in cui l’emissione di un grande prestito si fa sempre più urgente. Si parla di 500 e forse di 800 milioni. Non è il caso di pensare che un tal prestito possa venire collocato all’interno; ed infine non rimarrà che il mercato di Parigi. Ma qui appunto la situazione estera aggrava le difficoltà. Anzitutto c’è la Russia che attende da tempo di piazzare sullo stesso mercato un prestito ancora più forte, si dice d’un miliardo, e naturalmente per ragioni politiche la Russia è a Parigi preferita . In secondo luogo i finanzieri parigini non ignorano che la Turchia e gli Stati balcanici, cioè i belligeranti d’oggi sono gli unici stati, di fronte ai quali la Monarchia austro-ungarica sia creditrice. Ora codesti crediti coi moratori proclamati e coi pericoli della grande guerra sono ridotti al 50 per cento del loro valore. Non v’ha dubbio quindi che anche dal punto di vista economico, l’Austria-Ungheria avrebbe avuto tutto l’interesse, nel promuovere la pace. La guerra balcanica fa certo del danno anche agli altri stati produttori, come la Germania e la Francia, la quale ultima aveva già finanziate in Turchia parecchie costruzioni ferroviarie e canalizzazioni, la cui attuazione viene ora in causa della guerra rimandata a chi sa quando. Anche l’Italia non può riattivare subito efficacemente il commercio levantino e rialzare le industrie dei tessuti. Ma per questi stati si tratta di minore o mancato guadagno, per l’Austria-Ungheria si tratta invece di imbarazzo finanziario. Così le complicazioni estere sono venute ad acuire le difficoltà interne. Per un nesso logico dell’economia pubblica ritornerà naturalmente in discussione il fatto del rincaro, dell’importazione della carne e dei cereali. I socialisti preparano già le loro mosse demagogiche che coglieranno come il solito i partiti borghesi completamente impreparati. L’unico che può trarre vantaggio da tale situazione intricata è l’attuale ministero. Il conte Stürgkh se ne sta tranquillamente al timone. La nave non va avanti e gli scogli vecchi sono sempre lì, insuperati. Ma intanto le cure per la conflagrazione balcanica distolgono lo sguardo dalle miserie della politica interna ed il rumore del di fuori pare venuto apposta per non far notare che viceversa al di dentro la macchina è ferma ed il mulino gira, ma non macina.
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21911-1915
Abbiamo letto nella Reichspost di sabato un commento molto simpatico sulla pace di Losanna . Oltre che gran lodi della forza morale e materiale dimostrata dall’Italia nell’impresa libica, vi si esprime anche la fiducia che la nuova conquista africana varrà a rassodare i vincoli della Triplice. Leggendo, abbiamo ricordato altri articoli ed altri commenti. Anche la Reichspost, la quale, prima che scoppiasse la guerra, in una serie d’articoli aveva patrocinato innanzi alla Turchia la penetrazione economica dell’Italia a Tripoli, dopo l’attacco di Prevesa perdette completamente l’equilibrio. La paura che le cannonate del duca degli Abruzzi ridestassero i popoli balcanici fu decisiva; e d’allora in poi anche la Reichspost, la quale non rappresentava certo i creditori del Debito pubblico ottomano, fece assieme alla stampa ebraica la campagna italofoba, gettando il sospetto sulla Triplice e consigliando degli extravalzer colla Russia. Ora la situazione si è rapidamente capovolta. I triplicisti potranno rallegrarsene, ma noi oggi lasciamo le considerazioni di politica estera. La resipiscenza della Reichspost ci fa piuttosto ricordare tutta la campagna d’odii e d’improperi che, allo scoppio della guerra, si inaugurò non contro il Regno d’Italia semplicemente, ma contro la nazione ed il nome italiano. L’abbiamo scritto nell’ottobre dell’anno scorso e lo ripetiamo oggi a guerra finita. Sull’opportunità d’intraprendere o meno la nuova conquista africana, sui mezzi, coi quali venne provocata, gli italiani potevano essere di parere diverso ma quando si ebbe coscienza delle inimicizie che si rivelavano da tutte le parti contro la nazione, allora dentro e fuori i confini politici del Regno d’Italia, gli italiani sentivano che la guerra diveniva un’impresa della stirpe che, al di là di ogni conquista terrritoriale per uno Stato, aveva sopra tutto un valore etnico. Quando abbiamo scritto questo, quando in faccia agli insulti di certa stampa abbiamo gridato: «Vittoria alle armi italiane!», allora le oche del Campidoglio tirolese hanno fatto il solito schiamazzo. La simpatia dei trentini per i soldati d’Italia diveniva sospetta; l’ostilità a Maometto V , diventava alto tradimento per Francesco Giuseppe I. Fu un altro argomento validissimo per la campagna antirredentista. I giornali, gli opuscoli sono là a testimoniare questo quarto d’ora della mentalità di certi signori enipontani e bolzanini. E tuttavia noi non ne avremmo fatte proprio tutte le meraviglie se questa diversità di simpatie degli italiani e dei tedeschi nel Tirolo di fronte alla guerra libica si fosse contenuta entro le manifestazioni delle due nazionalità come tali. Infine noi comprendiamo che la posizione dei trentini e dei tirolesi sarebbe alquanto diversa di fronte ad una guerra della Germania poniamo colla Francia o coll’Inghilterra. Vero che in ogni caso gli italiani sarebbero più corretti ed avrebbero come nutrono il massimo rispetto per ogni eroismo, si chiamino gli eroi Teodoro Köner, o Andrea Hofer. Ma quello che dovette meravigliare maggiormente fu il contegno di chi per il suo posto e per il suo compito dovrebbe mantenere quella serenità che talvolta ai partiti in lotta viene meno. Invece abbiamo visto girare per Innsbruck, applaudite, delle cartoline insultanti non ad un tal comandante o ad un tal reggimento, ma all’onore e alla dignità del nome italiano. Dov’è l’autorità politica chiamata a tutelare la buona armonia fra gli italiani e tedeschi nel Tirolo, dov’era l’autorità rappresentante dell’Imperatore, alleato di Vittorio Emanuele? Dov’era? In giro per tutte le botteghe del Trentino a sequestrare le cartoline della guerra libica ed a proibire le rappresentazioni cinematografiche. Codesta sì che è politica fine, diplomazia squisita di uomini, a cui si spiega innanzi un orizzonte vastissimo! Anche la colletta per i feriti dell’Africa ha messo in moto gli organi governativi. Abbiamo chiesto notizie ad un croato bosniaco, se in Bosnia, quando si fece la colletta per i feriti turchi gli offerenti mussulmani avessero avuto delle seccature. Ci rispose, meravigliato, che tutto s’era fatto nella più ampia libertà. Perfino in Croazia, sotto il dominio di Cuvaj la cosa fu meno sospetta che in Tirolo. Si trattava naturalmente dei turchi. Oggi, noi, italiani, ce ne vendichiamo pubblicando l’appello del baron Kathrein capitano del Titolo, per la croce rossa austriaca. Se esso non frutterà non sarà colpa nostra, ma di chi vuole educarci a spiare in ogni impulso di popolo la prova dei suoi sospetti polizieschi.
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21911-1915
L’Alto Adige di ierlaltro narrando del processo fatto all’abate Giovanni a Prato dai liberali trentini, quando egli ritrattò il suo voto a favore delle leggi confessionali, e della condanna che inesorabilmente gli fu inflitta (con sessanta voti contro sei) ricorda come, in quell’adunanza dove accanita si levava l’accusa e debolissima la difesa «uno dei più simpatici nostri uomini politici, il cui precoce recesso dalla vita pubblica non sarà mai abbastanza deplorato» sarebbe stato del terzo parere. «Io, povero Zacheo perduto nella folla, non mi sentivo d’accordo né con un partito né coll’altro e pensavo: come potete pretendere che un prete, un vero prete, si metta in conflitto col suo capo gerarchico? Non capite l’atroce dilemma nel quale si dovette dibattere don Prato, quello di sottomettersi o di gettare il collarino! Dilemma che sarebbe cornutissimo per tutti quando si trovassero a consimili alternative? Ora io dico: colpa vostra dare il mandato ad un prete, sia pure largo d’idee, perché da lui non potete pretendere che all’evenienza contraddica al suo passato, alla chierica, ai sacri giuri che ha proferito. L’avete voluto? Subitene le conseguenze, e lasciate il povero uomo a digerire il rimorso d’avere accettata una candidatura che poteva prevedere, dal vento che tirava qua e là, incompatibile colla sua veste sacerdotale. E due o tre volte fui per levar la mano e chiedere la parola per dare sfogo a coteste mie convinzioni. Ma la timidità che, se anche non paia, è un costitutivo del mio temperamento e l’avvicinarsi per me dell’ora della partenza paralizzarono cotesta mia velleità. E mi dolsi poi della mia debolezza come mi dolgo tutt’ora: perché mi parve e mi pare che il mio ragionamento convenisse o convenga ad uno che si senta libero davvero». Che tale sia il genuino pensiero liberale, non ne dubitiamo. A quest’anima in pena, a questa candida anima liberale che soffre perché vede l’abate a Prato tra le morse di un dilemma cornutissimo, non balenò forse mai, neppure come barlume l’idea che il dilemma non era né dilemma né cornuto e che perciò tutta la tragicità della situazione del prete rinnegato dai suoi amici in nome della libertà, era una costruzione convenzionale. Al sacerdote a Prato erano infatti aperte tre vie: o non accettare la candidatura, o accentandola votare in favore di una di quelle tre leggi in parlamento (e fin qui arriva anche l’anima candida) oppure anche votare contro. L’ipotesi non è assurda. Le leggi confessionali ben lo doveva sapere il Prato che aveva studiato teologia, violavano diritti inalienabili della Chiesa: le leggi confessionali violavano diritti sacri della coscienza individuale, le leggi confessionali inceppavano l’attività puramente spirituale dei vescovi, le leggi confessionali davano in mano ai governanti nuovi mezzi di opprimere i popoli e di snazionalizzarli, le leggi confessionali erano quindi una negazione della più elementare libertà: qual meraviglia se un prete, milite, dobbiamo credere convinto, della Chiesa e insieme propugnatore di libertà si fosse opposto a quel tentativo di asservimento? E cosa avrebbero potuto rimproverargli i suoi elettori, il buon popolo trentino, che cosa i suoi amici anch’essi ardenti assertori di libertà per tutti? Non era anzi da sperare che pur essi si sarebbero uniti – logicamente – a lui, e al suo avrebbero aggiunto il loro suffragio? Invece la storia ci dice che tutti i liberali trentini votarono contro la libertà della Chiesa, e quel che sarebbe toccato al prete se avesse fatto altrimenti lo sappiamo dal processo che gli si fece dippoi. La ragione è altrettanto semplice quanto irragionevole. Per «uno che si sente liberale davvero» il dilemma dell’abate Prato era assolutamente cornuto: o con noi e contro la Chiesa, o con la Chiesa e contro di noi. Il terzo partito: con noi e con la Chiesa non si può nemmeno pensare; è assurdo perché è clericalismo. Lo sentono i liberali, lo sentì l’abate a Prato; e tra quelli un’anima candida non osava pretendere che questi contraddicesse «sacri giuri che aveva proferito»; questi a sua volta comprese più che non voleva confessare che egli era caduto in contraddizione colla Chiesa, con quella Chiesa cattolica, infallibile nei suoi insegnamenti e inflessibile nei suoi principi, con quella Chiesa non politica, non clericale, non umana che è proprio la semplice Chiesa di Cristo, alla quale vogliono pure appartenere i liberali, e perciò non tentò neppure di appellare alla sentenza vescovile che lo aveva sospeso a divinis. Quella volta per non essere clericale aveva cessato di essere cattolico, e per ritornare cattolico – come la coscienza gl’imponeva – dovette divenire clericale. E perciò i liberali veri, quelli che davvero si sentivano tali, lo scomunicarono, affermando che tra loro e lui c’era ormai un abisso. Quell’abisso che non è ancora colmato, né lo sarà .
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21911-1915
Vienna, 7. Questa settimana la commissione del bilancio vide un mutamento di scena che poco tempo fa si sarebbe ritenuto impossibile. L’on. d.r Bugatto chiese anzitutto se, dopo sei mesi di studio, il sottocomitato per la Facoltà giuridica italiana potesse dar prova dei suoi progressi. Uno dei membri, presente all’interpellanza, scoppia in una risata. Il presidente, l’on. Rosner, pure presente, nota che il sottocomitato è monco. Il rappresentante degli Sloveni, nominato a far parte delle delegazioni, depose il mandato nella commissione del bilancio e, per conseguenza, nel sottocomitato per la Facoltà. Bisogna dunque coprire il posto vacante: ciò fatto, egli indirà una seduta e riferirà. L’on. d.r Bugatto, non contento di tali dichiarazioni, fa proposta formale che entro il novembre il sottocomitato debba corrispondere all’incarico affidatogli; caso contrario, la questione della Facoltà giuridica viene rivocata alla commissione del bilancio. Sua Ecc. l’on. Korytowski, presidente della commissione, risponde che alla fine della seduta metterà ai voti questa proposta. Nei corridoi, durante la giornata, in mezzo ai discorsi sulla guerra balcanica e sulle delegazioni si trova tempo di almanaccare intorno alla proposta Bugatto. Riuscirà o sarà bocciata? Fu un colpo felice o sbagliò centro e bersaglio? Si arriva alla fine della seduta, si vota: nessuno si oppose. Il sottocomitato dovrà svegliarsi; altrimenti sarà condannato al sonno eterno e dalla sua morta gora la Facoltà rientrerà da sé nell’agone del bilancio. Come si spiega questa sorpresa? Mah! la guerra libica è finita; la Triplice sente il bisogno di stringere a sé maggiormente l’Italia; i tedeschi dell’Austria vedono con angoscia crescere l’influsso slavo per le vittorie degli alleati balcanici contro il turco e vanno spiando coll’occhio errante se possono trovare qualche appoggio contro la montante marea. In questo momento si ricordano di nuovo che vi è un blocco romano; quel blocco di cui l’on. Erler parlava sempre con tanto sprezzo. A proposito, colla scomparsa dei turchi dalla Libia è scomparso anche l’on. Erler dalla commissione bilancio. Forse non gli dava il cuore di vedere risorta la questione della Facoltà. Intanto procedono pure le trattative per le cattedre all’Accademia Revoltella . Al Ministero dell’istruzione si annunzia un nuovo passo avanti. Immaginatevi che a un professore, credo di diritto commerciale, andato in pensione se n’è già sostituito un altro. E poi gl’italiani si lamentano! Anche il decreto per le cattedre nuove dev’essere in corso. Veramente, la scorsa estate si diceva ch’era già spedito e il Luogotenente di Trieste negava d’averlo ricevuto, faceva poca buona figura, per quanto sembri che certe posizioni non portino con sé la consuetudine di dire la verità. Del resto il «principe rosso» non fa mistero della sua poca benevolenza per quel decreto... Farà di tutto per poter dire che non è arrivato: e quando non potesse negarlo, farà di tutto per non doverlo eseguire. Tanta avversione per sì poca cosa! E che non si debba dire col poeta spagnuolo: «Molto fracasso per nulla»!
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Budapest, 14. Non so come, errando una mezz’ora senza meta, per digerire la paprika del desinare, e le discussioni sulle ferrate bosniache, sia capitato proprio in una viuzza del ghetto. Allungai il passo per non invischiarmi di quell’unto che pareva colar fuori da tutte le botteghe di scannatori e panettieri, quando un gruppo di ebrei che sedevano sur una pancaccia a leggere il giornale mi arrestò il passo e l’attenzione. Era un numero dell’Anup che il più giovane dei quattro leggeva ad alta voce, mentre un vecchio dalla barba bianca che gli sedeva a destra guardava in atto triste una illustrazione dello stesso giornale piegato. Altri due vecchioni, sedendo, tenevano il capo chino verso terra e pareva piangessero. Colpito dal loro atteggiamento, che mi ricordava il biblico pianto super flumina Babylonis, mi appressai in silenzio, guardando più attentamente. L’illustrazione rappresentava un grande rogo di soldati morti sul campo di Köprülü, ove ne caddero troppi, per poterli seppellire. Azzardai un saluto e chiesi perché fossero così tristi. «La guerra signore, mi rispose il più giovane in tedesco, la guerra! Leggiamo ora la notizia di trasporti di truppe, stamane ho visto anch’io un treno intiero alla stazione orientale». – Sono paure esagerate, risposi, non si tratta di mobilitazione – «La guerra distrugge il lavoro di molti anni, continuò (come se non mi ascoltasse) il giovane – e noi siamo rovinati». I vecchioni assentivano col capo. Alle mie domande mi spiegarono che dopo lo scoppio della guerra balcanica, gli affari del ghetto vanno male. Trafficavano di roba vecchia e rivendevano ai contadini balcanici gli avanzi dell’Europa. Ora nessuno compera più nulla. Ma che avverrà mai se la guerra si farà anche da noi? I vecchioni piangevano pensando non proprio a Sionne rasa a terra, ma al loro ciarpame ammassato nello sfondo della bottega, raccolto giorno per giorno sotto le finestre dei borghesi in bolletta, accorsi quando li richiamava la solita voce lamentevole del rigattiere. Tanta roba portata a casa nel sacco verde unto e ingiallito – veicolo commerciale che resistette ad ogni progresso – ora marcirebbe irremissibilmente. I quattro ebrei parlavano di ciò e piangevano per questo: ecco la politica del ghetto. Del ghetto? Ma non è forse, sotto altre forme, la politica di migliaia e migliaia, nei caffè, alla borsa, nei magazzini dei cereali lungo il Danubio fino ai grandi magazzini della città nuova, nelle banche e nei grandi bazar del Belvaros (quartiere del grande commercio)? Così la scenetta che in altri tempi mi avrebbe suggerito il ricordo delle lamentazioni dei profeti, oggi mi riconduce alla vita del momento, illuminandone meglio le sue relazioni. È vero, qui siamo lontani dalla poesia, siamo anzi in fondo alla prosa. Il ghetto è materialista ed ha trafficato perfino l’arpa di Davide. Della sua politica non possiamo sempre tenere conto, e comprendiamo per esempio che i serbi cantino vittoriosi sul «campo dei merli» le strofe del loro poema omerico, mentre fumano ancora i roghi dei caduti. C’è uno spirito di guerra ch’è soffio d’idealismo generoso, di fronte al quale ogni considerazione d’interesse materiale ricorda il grido stridulo del rigattiere. Ma se la guerra si fa solo per gli interessi economici? Non è infine anche questa politica del ghetto? Ed allora consideriamola dal punto di vista del traffico, delle cose che marciscono e di quelle che distrugge, delle energie che arrugginiscono e di quelle che annienta. Io non credo alla grande guerra per un piccolo porto. Una grande guerra ha la sua epopea, e qui l’epopea manca completamente. C’è invero nell’aria un cozzar d’armi che di lontano può sembrar rumore di guerra, ma più s’avvicina e più il rumore diminuisce. È un rumore fatto per chi ascolta di lontano. Berchtold intanto cerca la formula, o meglio la cercano in tre: Berchtold, Danev e Guglielmo II , e la cercano perché il vecchio imperatore vuole adempiere ancora una volta la sua missione di pace innanzi all’Europa. La ricerca dev’essere proprio difficile. Questa formola turco-serbo-bulgaro-adriatico-orientale dev’essere qualche cosa come lo stile unno-magiaro che hanno tentato gli artisti ungheresi. Un pochino ne sanno tutti i visitatori dell’esposizione veneziana. Qui i tentativi di codesta nuova architettura si vedono ad ogni passo, ma poichè lo stile non è ancora trovato, è impossibile descriverlo. Probabilmente l’unno è ciò che è tozzo, il magiaro quello ch’è copiato dai mori, dagli egiziani e dagli alessandrini. Per finirla s’è ficcato in mezzo anche lo stile liberty europeo. Metteteci sopra ancora un po’ di vetri colorati, molto oro falso e delle finte puszta, ed ecco lo... stile nazionale ungherese. Non siete riusciti a immaginarvelo? Ed allora avrete un’idea molto chiara della complessità della formula che si va cercando. La quale però, state certi, si troverà. La guerra è troppo brutta, se non è necessaria. Ieri i delegati ne hanno sentita la voce terribile. Sul campo di manovra per l’artiglieria di Haismaker, circa a tre ore di ferrovia da Budapest, il ministro Auffenberg li aveva invitati ad uno spettacolo raro ed interessante. In diverse posizioni dell’immensa estensione stavano venticinque specie di mitragliatrici, fucili a macchina, mortai e cannoni. Un generale del comitato militare (supremo consiglio tecnico) spiegava i progressi della chimica e della meccanica ed illustrava la sua descrizione, facendo far fuoco da tutte quelle bocche d’inferno, alcune delle quali sono ancora pel periodo di prova. Si sentì il secco martellare delle mitragliatrici, i colpi dei cannoni da montagna, la tempesta dell’artiglieria da compagni a tiro rapido, il rombo dei pezzi d’assedio, il fragore dei mortai da 24 cm, trascinati dalle automobili. Per tre ore i nomi di ecrasite e trottil divennero famigliari, per tre ore si spiegarono i nuovi congegni, i nuovi raffinamenti dell’arte di uccidere moltissimi in un momento solo. Infine vennero sparati cinque colpi dai cannoni d’assedio di 30.5 cm. Il mortaio venne trascinato da un’automobile da 100 HP, la bomba lanciata pesa circa 400 chg. e costa 1200 corone il pezzo. Il proiettile raggiunge all’altezza di 4 mila metri e più e cadendo può sventrare una corazzata o spezzare cemento portland, a 4 metri di profondità. Se i Bulgari avessero alcuno di quei mostri ad Adrianopoli , la città sarebbe caduta. Quando si fece fuoco, l’esplosione fu enorme, la granata si aprì la via verso il cielo, tagliando l’aria con un sibilo orrendo, e ufficiali e borghesi rimasero per un momento come muti. Questa era dunque la voce della guerra, l’urlo della belva che noi, figli della grande civiltà moderna, alleviamo con ogni cura ed a prezzo di qualunque sacrifizio! E gli eroi dell’epopea avvenire, gli Aiaci, gli Achilli, gli Ettori d’un’Iliade del 2000 saranno questi artiglieri che spostando senza sforzo alcune leve faranno ben altre stragi che quelle delle porte Scee! No, la guerra moderna è troppo brutta, per farla, anche quando non è necessaria.
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21911-1915
Vienna, 21 Gli slavi sono ancora impegnati nelle lotte vittoriose coi turchi e già i tedeschi corrugano la fronte e mostrano sgomento del proprio avvenire. Gli slavi hanno infatti la forza del numero, alla quale ogni giorno più va avvicinandosi quella della coltura e del denaro. Ora improvvisamente vi s’interza, non la coscienza di sé, già forte e sicura, ma l’orgoglio e l’entusiasmo del risorgimento da una schiavitù secolare: di un risorgimento operato con le loro forze, a sorpresa e a dispetto d’Europa, con gesta ammirande che faranno epoca nella storia e che mettono fine all’onta più grave, sopportata e mantenuta per tante età dalle grandi potenze occidentali. Quello che nessuno si attendeva, è avvenuto: qual meraviglia che i tedeschi osservino il repentino rivolgimento muti e pensosi? Prima, ai confini orientali e meridionali della Monarchia, non si trovavano che staterelli slavi, usciti poco fa dalla schiavitù dei mussulmani, che dominavano pur sempre vaste regioni abitate dai fratelli dei popoli redenti. Chi avrebbe potuto paragonare le condizioni degli uni e degli altri con quelle degli slavi soggetti all’Austria? Eppure l’indipendenza nazionale lusingava non pochi che, specialmente in Croazia, guardavano oltre il confine, e i botoli di Belgrado, dietro ai quali stava l’orso russo, digrignavano i denti e si rizzavano sulle zampe quando l’Austria-Ungheria annetteva la Bosnia-Erzegovina. Che sarà d’ora in poi? I prodromi sono certo tristi. Sustersic, il fedelissimo Sustersic, pur rinnovando le proteste d’inconcusso attaccamento, tenne alle delegazioni un discorso tale sul nuovo impero illirico da suscitare le preoccupazioni tanto della Reichspost che della Neue Freie Presse; e Korošec, il suo primo aiutante, annunziò testè in quel medesimo consesso che gli sloveni non tollerano dubbi sulla loro fedeltà, ma non tollerano nemmeno che si faccia a fidanza colla stessa. Ma questo è poco. I deputati serbi di Serajevo, e con essi i dignitari insigniti del voto virile , plaudono ai connazionali che cacciano il turco d’Europa e biasimano l’Austria che vuol mettere un limite all’espansione verso l’Adriatico; a Spalato, città signoreggiata dai radicali, le dimostrazioni di simpatia ai connazionali vincitori pigliano forma ed espressione d’irredentismo; lo stesso avviene a Sebenico, ove prevalgono e governano i conservatori; nulla poi si dice di Zagabria, dove il sospettoso e ferreo regime del Cuvaj, croato datosi anima e corpo ai magiari, non riesce a soffocare grida sediziose e scandalose. Se questo è il principio, che sarà la fine? Bisogna ben convenire che quando certi tedeschi manifestavano le loro simpatie e preferenze per i turchi, erano anzitutto e soprattutto tedeschi. Caritas incipit ab ego. Così dai tempi antichissimi fino a Richelieu, fino a Mazzarino e ai nomi più moderni. Ma se ne vedono anche delle altre singolarità. Ecco la Prussia che espropria forzosamente i polacchi e, nel recente comizio socialista di Berlino, proibisce a Jaurès di parlare francese, a Grey di parlare inglese; ecco l’Austria, lo Stato poliglotta per eccellenza, la negazione vivente delle autonomie nazionali, l’incarnazione del diritto storico, proclamare il principio nazionale per gli stati balcanici e in modo speciale per l’Albania. Vero: di tratto in tratto, dicono ch’è un argomento ad hominem, una ritorsione contro i serbi, corsi alle armi in nome della libertà; ma l’osservazione si confonde e si perde negli entusiasmi che di questi giorni si sprigionano in Austria per la indipendenza e l’unità nazionale degli albanesi. Chi sa che in questo periodo di effervescenza qualche dotto alemanno non ci regali l’opera più erudita sull’origine, lo sviluppo e il valore del principio nazionale? Viceversa chi oggi non si scalda più per i diritti delle nazioni e afferma invece il diritto d’espansione e di conquista sono in Austria – il Kramar e il Masaryk, il filosofo ed il politico dei cechi che hanno sempre preteso e pretendono di essere in prima fila a combattere con l’emancipazione delle nazioni non tedesche dell’Impero. Anzi il Kramar rimprovera l’Italia di non aver continuata la guerra di Tripoli, rendendo più facile alla Turchia la resistenza contro gli alleati slavi, e assicurava che questi, e in genere i loro connazionali, ne avrebbero serbata all’Italia poca simpatia e triste memoria. Che filantropo! Che idealista! Ma, adagio ai mali passi! Quando si tratta di distinguere gli albanesi a favore dei serbi, egli dimentica tutte le belle teorie del liberalismo classico, chiede meravigliato che ragioni si possano mai accampare in favore della preda adocchiata dal Re Nicola e da Re Pietro e di nuovo manda intemerate all’Italia che, insieme con l’Austria – dopo le vittorie degli alleati – accetta il principio nazionale slavo contro l’oppressione turca, ma propugna lo stesso principio in favore degli albanesi contro gli slavi. Però, quando – in tale questione – si dice l’Italia, bisogna andar cauti a distinguere. L’Italia vuol dire il Governo; perché la stampa, come al solito, gioca di fronda e non si commuove affatto per la vivisezione dell’Albania. Pare impossibile! Sono di ieri le odi del Manzoni, gli inni del Berchet, del Mameli, del Mercantini, ultimi suoni d’una tradizione perenne nella letteratura classica; sono di ieri le lotte combattute al ricordo o al suono di quei ritmi; e la scena è così radicalmente mutata! Forse che la recente conquista coloniale ha segnato il passaggio vertiginoso e reciso dell’entusiastico principio nazionalista al freddo e crudo egoismo imperialista? Oh, no! Per molti non è che il prurito dell’opposizione; per altri il desiderio di far dispetto ai tedeschi, senza curarsi se con ciò tendono un servizio a se stessi e ai loro fratelli all’estero. Se costoro riflettessero, vedrebbero che la logica, nel caso presente, si accorda col vantaggio. Gli italiani della Monarchia più deboli, più combattuti, più pericolanti sono quelli delle regioni adriatiche. Il nemico loro – e non solo dei tedeschi – più accanito e più formidabile, sono gli slavi. Questi sono quelli che tendono a dominare incontrastati l’«opposta sponda», donde sognano di salpare incontro a fulgide conquiste di cui oggi salutano la gloriosa aurora. La scelta non dovrebbe essere difficile né per i tedeschi né per gli italiani e suona molto semplice: una costa albanese o una costa slava? Anche non è escluso che i tedeschi austriaci, incalzati dalla marea slava che si gonfia e rugge, siano costretti – come altre volte – a cercare appoggio nel gruppo italiano e venire a un modus vivendi con esso. Non par questo un momento tutt’altro che disprezzabile della questione? Perché dunque lasciarsi guidare da parvenze fallaci o da poveri ripicchi? Non c’è nulla da invidiare alla stampa tedesca degli scorsi mesi: non solo la cieca credenza ai bollettini turchi, o l’ira malevola contro una azione alleata; ma meno ancora – sotto l’aspetto veramente utilitario – la corta preveggenza dell’avvenire.
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21911-1915
Ci sono certi momenti in cui si ha l’istinto delle cose. Non occorrono spiegazioni e incitamenti. S’intuisce e si sente il bisogno d’agire. Mercoledì alla solenne assemblea del partito abbiamo provato tutti questo sentimento . Nell’incertezza generale della situazione politica, messi nell’impossibilità di svolgere programmi d’attuazione prossima, e probabile, sentiamo che questo è invece il momento della preparazione, ossia dell’organizzazione. Bisognerà dare al partito una base larga e sicura, premunita contro ogni attacco, da qualunque parte esso venga. Invero noi siamo, relativamente, il partito meglio organizzato del Trentino; ma non basta ancora. I nemici attorno a noi e sopra di noi sono molti; e alcuni tentano di spargere la zizzania anche dentro di noi. Contro questi e contro tutti ci vuole una compattezza, una fusione che rinnovi la durezza del macigno. Ora noi, clericali oscurantisti, reazionari, non abbiamo cercato questa forza nei conciliaboli di pochi o nell’autorità di una classe, ma nella collaborazione ordinata e cosciente del popolo intiero, chiamato a dire la sua voce in liberi comizi. Così, mentre i principi fondamentali che ispirano la nostra azione dovranno essere immutabili per l’assenso più esplicito alle dottrine della Chiesa, la marcia del nostro movimento verrà regolata e guidata dal popolo stesso, che porta la responsabilità dei propri destini. Questo indirizzo popolare c’impone però contemporaneamente dei gravi doveri. Il popolo deve venir istruito ed educato, grandi processi si sono fatti oramai nell’ultimo decennio, ma siamo ancora lontani da quel grado di educazione politica che sarebbe necessario. Perciò un doppio compito s’impone. Mentre con una mossa generale ed ordinata abbiamo da completare e formare i quadri del nostro esercito, deve diventare più intenso e più continuato lo sforzo di educazione e d’istruzione nelle varie specie di società locali e per mezzo della stampa. È questa la stagione propizia. Che nessuno si lasci sfuggire il momento opportuno, che nessuno rimpianga la fatica che oggi sarà così feconda. Per parte nostra abbiamo la coscienza di non aver mancato nel tempo addietro, ma sentiamo anche il dovere di raddoppiare l’attività nell’avvenire. Il giornale pur essendo giornale di notizie per il pubblico e dovendo soddisfare in questo riguardo alle aumentate esigenze, rimane nel pensiero un interprete fedele dei principi, come sono insegnati alla Chiesa, e nell’atteggiamento un organo dell’Unione popolare. Possiamo quindi con diritto far appello ai nostri amici perché in questi giorni rivolgano un’attenzione speciale alla diffusione della stampa. Noi dobbiamo andare avanti, irrobustirci ed aumentare la nostra diffusione. È questa una delle premesse indispensabili, affinché l’opera democratica incominciata riesca ad organizzare la vittoria del bene.
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21911-1915
Vienna, 16 L’ostruzione slovena ha già colpito la comissione del bilancio. Quella rutena lo minaccia. Che cosa faranno domani nella seduta plenaria della Camera i cechi radicali, nonostante gli scongiuri che rivolge loro nelle Narodni Listy il d.r Kramar, non si sa ancora con tutta precisione, ma si teme. È interessante udire la voce del capo dei giovani cechi. Non rinnovate, egli esclama rivolto ai suoi connazionali e soprattutto all’ala estrema, non rinnovate gli errori commessi al tempo dell’annessione della Bosnia! Il governo Bienerth (che fra parentesi fu provocato dallo stesso Kramar) ci dovrebbe aver curati a fondo da ogni radicalismo. Non opponetevi alla legge sulle prestazioni dei cittadini in tempo di guerra! Già ottenemmo parecchie concessioni in questo riguardo dal governo e più avremmo ottenuto se altri invece di ostruire la discussione ci avesse aiutati nell’opposizione. L’ostruzione contro una legge militare diretta a garantire lo Stato nei momenti così difficili, cozza contro il dogma universalmente riconosciuto alla Camera che progetti di tal natura devono godere l’immunità dalle lotte di parte. Badate che i tedeschi già pensarono ad una maggioranza coi polacchi, gli sloveni e gli italiani; badate che i cechi corrono pericolo di restare esclusi, chi sa per quanto, dalla maggioranza; non lasciatevi trascinare ad atti imprudenti come al tempo dell’annessione! Vedremo domani alle 11 l’effetto di questa predica; intanto gli sloveni sono già impegnati, per conto loro, nell’opera deleteria e la maggioranza – se nella presente Camera si può adoperare questa parola – si prepara a ribattere all’assalto. Già il pubblico conosce come si combattono queste battaglie. Nella sala rimangono il presidente della commissione, uno o due rappresentanti del governo, un collega dell’oratore, qualche sentinella, e s’intende l’oratore stesso. Giova concentrare l’attenzione su questo eroe, che vedrà nei giornali il suo ritratto o almeno il bollettino delle sue gesta. Egli parla tre, quattro, otto, dieci, tredici ore; ma parla per modo di dire. Infatti apre appena la bocca e, per udirlo, dovete sovente piegarvi e tendere attentamente l’orecchio. Le parole gli escono di bocca a lunghi intervalli, come fossero detti di profonda scienza, da lasciar cadere con parsimonia e gravità sul pubblico che... non ascolta. Ma se qualcuno si pone accanto all’oratore e si ostina a volerne seguire il filo, con suo grave disinganno gli tocca sentire ogni sorta di luoghi comuni, storielle, sciocchezze, brani di protocolli e fino di antologie, quando l’oratore non approfitti della sua vicinanza per piantare con lui un dialoghetto e alleggerirsi così la fatica. Così è fatta l’arma più micidiale che i figli più generosi del popolo e della nazione, brandiscono con tanta frequenza a Vienna, non per propulsare l’estrema offesa ma per far valere, come dicono, i loro diritti. Una conversazione comune, accettata dagli slavi e dai tedeschi, che primi inaugurarono quest’olimpica lotta, accetta siffatte commedie come discorsi e attende che l’oratore abbia finito. Più egli resiste sulla sedia alla fame, alla sete e al sonno, maggiore è la gloria che si acquista e l’invidia che suscita. Ma volgiamo lo sguardo ai suoi avversari. Le loro fatiche consistono nel dormire sul sofà, piantati in una sala di fronte a quella della commissione, e tenersi pronti ad ogni squillo per accorrere sul campo e assicurare colla loro presenza la legalità della seduta. Non è certo un divertimento passare la notte così, ma chi avrebbe mai detto che questa diventerebbe l’ultima ratio e la prestazione più meritoria per salvare la Camera? Questa notte tocca ai due italiani che si trovano nella commissione del bilancio, di dormire sul posto dell’armi. Essi lo fanno per amore della Facoltà... benché, nel migliore dei casi, sia un servizio di poca speranza! Se con tanti sforzi si riuscirà a vincere la crisi, la Camera dovrà prender subito un pasto che nessun medico permetterebbe a un convalescente. Essa dovrà approvare la legge sulle prestazioni dei cittadini in tempo di guerra, votare il provvisorio, la prammatica di servizio, il piccolo piano finanziario – imposta personale, sugli spiriti e sugli automobili – e il regolamento interno. Tutto questo in cinque, diconsi cinque giorni! C’è da ammazzare un cavallo, ma quando la Camera comincia a mangiare, digerisce i chiodi! La commissione del bilancio, liberatasi dall’incubo del provvisorio, dovrebbe occuparsi della Facoltà. Sarà vero? Caval non morire, che l’erba ha da venire...
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21911-1915
III. Preventivo comunale per l’anno 1912 [...] D.r Degasperi: Di chi è la colpa, dunque? Nostra? [...] D.r Degasperi: Riguardo all’accenno del bar. Ciani alle colpe del passato tutti ricordano benissimo chi abbia provocato la crisi che lascia così tristi conseguenze, ma rinunzio a rimestare le cose del passato. Io volevo osservare che non si tratta d’un termine di 10 o 14 giorni, perché la proposta dell’amico Cappelletti «in tempo utile» significa in tempo bastante perché l’attuale amministrazione possa prendere le sue deliberazioni ed eventualmente applicar questo o un altro bilancio; quindi la proposta della minoranza tende a facilitare la soluzione della cosa . Riguardo alla crisi che si tira adesso in campo, non comprendo i termini in cui questa crisi sia. Abbiamo un bilancio, il quale è stato visto ed è stato fatto colla collaborazione della Giunta municipale, quindi un bilancio a cui essa ha già dato la propria adesione. A ogni modo il bilancio vige di diritto ed è certo che se il Consiglio non prenderà nessuna decisione esso avrà egualmente effetto. Di guisa che se noi domandiamo per la critica del bilancio preventivo «un tempo utile», crediamo di prendere di mira precisamente il periodo entro il quale sia possibile di decidere se l’esazione delle imposte verrà fatta in base al preventivo proposto oppure in altra misura. Quindi non mi pare questione di termini, ma credo che la differenza sia essenziale. C’è la speranza in noi che in un maggior tempo che venisse dato alla commissione sia possibile di trovare qualche cosa (e i signori sanno benissimo che cosa intendiamo dire), di trovar qualche cosa da sostituire specialmente a quell’orribile aggravio del casatico del 145%; noi dobbiamo cercare di vedere se non sia possibile coprire le spese senza ricorrere all’aggravio del casatico. Non sarà poi cosa inutile ricordare all’onorevole Battisti il quale ora parla di demagogia e propugna con tanto calore il disbrigo di questo bilancio, che proprio da parte sua s’è fatta una grande campagna contro l’aumento dell’imposta casatico e che stava scritto nel suo giornale di due anni fa che un aumento d’imposta casatico sarebbe un vero delitto contro il popolo . Quindi non so perché il dott. Battisti non voglia lasciarci quel tempo che sarà necessario, e che tuttavia non compromette l’avvenire dell’amministrazione cittadina, per vedere se sia possibile far a meno di questa imposta o almeno diminuirne la misura progettata. Perché il dott. Battisti non ci lascia il tempo per cercare se si possa fare il coprimento senza commettere il delitto dell’imposta casatico? Se ho inteso bene le parole del signor Podestà, mi pare ch’egli abbia fatto questione di gabinetto sul bilancio com’è presentato. Ma, se a parte piccolissime modificazioni che è disposto a accettare nel bilancio, egli ritiene che non si potrà farne nessun’altra, credo perfettamente inutile che noi facciamo la commissione. Egli può star certo che quelle persone che accettano codesto suo criterio, voteranno stasera per i 10 giorni, e che gli altri daranno voto contrario. Ma io vi dico francamente che se non è possibile nessun cambiamento e se i signori ritengono inutile far delle modificazioni notevoli al bilancio, noi rinunciamo ben volentieri alla commissione. Questa non farebbe altro che mettere lo spolverino. In quanto all’unanime elezione del sig. Podestà , dalla quale il dott. Battisti vorrebbe dedurre che si dovrebbe sbrigare subito il bilancio per non far atto di sfiducia verso il Podestà unanimemente eletto, osservo che l’elezione del Podestà è avvenuta dopo una viva lotta elettorale, nella quale i popolari si trovarono di fronte non solo alla maggioranza, ma alla maggioranza e alla minoranza socialista insieme. In seguito agli avvenimenti delle elezioni, s’era aperto tra le due parti un tale abisso che sembrava insormontabile. Noi vi abbiamo gettato sopra un ponte eleggendo a Podestà una persona individualmente stimabilissima, ma appartenente al partito liberale. Con quest’atto di transigenza volevamo per nostro conto rendere possibile la cooperazione di tutte le forze dell’amministrazione cittadina. Di questa cooperazione s’è parlato molto anche oggi; ma noi non la intendiamo nel senso di partecipare ad un ufficio (supponiamo ad una commissione edilizia), ma nel senso di condeterminare le sorti amministrative della città, e questo si fa principalmente nella compilazione e nella discussione del bilancio. Prego il sig. Podestà di voler dare una dichiarazione esplicita circa la sostanza della questione, perché altrimenti riterremmo inutile affatto la proposta di una commissione al bilancio. [...] VIII. Nomina della Commissione di revisione del preventivo comunale 1912 [...] Il D.r Degasperi rileva che sarebbe illogico che la minoranza popolare accettasse quel mandato, del quale ha dichiarato impossibile l’esecuzione .
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21911-1915
II. Preventivo comunale per il 1912 [...] D.r Degasperi: Ho bisogno d’una spiegazione. Mi pare che il sig. Podestà ci ha messo in mano l’antica massima del male minore: cioè di scegliere fra l’aumento del 120 o del 130% del casatico. [...] D.r Degasperi continuando: [...] mettendo come condizione che la Giunta sarebbe disposta ad accettare il 120%, quando si trovasse innanzi a un voto unanime del Consiglio. Questa condizione riguarda naturalmente tutte e due le minoranze; abbiamo sentito la relazione della minoranza popolare, la quale ha presentato la sua proposta, che i signori – ritengo – troveranno molto concreta, e poi la dichiarazione di principio della minoranza socialista, la quale ha dichiarato di essere contraria al bilancio per ragioni di principio e quindi per ragioni di principio deve votar contro. Ma se fosse necessaria l’unanimità nel senso detto dal signor Podestà, la minoranza socialista si asterrebbe dal voto per render possibile quest’unanimità nel Consiglio. Ora se l’unanimità del Consiglio si intende in questo senso, ritengo che riuscirà facile anche alla minoranza popolare di astenersi dal voto, sì che la maggioranza può votare con tutta tranquillità e ottenere un conchiuso a perfetta unanimità. Vorrei soltanto vedere – e qui lo faccio per una questione pregiudiziale per non entrare minimamente nella discussione articolata – vorrei vedere come intende la sua formola il signor Podestà di fronte alla dichiarazione della minoranza socialista; perché, se ci dice che gli basta l’applicazione che ne fa la minoranza socialista, ritengo che l’accordo non dovrebbe essere difficile. In ogni caso, se si ritiene possibile ancora un accordo, io credo che vorremo intenderci. Perché sta il fatto che la minoranza, malgrado che non abbia voluto prender parte alla Commissione per le ragioni esposte all’ultima seduta e dalla maggioranza non accettate, è venuta però incontro con due proposte concrete. La prima volta, volendo eliminare del tutto l’aumento del casatico, la seconda volta invece concedendolo fino al 100%, credendo con ciò di essere venuta incontro alla maggioranza e di aver tenuto conto delle obiezioni opposte. Noi non abbiamo fatto dichiarazioni di principio, ma ci siamo messi sul terreno pratico dei momentanei bisogni. Ora la Giunta municipale, aderendo alla relazione della Commissione della maggioranza, ha fatto senza dubbio un passo d’avvicinamento accettando alcune proposte della minoranza. Su questa strada si crede possibile di andare innanzi, sarà questione da trattarsi subito, specialmente di fronte all’applicazione o meno della massima del male minore. Se questo non è il caso, per conto nostro rinunciamo volentieri alla discussione di ogni singola posta, perché tutto il pernio della controversia sta lì in questa benedetta imposta casatico. Vorrei osservare in fine che, se nella prima seduta abbiamo domandato un tempo maggiore per esaminare il bilancio, non l’abbiamo fatto per puntiglio. I fatti hanno dimostrato che c’è voluto un tempo ancor maggiore di quello prima previsto e stabilito poi nell’antecedente seduta. Se il dott. Battisti diceva ch’eran manovre di demagogia le nostre, quando domandavamo di lasciarci un maggior tempo a studiare, i fatti gli hanno dato torto, perché nel tempo maggiore un avvicinamento è avvenuto, e se questo tempo ha impedito l’aumento del 20 o del 30% sul casatico, ritengo che questi 15 giorni non siano stati male spesi, e che la nostra proposta, nei suoi risultati finali si può dire tutt’altro che demagogica.
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Continuazione della seduta 26 gennaio 1912 I. Discussione ed approvazione del preventivo comunale per l’anno 1912 Entrate effettive. Rubrica II. Proventi e concorsi diversi [...] Il Cons. D.r. Alcide Degasperi osserva che siccome le proposte della minoranza popolare circa l’uscita non sono state accolte, e il bilancio perciò posa su criteri fondamentali, diversi da quelli proposti dalla minoranza, essa, per non fare dimostrazioni ormai inutili, si asterrà dal presentare emendamenti sull’entrata, riservandosi di manifestare il suo parere nella votazione della cifra complessiva. [...] Rubrica III. Sovrimposte e tasse [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi osserva in proposito avere il sig. Podestà rilevato anche a nome della Giunta che secondo i suoi criteri di bilancio avrebbe dovuto insistere per l’imposizione dell’addizionale sul casatico del 130%, che però se il Consiglio unanimemente accederà alla proposta della Commissione di fissare la sovrimposta casatico col 120%, si accontenterà di tale aumento. Il Cons. D.r Battisti ha dichiarato allora che i socialisti per i loro principi non possono dare il voto alle imposte, ma che per rendere possibile una votazione unanime del Consiglio e impedire così l’aumento fino al 130%, i socialisti si asterrebbero dal voto. Io chiedo adesso se l’unanimità richiesta dalla Giunta per non aumentare fino al 130% l’addizionale pel casatico, può intendersi anche in senso negativo, se basti cioè che anche la minoranza popolare si astenga dal voto. [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi osserva come l’appello rivolto dal Podestà ai rappresentanti del partito popolare abbia preso le mosse da una elegante disquisizione intorno alle concezioni economico sociali dei partiti, che in seno al Consiglio comunale non è stata forse mai fatta . Gli è però forza di dissentire dal modo di vedere del sig. Podestà, quando egli tende a suddividere dal punto di vista economico, i partiti rappresentati in seno al Consiglio comunale, semplicemente in partiti borghesi e partito socialista. Per molte ragioni egli non può accogliere tale concetto, che accomunerebbe il partito popolare con quello liberale e lo metterebbe con esso nella stessa posizione antitetica coi socialisti. Esiste invece una differenza non piccola anche tra la concezione economica del liberalismo e quella cristiano-democratica, concezione che potrebbe benissimo estrinsecarsi ed esprimersi anche nei criteri del sistema tributario. Ma i popolari piuttosto nel caso concreto si differenziano dai socialisti perché, data l’attuale situazione di cose, creata da altri fattori, non si sono richiamati semplicemente ai loro principi, ma hanno fatto delle proposte concrete, collo scopo prossimo d’impedire almeno più che fosse possibile l’aggravio del casatico. Essi hanno quindi anzitutto presentata una proposta di bilancio, la quale, se accettata, avrebbe evitato tutto l’aumento proposto del casatico. La Commissione accolse solo in parte questa riduzione e la Giunta dichiarò di non poter applicare gli appalti di certi pubblici servizi a cui miravano i popolari. Fu fatta allora dai popolari una seconda proposta di transazione, di abbandonare cioè gli appalti, e concedere alle entrate un aumento del casatico fino al 100%. Anche questa proposta non venne accolta nella Commissione, ma i rappresentanti del partito popolare la sostennero però in seno al Consiglio comunale nella seduta dei 26 gennaio 1912. I loro emendamenti non vennero nella uscita accolti dalla maggioranza, per cui sarebbe logico che ora, nell’entrata, la maggioranza si assumesse anche l’intiera responsabilità. La questione però si affacciava diversamente quando il sig. Podestà pose senz’altro il dilemma: O la minoranza popolare dichiara di votar contro ed allora la maggioranza imporrà co’ suoi voti l’aumento del casatico fino al 130%, oppure dichiara di accedere alla proposta della Commissione, e la Giunta si accontenta del 120%. Di fronte al grave dilemma il partito deve fare i propri calcoli. Chiede che la seduta venga sospesa per 5 minuti dopo di che i rappresentanti del partito popolare potranno dare la loro risposta. Il podestà accorda la chiesta sospensione. Riapertasi la seduta il Cons. D.r Alcide Degasperi fa la seguente dichiarazione: «La minoranza popolare ritiene che, accettando le proposte presentate da essa prima e durante la discussione, si sarebbe potuto chiudere il bilancio a pareggio secondo le esigenze di legge e, trattandosi di un provvisorio, secondo i criteri d’una prudente amministrazione, evitare il proposto aumento sul casatico. Di fronte però alla precisa dichiarazione della Giunta che, qualora la minoranza popolare non desse il suo voto per la proposta della Commissione, la Giunta chiederebbe alla maggioranza un aumento del casatico fino al 130%, la minoranza, pur mantenendo e riconfermando il suo punto di vista, allo scopo d’impedire un aggravio ancora maggiore dei cittadini, si adatterà alla proposta della Commissione».
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Ho già esposto a voce al neoeletto Presidente , in occasione della sua venuta a Trento, lo stato presente della questione tranviaria, per quanto riguarda l’opera della deputazione e degli enti pubblici. Mi permetto di aggiungere in iscritto alcune altre risultanze di questi giorni. È noto anche ai fattori competenti di Fiemme per l’ampia e dettagliata relazione che il sottoscritto e l’on. Trettel fecero nel convegno di Cavalese verso la fine della sessione dietale come stessero le cose alla rottura delle trattative d’Innsbruck. I deputati italiani dopo lunghi e replicati sforzi, a parte dei quali assistettero anche i rappresentanti della Magnifica e della città di Trento, dovettero convincersi che per la posizione negativa assunta dal governo e le ostilità incontrate nella Provincia, l’attuazione del compromesso non sarebbe più possibile . Così oramai durante le trattative dietali la deputazione italiana aveva dovuto ridurre la sua domanda alla costruzione della ferrovia di S. Lugano da una parte (fino a Moena) e dall’altra alla costruzione di un tratto Lavis-Cembra. Anche su quest’ultima base però non venne raggiunto l’accordo, perché i rappresentanti tedeschi volevano assicurarsi le cose in modo da impedire in qualunque tempo la continuazione della Lavis-Cembra verso Cavalese. Fallite le trattative dietali e chiusa la Dieta in seguito all’ostruzione italiana, i deputati ripresero a Vienna le trattative. Il capo del Club parlamentare, il presidente del club dietale, Mons. Delugan ed il sottoscritto riattaccarono di nuovo le trattative col ministro delle ferrovie e col presidente dei ministri. Dapprincipio il ministro era completamente negativo e non aveva che rimproveri per gli italiani. Constatata l’impossibilità di ritornare indietro sulla base del compromesso, i deputati presentarono l’ultimo postulato: costruzione da parte dello Stato della Egna-Moena e costruzione a spese dello Stato della Lavis-Cembra, premesso per entrambe i già noti contributi. Ma qui si rivelarono di nuovo le differenze d’Innsbruck. Per la ferrovia di S. Lugano il ministero dichiarò [...] modo che lo Stato poteva aumentare il suo rischio. Egli presuppone che la Egna-Predazzo costerebbe circa 10 milioni. Osservo che i tecnici del ministero stesso giunsero al massimo di milioni 8. In quanto al tratto Predazzo-Moena si riservò di decidersi più tardi. Naturalmente da parte nostra si è insistito per tutta la linea. Ora lo Stato, secondo il calcolo del ministro, darebbe 2½ milioni in azioni di fondazione e garantirebbe oltre a ciò l’interesse fino a 4 milioni di priorità (assicurando a tale scopo nel contratto di esercizio un dato percento delle entrate e postergando le proprie spese di esercizio), cosicché, presupposto che la Provincia dia 1 milione in azioni di fondazione, la Comunità 1½ milioni, avremo 5 milioni in azioni di fondazione e 5 di priorità, di cui 4 garantiti dallo Stato. L’importo rimanente lo vorrebbe assunto dai bolzanini. Ed eccoci di nuovo allo scoglio. Tuttavia constatiamo frattanto un avvicinamento notevole, che lo Stato cioè sarebbe disposto a garantire 4 milioni di priorità oltre il suo contributo di fondazione. Gli italiani opposero le solite ragioni perché lo Stato finanzi da se la linea per intiero, presupposti sempre i contributi della Provincia e della Comunità. Il ministero rilevò la difficoltà d’inserire nel progetto di legge sulle ferrovie locali un aumento così notevole di contributi dello Stato (fra S. Lugano e Cembra si domanderebbero sotto varie forme dai 12 ai 13 milioni complessivamente), ed i deputati fecero notare che in Fiemme il Demanio ha un interesse diretto per l’esportazione del legname, cosiccché per la finanziazione si potrebbe forse ricorrere ad una legge ferroviaria. Il ministero si è preso tempo dalle 2 alle 3 settimane per poter dare una risposta definitiva, per ultimare nel frattempo anche il calcolo preventivo delle uscite e farsi così un’idea esatta dei risultati finanziari della linea e della possibilità di accondiscendere ai nostri postulati. Questa è oggi in breve la fase della questione. Per la verità, quale rappresentante della valle, devo aggiungere che al problema fiemmese tutti i miei colleghi della deputazione popolare rivolgono la massima cura, in specie gli on. Conci e Gentili . Allo sforzo concentrato della deputazione è riuscito ormai di superare grandi difficoltà e faremo tutto il possibile per superare anche le rimanenti, quantunque la situazione finanziaria e politica pur troppo triste non permetta di assicurarne l’esito. Senza dubbio, la nostra attività presuppone d’altra parte il riconoscimento di codesta Presidenza e del Comitato che, come ci venne riferito, venne a tale scopo eletto. In riguardo mi permetto di osservare che le nostre trattative non pregiudicano affatto le intenzioni della Comunità né la impegnano. I deputati sono costretti a trattare su quella base che la situazione politica, sia nello Stato che nella Provincia, loro impongono. La Comunità può trattare anche parallelamente l’affare tramviario, concretando piani di finanziazione privata che assicurino una conveniente soluzione del problema. Solo che prima di prendere impegni la naturale prudenza consiglierà di attendere la chiusura delle trattative che i deputati stanno conducendo. Riteniamo che lo Stato sarà disposto a concedere o appoggiare tutte quelle soluzioni che gli costino meno di quanto nelle nostre trattative chiediamo. E ancora: tutta la tattica della deputazione è inspirata dal desiderio di arrivare per Fiemme e per Cembra e per il carattere nazionale in genere alla soluzione migliore che sia possibile nella triste realtà delle condizioni politiche, e si parte dalla premessa che la popolazione fiemmese e la Comunità vogliano quanto prima una congiunzione tramviaria né pensino a rinunziarvi fino a un momento politicamente non prevedibile, in cui Stato e Provincia appoggino la costruzione della linea avisiana, che tutti certo per molte ragioni, avremo desiderato. La cessata Presidenza ed il cessato Comitato hanno agito in tali sensi. Se la neoeletta Presidenza o il neoeletto Comitato ritengono invece di poter attendere tempi migliori, preghiamo di darcene sollecitamente cenno, affinché il sottoscritto, e con lui gli altri colleghi di deputazione, possano regolarsi nella loro ulteriore condotta. In attesa e con ogni osservanza.
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I. Proposta per la tramvia di Fiemme [...] Il D.r Degasperi si dice molto lieto dell’interessamento che la Giunta dimostra per la questione tramviaria, ma sopratutto del punto terzo della proposta, cioè della dichiarazione che la città è pronta a fare dei sacrifizi finanziari. Ciò servirà a togliere l’opinione diffusa in Fiemme, che Trento si limiti a proteste e dichiarazioni. A Bolzano si è votato un ordine del giorno, ma si è anche parlato di sottoscrivere e raccogliere azioni. Un’azione in danaro va controbilanciata con un’azione in danaro. Egli vorrebbe quindi concretare meglio questo punto proponendo cioè che s’incarichi la Giunta municipale di mettersi immediatamente in comunicazione col Comitato tramviario della Magnifica Comunità di Fiemme e che adesso si facciano proposte concrete. Questo è molto urgente, poiché la Comunità Generale – da quanto è informato – intende entro un anno di raggiungere un risultato pratico; più urgente ancora, poiché si capisce chiaramente che da parte dei Bolzanini dev’essere già stato presentato qualche cosa di concreto. La Comunità Generale è dunque di fronte a un progetto completo della tramvia: anche noi dobbiamo al più presto presentare un progetto preciso, con proposte concrete le quali tengano conto che dal governo non si può ottenere che faccia oggi la ferrovia senza contributi degl’interessati. La cosa urge tanto più, in quanto può anche darsi che in autunno il governo presenti il progetto di legge per le ferrovie locali. Osserva poi al cons. Zanetti che non vorrebbe si confondessero le trattative fatte dagli italiani alla Dieta dapprima e poi col Governo centrale – trattative laboriosissime – con quelle che potrebbero aver fatte i partiti tedeschi. Quindi propone si modifichi la protesta proposta dal cons. Zanetti nel senso ch’essa sia diretta piuttosto contro l’autorità provinciale, la quale – dovendo pur interessarsene – si disinteressò delle questione di Fiemme. Il governo provinciale non solo non invitò a trattative la città di Trento, ma nessun rappresentante né, che lui sappia, altro interessato di parte italiana. Nuove trattative furono iniziate a Vienna dai deputati popolari, i quali, a fatica, poterono indurre il Governo a trattare la vertenza di cui dapprincipio voleva disinteressarsi. Ma non esistono nuove trattative di compromesso fra tedeschi ed italiani; esistono delle trattative dei deputati popolari col Governo, sulla base a cui si era in fine arrivati nelle trattative dei deputati dietali. Naturalmente, appena ottenuti degli impegni da parte del Governo, sarebbero chiamati a raccolta anche gli interessati. Ripete che non sa se i tedeschi conducano parallelamente delle trattative col Governo, ma dal convegno di Bolzano gli pare di dover dedurre che non sono molto informati delle nostre richieste. Egli è contrario alla formazione di un Comitato per questa vertenza e propone che di essa debba subito occuparsi la Giunta municipale mettendosi tosto in relazione col comitato tranviario costituito dalla Magnifica Comunità di Fiemme. [...] Il D.r Degasperi dice che le osservazioni dell’on. Viesi circa la base delle trattative, domandano delle controsservazioni. È vero che non esiste un impegno formale dei deputati per continuare le trattative sulla base dietale, ma i deputati popolari hanno dovuto trattare col Governo sulla base voluta dalle circostanze, tenuto conto delle difficoltà opposte e degli ostacoli da superare. La base delle trattative non è data da una parte sola, ma da tutti i contraenti. In quanto alla costituzione del Comitato dichiara esplicitamente d’essere contrario ad ogni tattica di tergiversazione. Nell’interesse della cosa non si può tirare la vertenza all’infinito. Veda quindi il Consiglio di non fare troppo questioni di forma. Bisogna agire subito; bisogna mettersi in relazione col Comitato tranviario della Comunità generale e fare delle proposte concrete. Si tratta soprattutto di vedere che cosa può fare il municipio di Trento: e qui la prima chiamata ad interloquire è la giunta. Un Comitato generale si potrà fare poi, quando si saranno messi d’accordo i principali interessati. [...] Al D.r Degasperi pare che sia esclusa la sua proposta, che la Giunta cioè si metta subito in contatto col Comitato tramviario della Magnifica Comunità e che faccia proposte concrete. Questa è l’unica cosa urgente. Non s’ha da perder tempo nel costituire Comitati; bisogna agire subito. È questo che deve fare appunto la Giunta comunale. [...] Il D.r Degasperi insiste alla sua volta nella sua proposta: il Comitato si potrà costituire in seguito.
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Egregio signor Presidente, riassumo, come mi riesce meglio e per la complessità della cosa e per la ristrettezza del tempo i giri e rigiri della nostra questione tramviaria. Scrissi il secondo trafiletto in «difesa» contro l’A.A. senza sapere che nel pomeriggio dello stesso giorno la cosa verrebbe trattata in Municipio. La sera innanzi il podestà aveva mostrato il conchiuso della Giunta al Dr Cappelletti: ed in questa sua prima forma il conchiuso non conteneva che una protesta ed una riserva. Capp[elletti] consigliò d’aggiungervi la dichiarazione d’esser pronti a fare qualche sacrificio finanziario. Tamb[osi] fece l’aggiunta e nacque così il conchiuso come venne presentato. Capp[elletti] il quale non seguiva la polemica dei giornali, non mi avvisò cosicché io venni colto in municipio di sorpresa. Tamb[osi] me ne avvisò cinque secondi prima di aprire la seduta. Credetti quindi opportuno prendere la parola e costringere Trento a trattare con Fiemme, affinché il tentativo di rigonfiare la questione politica venisse incanalato in uno sforzo pratico sul terreno della realtà. Durante la discussione fui in pena perché qualche nostro collega non scantinasse. Per fortuna, tranne Paolazzi che, stranamente, polemizzò un po’ con tutti in difesa della passata amministrazione, la cosa passò liscia. Dopo la seduta abbimo un po’ di spiegazioni entre nous, dalle quali si rivelò una differenza notevole. Tomasi dichiarò apertamente che basta che Trento riesca ad impedire la Egna-Moena, Paolazzi pendeva anche per questo e mi assicurò che in Cembra non si è affatto soddisfatti di un tronco Lavis Cembra e che non sa dove il Conci assunse informazioni. Cappell[etti]. non se ne occupa, Lanz[erotti] fa il sornione. In tale situazione, non conoscendo come stessero le cose con Bolzano- Fiemme, preferii troncare la polemica e manovrare con prudenza. Feci venire all’insaputa di tutti il Cristel , non volendo io stesso recarmi a Cavalese; e da lui seppi cosa era avvenuto ed a lui esposi le nostre idee ed il mio ultimo piano. Di ciò avrà riferito Mons. Delugan. Dal Cristel seppi che non fidarsi è meglio. Con meraviglia sentii che si era parlato con Siernbach, il quale era stato preannunziato dal Mazzurana, quale delegato del governo (!) E compresi che la nostra posizione da ciò è difficoltata, ma forse anche... alleggerita. Riflessi a lungo col Cristel sul da farsi e conclusi come avrà riferito Mons. Delugan. Cristel fu qui domenica 2, il giorno prima abbiamo avuto in Municipio la seduta Münz. Tamb[osi] mi aveva chiesto se la credevo opportuna. Risposi che come deputato non potrei sconsigliare un tentativo che rinnova gli sforzi per un altro compromesso, che ad ogni modo il municipio dovrebbe forse occuparsene, qualora i fiemmesi ponessero essi stessi la questione. Di qui convegno del 1, del quale sottopongo a parte una relazione d’appunti, presi durante la seduta. Bertolini era meravigliato che il Tamb[osi] per eccesso di prudenza, non mandasse qualcuno della Giunta ad accompagnare il Münz in Fiemme. La mattina del 7, prima del convegno, ricevetti per posta una copia confidenziale del responso del comitato fiemmese. La lettura d’esso fece pei rappres[entanti] di Trento impressione deprimente. Completando gli appunti, aggiungo ch’io esposi con franchezza lo stato della questione, dissi che non avevamo fede nell’avisiana, ma che tutti saremo disposti ad appoggiarla, quando si trovasse modo di renderla ancora probabile. Feci appello in ogni caso alla concordia. Trento non deve misconoscere le ragioni di Fiemme, come Fiemme speriamo non tratti unilateralmente con Bolzano, col pericolo di privarci della linea fino a Cembra. Qualunque soluzione deve emanare da un accordo o almeno da una reciproca tolleranza. Non polemizziamo sui giornali, per dar gusto ai tedeschi; discutiamo fra noi. In ogni caso evitiamo che la soluzione diventi una sconfitta politica degli italiani. Non è questione di partito. Domani ci potrà essere un altro deputato di Fiemme, ma se vuole affrontare la soluzione, si troverà nelle stesse condizioni. Dopo la conferenza dissi a De Leonardi che badassero a non guastare tutto. Noi combatteremmo anche la soluzione di Egna, quando si desse un influsso ai bolzanini. Del[ugan] mi disse ch’erano dello stesso parere. Giacom[elli] mi assicurò che non farebbero un passo, senza darmene comunicazione (!?). Ora, in quanto al piano di finanziazione, si ritorna in alto mare. Münz è partito, perché Tambosi gli ha dichiarato di voler far votare dal Municipio un dato importo per una congiunzione avisiana, senza compromettersi con un progetto qualsiasi. Che cosa Tambosi intenda fare circa il secondo caposaldo dell’ultimatum fiemmese, non lo so e forse non lo sa nemmeno lui. La Comunità respingerà senza dubbio il progetto Münz. Il Comitato ha già respinto anche il piano Mazzurana coll’affittanza dei boschi, essendo questo divenuto impopolare in Fiemme (Rizzoli?) cosicché Mazzurana, al quale parlai oggi, è di nuovo sulle onde. Richiestone dal Comitato presentò un altro piano, che sarebbe, pare: Stato fond. 2 mil. Prov. 1 Com 1 Priorità A 4% Comunità 2 Priorità B soc. Retia 4. (Tot.) 10 mil. Naturalmente, ammesso che i fiemm[esi] accettino di pagare il 6% alla Retia, c’è in ogni caso sempre la condizione che la Retia amministra ed esercita la linea. Ora, se ho ben inteso, Ella mi ha fatto sapere che lo Stato posporrebbe fino a 4½ mil. Ciò presuppone naturalmente l’esercizio in mano dello stato. Qui sta la difficoltà per una collaborazione Mazzurana. Non ho poi potuto sapere ancora se Forster le parlava di nominale o effettivo. C’è sempre la differenza del 20%. Supponiamo che sia effettivo. In tal caso lo Stato calcola che la S. Lugano renda almeno quanto la Trento-Malè, cioè 12 mila il Km. (rende molto di più), cioè fino a Predazzo 45 per 12=540000 mila. Ora con 250000 si garantisce già il 5% di 5 milioni nom., con 300 mila 6 nom. Ammettiamo quindi che la Comunità dia 2 milioni, arriveremo a 2+21/2+1=51/2 eff. Restano da garantire 4½ eff. più 4½+900=5400 nom. Che non si possa indurre lo stato a posticipare fino a tal punto? O addirittura ad assumere le priorità? Noti che una società privata esercirebbe col 60 e forse col 50%. Frattanto le allego tutti i documenti e le relazioni, dalle quali potrà dedurre come sia ingarbugliata la matassa. In ogni caso, rimango suo devss. DDeg.
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Onorevole Presidenza, l’on. Gentili ed il sottoscritto hanno avuto ier l’altro al Parlamento e stamane al Ministero delle ferrovie due lunghe conferenze col ministro delle ferrovie, rispettivamente col caposezione Ressig e cons. ministeriale Brosche. Le trattative sono procedute fino al punto che il ministro ha dichiarato di volere in ogni caso finanziare la ferrovia senza la partecipazione dei Bolzanini e col contributo della Comunità. Sono poi state da parte nostra formulate tutte le questioni in modo che, almeno per la fine del mese, il Ministero risponderà dettagliatamente [...] per parte sua, dando così la base concreta per le trattative colle parti interessate. Noi facciamo ogni sforzo per spingere i signori ad una decisione, ma d’altro canto ogni più piccola questione tecnica e finanziaria si presta per trascurare la vertenza. Il Ministero non s’è ancora dichiarato se intende giungere fino a Moena o solo fino a Predazzo. Naturalmente noi abbiamo insistito per Moena. È probabile ch’egli prepari due piani di finanziazione, uno per Moena, l’altro per Predazzo, lasciando poi alle future trattative cogli interessati il compito di scegliere definitivamente. Posso ancora annunciare che il Ministro richiesto se fosse vero, come dicevano i giornali, che il bar. Sternbach sia stato mandato in Fiemme quale emissario del governo, rispose francamente di non conoscerlo nemmeno e di non averlo autorizzato a fare dichiarazioni in nome suo o del governo circa la questione di Fiemme. Con ogni osservanza Ddegasperi
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7. Interventi sulla tramvia di Fiemme [...] Il Dr Degasperi dichiara: Non entro nel merito della questione polemica, perché oggi che il consesso di Fiemme ci dispensa dal farlo, non la ritengo utile . Le ragioni della mia posizione sono state esposte ripetutamente in adunanze confidenziali qui a Trento e vi ho accennato già tempo fa in pieno Consiglio comunale. La situazione era la risultante di parecchie forze e partiva dalla premessa che Fiemme volesse assolutamente avere una ferrovia nel prossimo progetto delle ferrovie locali. Questa volontà è stata espressa nei comizi tenuti da me e dal collega Trettel, dopo l’ostruzionismo alla Dieta, è stata confermata dai primi atti della nuova amministrazione del consesso, si è riconfermata nella lettera diretta dal Comitato al Municipio di Trento, nelle lettere dirette dal Comitato a me stesso e nel deliberato unanime del consesso ai 15 giugno, ma più che mai dall’attività intiera del Comitato stesso che per lungo tempo si occupò di finanziare privatamente la ferrovia di Egna con un gruppo inglese. Ora si presentava per un deputato di Fiemme che fosse contemporaneamente rappresentante di Trento la questione, se non convenisse muovere la risultante di tutte le forze verso una soluzione che tenesse Fiemme solidale con Trento e con Cembra, oggi per eseguire una parte del compromesso e per salvare ad un tempo posteriore la possibilità di raggiungerlo tutto. Perciò insistetti che la Lavis-Cembra venisse costruita contemporaneamente e con una potenzialità tale da poter servire più tardi al commercio fra Fiemme e Trento. In fine mi adoperai perché la S. Lugano venisse costruita coll’esclusione dei circoli tirolesi e con determinate salvaguardie nazionali. So che c’è chi ritiene la linea di S. Lugano assolutamente da rigettarsi, perché di per sé è un danno nazionale. Io non condivido tale opinione, e le mie convinzioni in proposito sono quelle di uomini appartenenti ai vari partiti tanto in Fiemme che fuori. La deliberazione del consesso ci dispensa da discutere in Consiglio la questione di principio, perché senza danari non c’è Ferrovia e non siamo quindi sotto la pressura del prossimo progetto delle ferrovie locali. Con queste premesse aderisco all’ordine del giorno combinato, in quanto esso insiste per l’avisiana o per tutte e due le linee, la S. Lugano e la Lavis-Cavalese, perché questi rimangono sempre i nostri postulati ed in fin dei conti per me ed i miei amici la base proposta dal governo era discutibile, perché si sperava con ciò di avviare l’esecuzione dell’intiero compromesso. Certo che di fronte all’avvenire un qualche rischio era inevitabile; c’è chi ritiene che per assicurare il compromesso, bisogna andare assolutamente fino a Grumes, invece che a Cembra; in ogni caso di fronte all’avvenire a fare i profeti si può trovarsi innanzi a brutte sorprese. Ripeto che voterò per l’ordine del giorno combinato, perché, data la nuova situazione creata dal consesso, ritengo che l’unanimità possa giovare ad una soluzione migliore. [...] Il D.r Degasperi fa la seguente dichiarazione di voto: Dichiaro che intendo votare l’ordine del giorno nel significato letterale che ha, senza altre interpretazioni. Mi auguro del resto di vedere che l’ottimismo del dott. Battisti nella questione di Fiemme (ch’io purtroppo, come le illusioni del dott. Viesi, non so condividere, forse perché in tale questione sono già invecchiato), divenga suscitatore d’opera efficace e che alle parole seguano i fatti; non solo per parte della borghesia, alla quale si è fatto appello, ma col concorso di tutte le classi, in modo particolare per l’opera di quei deputati che ora sono chiamati a mettersi a capo di simile azione. [...]
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I. Proposta della Commissione pel regolamento elettorale del Consiglio comunale [...] Il Cons. Degasperi crede che trattandosi di un progetto, ottenuto in base ad un compromesso, non sia il caso di accogliere innovazioni. [...] Il Cons. D.r Degasperi si associa al Cons. Bazzani nel ringraziare quanti cooperarono alla riforma: in particolare il sig. Podestà, che in questo diede prova di spirito conciliativo. È ovvio del resto, che il partito liberale raggiunse nella riforma un proprio vantaggio oltre che il bene cittadino. Rileva con piacere come in quest’opera, malgrado le difficoltà incontrate, fu possibile un’intesa. S’augura che una tale intesa si possa raggiungere ancora su altre questioni che stanno sul tappeto e sulle quali le opinioni sono pure diverse. [...] III. Comunicazioni riflettenti la questione della tramvia di Fiemme [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi con sorpresa e rincrescimento deve constatare che la relazione del Podestà è tutt’altro che imparziale. I fatti citati, per quanto li ha potuti seguire, saranno veri, ma l’ordine con cui sono posti e molto più la circostanza che molti altri che vi si connettono sono omessi, fanno il quadro complessivo tutt’altro che corrispondente alla realtà. Tuttavia per l’ultimo appello fatto dal Podestà, non entrerà ulteriormente in merito, inghiottendone parecchie, come ha fatto l’ultima volta. Ma una cosa però deve notare: che il signor Podestà, il quale di solito dimostra tanta apatia per i giornali, ha creduto necessario e conveniente portar qui nella sua relazione ufficiale due articoli dei capi del club popolare, per deplorarli, senza almeno prender notizia della polemica giornalistica di parte liberale e socialista che li ha preceduti e provocati. Questo è tanto più sconveniente in quanto ci si fa poi seguire un appello alla concordia ed a nuove trattative. In quanto all’opera sua ed all’accenno alla sua collaborazione all’ultimo ordine del giorno, quasi che si voglia metterlo in contraddizione cogli altri deputati, il Podestà sa benissimo che l’avervi aderito per parte sua, fu un sacrificio dell’intelletto, e si richiama alle proprie dichiarazioni date nel protocollo dell’ultima seduta, dalle quali apparisce che l’ordine del giorno era per lui un programma che si doveva sostenere, caduta qualunque soluzione parziale nel prossimo progetto delle ferrovie locali. Del resto se si vorrà parlare di coerenza accetta anche su questo terreno la discussione e si vedrà se possono insegnare la coerenza deputati che, sette mesi dopo aver fatta una proposta, dichiarano traditori quelli che la sostengono e la migliorano o coloro che gridano in pubblico per l’avisiana e facendo gli intransigenti a carico degli altri, dietro le quinte lavorano per la Lavis-Grumes. La Giunta vuole fare nuove trattative: ma francamente, questo non è il metodo di arrivarvi. Lavorare in sedute confidenziali ad un verso, e nelle pubbliche biasimare i collaboratori e fare i radicali alle loro spalle, questo è un metodo che non va assolutamente. Se si vuole lavorare assieme, bisogna ricostituire la fiducia e la cordialità reciproca. [...] Il Cons. D.r Degasperi presenta invece a nome della minoranza popolare il seguente ordine del giorno: «Sentita la relazione del podestà il Consiglio comunale approva che il municipio avvii nuove trattative per la soluzione della questione della tramvia di Fiemme e passa all’ordine del giorno». [...]
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VIII. Proposta di dare il nome di Giovanni a Prato ad una via cittadina [...] Il dott. Degasperi fa, a nome anche dei suoi colleghi di parte popolare, la seguente dichiarazione: Si potrebbe forse tenerlo per supposto e sottinteso, ma io credo giovi alla chiarezza delle idee ed alla lealtà dell’aringo politico l’aggiungere per parte mia e dei miei amici la dichiarazione che consideriamo la proposta di dare ad una via il nome del bar. a Prato solo dal punto di vista autonomista, al quale tutto il paese senza distinzione aderisce; non ammettendo quindi che la nostra adesione importi la più lontana acquiescenza colle teorie del liberalismo classico intorno alla scuola ed ai rapporti tra Chiesa e Stato; riaffermando anzi, colla prova dell’esperienza intercorsa, che proprio nel nostro paese la causa della libertà della Chiesa e della famiglia di fronte allo stato centralizzatore e snazionalizzatore, armonizza mirabilmente col postulato dell’autonomia, postulato che per varie vie e a traverso fasi diverse tutti vogliamo avvicinare al suo sodisfacimento.
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Nella notte dal 12 al 13 aprile 1912 la località di Gries nel comune di Canazei fu colpita da un disastroso incendio che distrusse la maggior parte delle case. Il danno dell’incendio ammonta secondo i dati dei giornali a circa 200.000 corone. Solo pochi danneggiati erano assicurati. La popolazione appartiene agli strati più poveri della regione. I sottoscritti presentano perciò la proposta urgente: «L’imperial-regio governo viene invitato a concedere ai danneggiati di Gries-Canazei un pronto e consistente sussidio dai fondi per i casi di emergenza». La presente proposta va inoltrata senza prima lettura alla Commissione per lo stato d’emergenza .
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Tutti i lavoratori giornalieri della sezione per la manutenzione di Trento dell’imperial-regia Ferrovia privata meridionale, usano come lingua corrente l’italiano. Quasi nessuno dei lavoratori conosce la lingua tedesca ed eccezionalmente solo pochi conoscono un dialetto molto cattivo, ma nessun giornaliero può leggere o comprendere la lingua scritta. Nonostante ciò, è prassi usuale della Direzione generale della ferrovia meridionale e dei suoi uffici inferiori di redigere e di trasmettere ai giornalieri solo in lingua tedesca tutto ciò che riguarda il servizio e le relazioni fra la Direzione e gli impiegati. Sono stampati in tedesco perfino gli statuti per il fondo di provvigione, a cui i lavoratori devono rifarsi spesso. A causa di questa prassi sono spesso intervenuti gravi inconvenienti ai giornalieri, com’è accaduto anche agli aspiranti cantonieri nel circondario ferroviario di Calliano, i quali hanno perduto un supplemento di paga per ore straordinarie, per via dell’ignoranza di un’ordinanza. Nello stesso genere di disagi rientra anche il dato di fatto che in alcune località vengono inviati capisquadra tedeschi che non capiscono la lingua degli operai. Con riferimento a tali circostanze, i sottoscritti pongono le seguenti domande: «1. È Sua Eccellenza il ministro delle Ferrovie a conoscenza delle situazioni sopra riportate? 2. È Sua Eccellenza il ministro delle Ferrovie disposto ad agire sulla Direzione generale della Ferrovia privata meridionale, in modo che agli impiegati sia assicurata la possibilità di tutelare compiutamente i loro diritti? »
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Eccelsa Delegazione! Nell’ultima e nella penultima sessione al centro del dibattito vi sono stati i rapporti tra Austria e Italia . Quest’anno Sua Eccellenza il ministro degli Esteri si è limitato a spiegare che tali rapporti sono buoni e che dalla sua prossima visita a San Rossore si ripromette che le relazioni tra Vienna e Roma diventino ancora più cordiali . Anche la Delegazione questa volta era distolta da altre preoccupazioni, o si era comunque considerata già superata la crisi di tali rapporti. Persino per i preparativi militari di entrambe le parti ci si è rassegnati a parlare di un «paradosso di diritto internazionale», come qui è già stato definito. Di recente, poi, in un importante giornale della monarchia si poteva leggere che un ufficiale superiore riconduceva gli sforzi dell’Italia nei preparativi militari «al fine consapevolmente riconosciuto o inconsapevolmente percepito di paralizzare la posizione geografica dominante del bastione roccioso del Tirolo»; d’altra parte in Italia si è già spenta da un pezzo la discussione mirante a stabilire se le fortificazioni austriache abbiano un carattere difensivo o aggressivo. La campagna militare in Tripolitania ha presentato alcuni sintomi che dimostrano tutti come il rinnovo della Triplice Alleanza venga interpretato in generale come cosa ovvia, sebbene i contraenti facciano quei preparativi che dovrebbero sottolineare la superfluità del trattato . Con ogni probabilità anche dagli attuali conflitti risulterà quello che Sua Eccellenza il defunto conte von Aehrenthal sottolineò due anni fa, e cioè che le possibilità di un conflitto tra Austria e Italia «non stanno nella sfera dell’alta politica, ma in quella degli attriti nazionali, delle manifestazioni e degli incidenti di confine» . Per quel che riguarda questi ultimi, come è noto, è da allora in funzione una commissione mista che vuole porre fine agli sconfinamenti mediante una più accurata revisione della linea di confine. Rimane tuttavia ancora il grave problema dei contrasti nazionali nei territori italiani di frontiera, problema a proposito del quale il defunto ministro si era assunto il compito di «trattare questi attriti in tutta serenità e nello spirito della personalità.» Poiché ora, dalle dichiarazioni programmatiche rilasciate a suo tempo da Sua Eccellenza il ministro attuale, posso desumere che anche a questo riguardo verrebbe mantenuto lo stesso programma, mi permetto di richiamare la sua attenzione anche su questi problemi. Veramente essi rientrano soprattutto nell’ambito della politica interna, ma dato che già in una analoga situazione un buon conoscitore della situazione quale Sua Eccellenza il Dr. von Grabmayr ha definito questo tema un punto d’incrocio tra la politica estera e quella interna , sia concesso anche a me di fare alcune osservazioni a questo riguardo. Non considererò la situazione dal mio punto di vista unilaterale nazionale, ma dal punto di vista degli interessi complessivi dello Stato, interessi che l’eccelsa Delegazione deve salvaguardare. Sua Eccellenza il Dr. Grabmayr affermò allora, nella 12 seduta della XXXXIV sessione, l’8 novembre 1910, con chiarezza e fermezza degni di riconoscenza, che «l’alleanza con l’Austria non può essere popolare in Italia se e fintantoché si dà motivo agli austro-italiani di lamentarsi a ragione di un trattamento iniquo». «Da questo punto di vista» – proseguiva il Dr. von Grabmayr – «a causa della ripercussione di un’errata politica interna sulle nostre alleanze estere, deploro taluni passi falsi da noi commessi nell’ultimo decennio; deploro gli eccessi sciovinistici di certi ultratedeschi, i cui inopportuni tentativi di germanizzazione del Tirolo italiano conseguono l’unico risultato di offendere il vulnerabile sentimento nazionale degli italiani. Deploro che per anni ci si sia presi gioco in modo provocatorio delle aspirazioni nazionali autonomistiche dei tirolesi italiani, deploro che l’inettitudine dei precedenti governi abbia creato la questione dell’università italiana, deploro che tale questione irrisolta gravi ancora oggi sulla situazione politica, deploro che il Parlamento non abbia trovato la forza di soddisfare questa aspirazione innegabilmente giustificata degli italiani» . Ora, signori miei, sono trascorsi due anni dalle citate dichiarazioni del signor Dr.von Grabmayr e le condizioni sono mutate solo in peggio. I «certi ultratedeschi» sono cresciuti di numero e di potere nel Sudtirolo, gli inopportuni tentativi di germanizzazione si moltiplicano di giorno in giorno, le aspirazioni di autonomia trentine vengono non solo trattate come richiesta meschina, ma sospettate anche di pericoloso irredentismo . Per quel che riguarda la questione della facoltà italiana, sappiamo tutti che essa è vissuta nella consapevolezza degli austro-italiani come un sentimento di grave torto che ci è stato fatto troppe ripetute volte . Nessuna meraviglia dunque che le sopradescritte ripercussioni sulla politica estera dal punto di vista delle relazioni austro-italiane siano diventate ancora più gravi. Tentate di fare, signori miei, un’analisi del cosiddetto irredentismo in Italia, un’analisi degli elementi di cui sono costituite queste aspirazioni, e troverete che esso, se non risale a correnti del passato, si fonda sul sentimento di solidarietà nazionale verso i connazionali d’Austria trattati ingiustamente. Se qui nel Parlamento austriaco a proposito della facoltà italiana – e non da parte italiana −, si è parlato di uno scandalo europeo, si può bene immaginare quali sentimenti susciti nell’animo della nazione italiana il modo indegno con cui questa questione viene trattata. Se un membro tedesco della Camera dei Signori come il Dr. von Grabmayr – e, grazie a Dio, egli non è l’unico tra i tedeschi – si alza in piedi per segnalare come inopportuni i tentativi di germanizzazione, ci si può immaginare con quale indignazione l’intera nazione italiana prenda atto del fatto che si mettono in serio pericolo le condizioni di vita della comunità italiana nelle Alpi. La reazione non può mancare e in tal caso è impossibile ottenere un rimedio duraturo con palliativi, con misure repressive pretese dall’alleato. Su queste innegabili e oggettive circostanze di fatto volevo per l’appunto richiamare l’attenzione del governo comune, affinché esso voglia tenerne conto nella valutazione dei rapporti con l’estero. L’interazione della politica estera e di quella interna ci portano però anche a menzionare la situazione psicologica e politico-sociale odierna degli austro-italiani, e faccio notare che le mie argomentazioni si limiteranno unicamente al Trentino. Ora, di recente si è avuta tutta una letteratura al riguardo. Sono apparsi articoli di giornale, opuscoli e libelli che descrivono la situazione in modo estremamente semplice: ovvero, l’intera regione sarebbe contagiata dall’irredentismo. Nei ceti più alti nessuna classe sarebbe esente da questa putrefazione, né i preti, né gli insegnanti, né i funzionari. La malattia si starebbe tramutando adesso in carie ossea. Solo qualche parte minore della popolazione rurale e una parte dei socialdemocratici non sarebbero state ancora intaccate. L’unica cosa utile, perciò, sarebbe una energica operazione chirurgica, una politica della mano forte. Dovrebbero essere adottate misure repressive e là dove non arrivasse l’intervento più debole delle autorità civili, dovrebbero entrare in azione i militari. E sembra proprio che questi consigli non vengano ripetuti invano. Una rete di sospetti e di insinuazioni di alto tradimento si estende da qualche mese su tutte le classi, nessuna esclusa. Non è un’esagerazione, signori miei, non tengo un discorso dalla finestra, voglio solo svolgere un’azione chiarificatrice e vi prego di controllare le mie affermazioni sulla scorta dei fatti. Si è giunti persino a controllare ragazze e signore, perché i colori di qualche capo d’abbigliamento potrebbero essere combinati nel tricolore italiano. Il Touring Club , un’associazione sportiva internazionale italiana, che da anni si è sviluppata indisturbata nelle province austriache, da alcuni giorni è stata riconosciuta pericolosa per lo Stato e i suoi stemmi sono dovuti sparire dalla circolazione. Il lato comico della vicenda è che fino a poco temo fa lo stesso Touring fu esposto agli attacchi di una parte della stampa italiana perché il suo comportamento sotto l’aspetto linguistico e soprattutto nazionale non veniva considerato abbastanza irreprensibile. Dispetti ancora più meschini sono stati messi in atto contro sacerdoti e insegnanti; il procedimento della confisca va all’infinito e quasi quotidianamente vengono istituiti processi politici. Ora, né io né il mio partito siamo interessati alla maggior parte di questi provvedimenti da un punto di vista soggettivo, o siamo stati accusati di qualche corresponsabilità. Ma proprio perché possiamo giudicare obbiettivamente questo nuovo corso della politica, abbiamo maggior diritto a protestare contro di esso. A questo proposito posso nuovamente ricordare il punto di vista di Sua Eccellenza il Dr. von Grabmayr, il quale dopo le frasi sopraccitate aggiungeva [legge]: «Con queste e simili cose si porta solo acqua ai mulini dell’Irredenta . Non con misure vessatorie di polizia si può combattere con successo l’Irredenta; contro la loro propaganda c’è un solo mezzo efficace: bisogna convincere gli italiani benintenzionati che in Austria possiedono una dimora accogliente, nella quale possono soddisfare le loro esigenze economiche, salvaguardare e coltivare con successo la loro nazionalità, lingua e cultura. Questo, signori miei, è il criterio al quale la nostra politica interna deve attenersi per accordarsi con gli obiettivi essenziali della nostra politica estera» . Ora non so se anche a Sua Eccellenza siano stati attribuiti, a causa di questi dichiarazioni, sentimenti irredentisti. So soltanto che gli italiani che da noi sostengono la stessa opinione sono stati sospettati di essere in collegamento segreto con l’Irredenta. Bisogna tuttavia chiedersi perché si è giunti a questo e cosa vi sia in realtà dietro a simili macchinazioni. E per ogni osservatore imparziale il nesso logico è del tutto chiaro. Nel Tirolo è sorta un’associazione che si chiama Volksbund e che nelle località tedesche è considerata un’associazione patriottico-conservatrice, mentre nella parte italiana della regione si presenta come un’associazione scolastica nazionale, alla quale vanno appunto collegati gli «inopportuni tentativi di germanizzazione di certi ultratedeschi.» Perciò l’abbiamo tutti respinta e combattuta. Che questo sia stato il motivo della resistenza ne è prova sufficiente il dato di fatto che il Volksbund nei primi anni è stato combattuto al grido di «Evviva l’Austria». Questi montanari devoti all’imperatore avevano appunto la giusta sensazione che un movimento che si supponeva patriottico, il quale voleva raggiungere lo scopo attraverso la snazionalizzazione, avrebbe raggiunto proprio il risultato opposto. Quello era stato il momento psicologico anche per i rappresentanti del governo nella regione; e una dichiarazione pubblica, una presa di posizione aperta contro questa aspirazione sarebbe di sicuro stata di maggiore aiuto al patriottismo austriaco di tutte le attuali contromisure. Avvenne invece che la popolazione dovette prendere atto prima di una dubbia neutralità e più tardi di una complicità più o meno mascherata di alcuni organi di governo. Da allora in questa battaglia cessarono le grida di evviva per l’Austria. Si è gridato da allora «Viva l’Italia»? No, ma l’animo semplice della nostra gente ha perduto la solida fede che aveva nel suo – vorrei dire – monismo politico; si sente costretta a mettere a confronto nella propria psiche il sentimento nazionale con il sentimento di comune appartenenza statale. Ora io chiedo: ha forse interesse lo Stato a che questa distinzione si acuisca sino al contrasto? Due avvenimenti sono più eloquenti di interi volumi. Nel settembre 1905 Sua maestà in occasione delle manovre imperiali è stato in Val di Non a Mezzolombardo. La popolazione italiana gli aveva preparato una magnifica accoglienza. A quel tempo tuttavia, miei signori, il Volksbund non era ancora comparso. Quest’anno si sono ripetute le dimostrazioni in occasione della presenza dell’arciduca erede al trono. Ora ciò è avvenuto proprio in quella zona dove il Volksbund non ha ancora iniziato la sua attività disgregatrice. Il Volksbund crea l’irredentismo proprio per ottenere le sembianze di diritto all’esistenza. Tutti coloro che si opposero per un qualsiasi motivo alla sua propaganda vennero additati come irredentisti e ogni legittimo movimento nazionale presentato come pericoloso per lo Stato. Da queste provocazioni non è al sicuro nessuno, nemmeno il nostro principe vescovo che è sicuramente la personalità più amata e popolare della regione, il cui intervento per equità e diritto avvenne in pieno accordo con gli interessi dello Stato . Così i germanizzatori creano dappertutto l’irredentismo per rendere più difficile la nostra resistenza nazionale. Purtroppo questi sforzi trovano sostegno in altre due circostanze: in primo luogo nella concorrenza politico-nazionale locale e nella competizione partitica in Tirolo, giacché in ogni occasione in cui lo Stato deve assegnare o giudicare ogni partito è tentato di far apparire il proprio rivale come nemico dello Stato; in secondo luogo anche nella incapacità politica di alcuni rappresentanti governativi della regione. L’irredentismo da noi è pure l’ancora di salvezza per geni amministrativi che rischiano di naufragare. Più scarse sono le conoscenze in materia amministrativa, tanto maggiore è lo zelo poliziesco, e se si può riferire alle alte sfere che ogni giorno si è montati a cavallo per andare a combattere contro i mulini a vento dell’irredentismo trasformati in giganti, si spera in tal modo che sotto la maschera della ferrea guardia confinaria non venga riconosciuto il Don Chisciotte. Tuttavia, signori miei, l’autorità politica quando si tratta di giustificare la propria responsabilità davanti all’opinione pubblica ha sempre subito a portata di mano un parafulmine politico; ammette gli errori, ma aggiunge con aria misteriosa un’unica parola che chiarisce tutto: i militari. È vero questo o no? Detto apertamente, non ho altre prove e vorrei proprio che risultasse che i militari vengono calunniati. È tuttavia accaduto che alcuni ufficiali si siano spinti troppo oltre, che alcuni comandanti delle guarnigioni di frontiera, presi da una certa ossessione di spionaggio, abbiano tolto la pace alla popolazione; mi mancano però i documenti necessari per stabilire se è vero che la più recente politica di vessazioni sia stata in generale ispirata dai militari e se è vero che le aspirazioni del Volksbund sono da loro appoggiate energicamente . Una cosa certa è che nessuno sarebbe tanto interessato alla smentita di questa fama quanto l’esercito stesso. Il militare, specie nei territori di confine, è chiamato a rappresentare la personificazione vivente dell’intero Stato, il militare indossa l’uniforme dell’imperatore che protegge i diritti e la parità di diritti di tutte le nazioni, il militare sta quindi al di sopra di tutti i contrasti nazionali; e al di sopra di ogni punto di vista locale e di ogni manifestazione transitoria della politica, rappresenta il punto di vista degli interessi generali dello Stato nei confronti dell’estero e dell’interno. Dallo stesso punto di vista, signori miei, dal beninteso punto di vista austriaco, desideriamo nec plus nec minus che la nostra posizione venga giudicata senza pregiudizi come quella di un popolo che mantiene e può mantenere più strette relazioni culturali con la vita nazionale della sua progenie, ma contemporaneamente vive in una roccaforte che viene considerata, per motivi militari e geografico-commerciali, come facente parte della proprietà immutabile della monarchia. Date a questo popolo la possibilità di diventare il pegno migliore e a basso costo della pace e farete al tempo stesso la migliore politica interna e estera, − ovvero con un trattamento liberale degli austro-italiani si conseguirà il rafforzamento dell’alleanza, e tramite l’amicizia politica con la nazione italiana uno sviluppo più tranquillo e sicuro al confine austriaco.
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1,912
3Habsburg years
21911-1915
Il 6 settembre sulla zona del comune di Fornace (distretto politico di Trento) e su quella di S. Mauro (frazione di Baselga Pinè), distretto politico di Trento, si riversò un terribile temporale con grandine. In base ai rilievi curati dai periti del luogo il danno causato ammonta a circa 16.000 corone per Fornace e a circa 10.000 corone per S. Mauro. Dato che da parte del capitanato distrettuale di Trento sono già stati avviati con una sollecitudine degna di lode i provvedimenti a tale riguardo, i sottoscritti presentano la seguente proposta d’urgenza: «Tenendo conto che la situazione di queste località, in seguito al danno subito negli anni precedenti e alla grande difficoltà economica nella quale si trova costantemente, dovrebbe essere oggetto di particolare attenzione, venga concesso ai danneggiati dei suddetti comuni un adeguato contributo dalle casse dello Stato. Sotto l’aspetto formale i sottoscritti domandano che la presente proposta d’urgenza venga assegnata alla commissione competente senza la prima lettura .
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3Habsburg years
21911-1915
Nella notte del 10 agosto sulla zona dei comuni di Caprinica, Rover- Carbonare e Valfloriana si riversò un terribile temporale con grandine. In base ai rilievi curati dai periti del luogo il danno causato ammonta a 33.000 corone per Caprinica, 3200 corone per il piccolo comune di Rover- Carbonare e a 5.000 corone per Valfloriana. Dato che da parte del capitanato distrettuale di Cavalese sono già stati avviati con una sollecitudine degna di lode i provvedimenti a tale riguardo, i sottoscritti presentano la seguente proposta d’urgenza: «Tenendo conto che la situazione di queste località, in seguito al danno subito negli anni precedenti e alla grande difficoltà economica nella quale si trova costantemente, dovrebbe essere oggetto di particolare attenzione, venga concesso ai danneggiati dei suddetti comuni un adeguato contributo dalle casse dello Stato. Sotto l’aspetto formale i sottoscritti domandano che la presente proposta d’urgenza venga assegnata alla commissione competente senza la prima lettura ?.
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3Habsburg years
21911-1915
Vienna, 3, sera Si rivive l’ansia di un mese fa . Le notizie ufficiali intorno alle spese militari già fatte e l’annunzio che s’intende mantenerle fino che i serbi avranno sgombrata l’Albania ha cagionato nei circoli finanziari una nuova depressione. Domani si raccoglie il ministero comune, e si avverte ufficialmente che siccome le misure militari ai confini dovranno durare fino in primavera, saranno necessari altri 500 milioni. Lo stilista ufficioso aggiunge però che non saranno per il momento necessari nuovi crediti presso le delegazioni . Una formalità di meno che non diminuisce la gravità della spesa. Nello stesso tempo si rivela un certo scoramento, una certa sfiducia nell’avvenire. Il prestigio, data la dichiarazione degli ambasciatori per l’Albania è salvo. È anche allontanato il pericolo massimo del grande stato slavo adriatico. Ma i «legittimi interessi economici» sono tutt’altro che assicurati. La Serbia non ha ancora formalmente deciso se sceglierà il porto sulla costa dalmata o sulla costa albanese, ma tutti sanno che si deciderà per il «male minore», come lo definì il Pasie, cioè per il porto albanese. E in questo caso, come assicurare i «legittimi interessi», cioè almeno lo status quo nel commercio d’esportazione? E qui incomincia a risorgere un po’ di gelosia anche verso l’Italia, paese che colla ferrovia adriatico-danubiana succederà fatalmente all’Austria ed alla Germania nei rapporti commerciali con gli stati balcanici. E pensare che, viceversa in Italia gli oppositori di S. Giuliano , avrebbero voluto favorita la costituzione dello stato slavo sulla costa! D’altro canto ogni persona serena deve ammettere che la Serbia, la quale non sa ancora se la guerra è finita o quali territori saranno suoi non può trattare sul serio intorno ad accordi d’indole commerciale e ferroviaria coll’Austria-Ungheria. Tuttavia vi posso però assicurare che i preliminari sono già avviati e che la scacchiera diplomatica fra la Monarchia e la Serbia si può definire così: Io t’annetto tanto maggior territorio, quanto maggiori sono le concessioni commerciali che mi fai. La Serbia non vuole lasciarsi prendere da questa mossa, e ricorre al concerto europeo dove la Russia suona il trombone. Cosicché la diplomazia ha dovuto rifare tutto il lungo cammino, intendersela prima coll’Italia, poi con l’entente . Per l’Italia, potete smentire la notizia di disaccordi gravi. Nel trattato di Abazia il concetto geografico di «Albania» è precisato. Siccome però i mutamenti furono tali da non potersi prevedere, entrambe le potenze concedono che abbisogni d’un’interpretazione larga. È qui che si fa la discussione che ha manifestate però divergenze di poco conto. La notizia del peggioramento della crisi di Londra ha reso ancora più fosca l’ora di Vienna. Molti credono alla ripresa della guerra, ma i più temono che l’invocato intervento delle potenze porti un grave conflitto europeo. Nuove matasse da dipanare. Oggi i ruteni ed i polacchi si radunano per la stilizzazione del famoso rescritto imperiale sull’università rutena. Ho parlato coi ruteni. Sono pessimisti e pensano che i polacchi tentino di trascinare in lungo e menarli a naso. Ma questa volta – dicono – non se la lasceranno fare.
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21911-1915
Il Popolo di sabato pubblica i deliberati presi recentemente dall’assemblea generale dei socialisti roveretani a riguardo della riforma elettorale comunale della quale si sta trattando in questi giorni tra i partiti di Rovereto. I deliberati sono redatti sulla base delle proposte avanzate dal partito liberale roveretano che ora tiene la maggioranza in municipio. Noi non conosciamo integralmente e letteralmente il progetto liberale, così da poter calcolare con tutta sicurezza il significato degli emendamenti che i socialisti intendono caldeggiare. Tuttavia anche dalla sola pubblicazione del Popolo non è difficile farsi un’idea di quello che dovrà essere la futura costituzione elettorale di Rovereto e giudichiamo perciò cosa non inutile, in attesa di più ampia informazione darne un rapido riassunto. Premessa la dichiarazione solenne del postulato massimo socialista del suffragio universale, uguale e proporzionale (postulato che anche il partito popolare sostiene senza sentir tuttavia il bisogno di avvolgerlo nella carta straccia della solita fraseologia demagogica) i socialisti roveretani riconoscono però che nell’attuale momento tale riforma radicale incontrerebbe insormontabili ostacoli, e perciò si adattano ad accettare quella limitata riforma che ora è possibile, perché i molti cittadini che sono esclusi dal voto comunale possano avere in avvenire una equa rappresentanza in municipio. In questo senso giudicano che il progetto liberale in discussione rappresenti una notevole diminuzione dell’attuale ingiustizia e danno in carico ai loro rappresentanti di dichiarare il loro appoggio alla riforma, in ogni stadio, anche se non fossero accolti gli emendamenti che da parte socialista verranno proposti. È dunque decretata la tattica della transigenza più remissiva. Considerando gli emendamenti che i socialisti propongono ed elencano nel loro documento e risalendo da questi, per induzione, alle proposte liberali, i termini sostanziali della riforma sarebbero i seguenti: 1. Costituzione di quattro corpi elettorali, comprendendo i censiti nei tre primi corpi, e i non censiti nel quarto. I liberali invece, a quanto sembra, vorrebbero confinare nel quarto corpo anche i censiti minimi, in una misura che il documento socialista non lascia precisare. Ogni corpo dovrebbe avere nove mandati. 2. Per le donne i socialisti domandano completa parità di diritto elettorale con l’altro sesso. Però prevedono che tale proposta cadrà e quindi, per impedire l’abuso delle procure per le donne censite, daranno eventualmente il voto per l’abolizione completa del voto alle donne. 3. Per l’esercizio del voto comunale deve bastare la stabile residenza in città quando sussistano gli altri requisiti elettorali o almeno la durata della residenza di un anno. Evidentemente i liberali propongono una residenza più lunga. In tutto questo, come anche nelle altre proposte socialiste di ordine prevalentemente tecnico, noi ci troviamo su per giù d’accordo e crediamo che anche i nostri amici roveretani non dovranno arrivare a conclusioni molto diverse. Ma il linguaggio delle dichiarazioni socialiste diventa assolutamente strano e sbalorditivo là dove si parla dell’applicazione del sistema della rappresentanza proporzionale. I socialisti dicono che appoggeranno il criterio della rappresentanza proporzionale in tutti i corpi, ma che avendo i liberali avanzata la proposta di una rappresentanza proporzionale, ridotta per il primo e secondo corpo, essi socialisti preferiranno che si stabilisca che in ogni corpo, se intervengono meno di 200 votanti all’atto elettorale, vengano attribuiti cinque mandati alla lista di maggioranza o i rimanenti quattro vengano suddivisi col calcolo proporzionale fra tutte le liste che hanno titolo di essere prese in considerazione. Lo sbalorditivo consiste in ciò che questa disposizione così concepita è solo un abile camuffamento della brutale affermazione del privilegio ingiusto della maggioranza nel I e II corpo e una tattica furbesca per mostrare di sostenere il criterio proporzionale nel momento stesso che lo si getta a mare. Infatti i socialisti sanno che la proporzionale pura e sincera non sarà mai applicabile a questa condizione nel primo corpo, perché a Rovereto non comprenderà mai 200 elettori e tanto meno votanti; e anche il secondo si troverà nelle condizioni del primo. Si avrà dunque per sempre in questi corpi un privilegio enorme per la maggioranza e la violazione del criterio proporzionale, introdotto (notiamo bene) per favorire gli equi diritti delle minoranze. Ed è sbalorditivo (ripetiamo la parola) non solo che i socialisti si facciano sostenitori di tale privilegio che le correnti reazionarie della Dieta e del Ministero non si sono mai sognate d’imporre, e che anzi con tutta probabilità osteggeranno, ma che essi sentano per di più il bisogno di mascherare il privilegio sotto forme che nascondano la dura e stridente verità. Perché non parlare sinceramente chiamando le cose col loro nome? Poiché la proposta socialista non esclude la possibilità che la maggioranza si impadronisca di tutti i mandati dei due primi corpi lasciando in asso le minoranze e insieme pone le minoranze di questi corpi privilegiati in condizioni d’inferiorità di fronte alle minoranze dei due ultimi corpi. Vediamo un esempio. Supponiamo nel II corpo 120 votanti, con tre liste concorrenti. Alla prima lista diamo voti 75 Alla II lista diamo voti 23 Alla III lista diamo voti 22 Alla prima lista toccherebbero subito cinque mandati; per dividere gli altri quattro si deve trovare il quoziente elettorale (sistema di Trento) 120:4+1=24. Non avendo né la seconda né la terza lista raggiunto il quoziente, rimangono ambedue senza un mandato! Oppure ammettiamo 160 votanti così distribuiti: I =180, II =40; III =20. Quoziente 160:5=32; occorrono quindi 32 voti perché la minoranza abbia un mandato. Nel terzo corpo invece 210 voti darebbero il risultato seguente: I 100; II 68; III 32; quoziente elettorale 210:9+1=21. Quindi 21 voti del III corpo (con maggior numero di votanti) avrebbero il valore di 32 voti del secondo! Siamo nell’assurdo! In tal modo il privilegio del primo e secondo corpo sarebbe per le minoranze una... diminuzione dei diritti civili! Ah valeva bene la pena di mascherare una proposta così assurda ma bisognava mascherarla meglio! In sostanza l’intendimento dei socialisti è chiaro: ottenere i miglioramenti nei corpi proletari, calpestando i diritti delle minoranze negli altri corpi; ma e l’uguaglianza dei cittadini? e la giustizia? lasciamo pur cader i privilegi, ma almeno non costituiamone di nuovi che offendono ancora più atrocemente la giustizia! Chiudendo il documento, i socialisti roveretani minacciano di inscenare la più intensa agitazione contro uomini e partiti che si rendessero colpevoli di un eventuale insuccesso della riforma facendo comprendere alla massa dei cittadini i motivi del naufragio di essa e attribuendo perfino «ad una mascherata avversione ad una limitata rappresentanza della massa del suffragio universale». E sta bene. Ma facciano attenzione i socialisti roveretani di non dover protestare... contro se stessi. E a questo saranno ridotti se coopereranno a confezionare una riforma che è intrinsecamente inaccettabile e si presteranno a mascherare con belle apparenze le ingiustizie più patenti sopra descritte. Poiché essi, non meno dei liberali, sanno precisamente come fu condotta in porto la riforma elettorale a Trento; e sanno ancora che senza una certa equità la riforma non ha la prospettiva di venir approvata. Se malgrado di ciò essi si ostinano a presentare delle proposte, delle quali sanno a priori che verranno respinte, si potrà dire giustamente che essi desiderano non tanto la riforma in base al criterio della distribuzione proporzionale delle rappresentanze quanto un nuovo argomento di inutile agitazione demagogica. Che questa poi non ci faccia la minima impressione il Popolo lo deve aver visto in altre occasioni. Cari signori, noi siamo per il criterio più equo e più semplice, che tutti i mandati cioè si distribuiscano proporzionalmente in tutti i corpi. A ognuno il suo! Voi invece favorite l’introduzione di espedienti rabulistici, e di artifici algebrici, inventati all’unico scopo di assegnare al partito di maggioranza un numero maggiore di mandati di quello che, secondo la giustizia distributiva, gli spetterebbe. Noi diciamo: equità per tutti tanto nel primo che nel quarto corpo. Voi invece volete ammettere: nel IV e nel III la suddivisione proporzionale, nel II e nel I la proporzionale a rovescio. Si capisce, voi badate al comodaccio vostro, e basta. Prima v’arrangiate nel IV in nome di quel principio di giustizia che nel Trentino dovete alla propaganda popolare, poi minacciate i fulmini della vostra demagogia a chi vuole applicato lo stesso principio anche negli altri corpi! E su queste basi credete avviare una campagna contro di noi e farci paura colle proteste delle «masse»? Alla considerazione dei liberali roveretani poi vorremmo sottoporre ancora una ragione di opportunità. Premesso sempre che la loro proposta sia quella risultante dalla pubblicazione del Popolo, ciò che noi per il naturale riserbo dei nostri amici roveretani, non possiamo qui confermare, ci dobbiamo chiedere come mai i liberali siano venuti nell’infelice idea di fare una cosa a mezzo, ricorrendo ad un artificio antipatico diretto proprio non contro i socialisti, contro chi cioè farà sempre l’opposizione per principio e per demagogia, ma contro gli elementi conservativi, i quali hanno dimostrato e dimostrano tutt’ora, di saper collaborare nell’amministrazione civica assieme alla maggioranza! Evidentemente i liberali che lo scorso anno respingevano la proporzionale a limine, hanno fatto nel frattempo un grande progresso, ma lungo il cammino, disgrazia volle che smarrissero la via diritta. Disgrazia? No, diciamo piuttosto seduzione, ché ben ricordiamo certi articoli del Popolo, in cui veniva insinuato e consigliato il sistema Briand o una commistura simile, per assicurare con una complicazione di calcoli una maggioranza numerica al partito liberale. Non hanno visto i liberali l’insidia socialista! I rossi non vogliono una maggioranza propria, non vogliono nemmeno esporsi al pericolo di dovere, per il loro numero, collaborare nell’amministrazione con un altro partito, ma tendono a raggiungere una tale minoranza che sia forte, sì da imporsi quando voglia, ma che possa trovarsi di fronte una maggioranza sulla quale pesi tutta la responsabilità. Tale situazione i socialisti sperano raggiungere sacrificando gli elementi conservativi; ma hanno i liberali, a cui resterà in ogni caso il maggior peso dell’amministrazione, lo stesso interesse! Invero potranno venir sedotti dal miraggio di una maggioranza aritmetica; e, introducendo il criterio del leone nell’assegnare i mandati del primo e del secondo corpo, aumentare di uno, di due o al massimo di tre posti le file della maggioranza. Ma credono che una tale maggioranza, supponiamo di tre di quattro o di cinque sopra la metà del numero totale dei consiglieri, abbia per ciò stesso maggiore forza, maggiore resistenza nell’affrontare un’opposizione energica e, ormai, molto considerevole per numero? Bisogna convincersi che colla proporzionale il valore della maggioranza numerica diminuisce di gran lunga e che un partito non rinforza certo la sua posizione se per raggiungere la metà più uno, conculca i diritti d’un altro. E infine credono proprio i liberali roveretani che per raggiungere la cifra ideale dei loro desideri sia necessario ricorrere all’evidente sopraffazione rappresentata dalla loro formula nei due primi corpi. Non raggiungono già colla proporzionale pura e semplice la grande maggioranza dei mandati? perché cercare di avvantaggiarsi ancora rispetto a minoranze che non possono aspirare se non ad un’esigua rappresentanza! Noi abbiamo fede che gli autori della proposta, annunziata dal Popolo rifacciano i calcoli per il decoro del loro partito e nell’interesse dell’amministrazione cittadina. Non sappiamo a quale punto siano giunte le trattative, ma non dubitiamo ch’esse vengano continuate fino all’accordo perfetto, il quale può fondarsi solo sul desiderio di far arenare la riforma in una di quelle istanze ove tale principio fu già proclamato.
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21911-1915
Il colpo di stato compiuto dai giovani turchi, o per essere più precisi, da 300 pretoriani con alla testa Enver Bey , ha nuovamente rannuvolato l’orizzonte internazionale determinando una situazione di una gravità eccezionale. È stato un colpo da... turchi Il vecchio Kiamil ha fatto il possibile e l’impossibile per tirare le cose in lungo, per uscire dal rotto della cuffia, per impedire che ad una risoluzione definitiva si arrivi. Egli è allo stremo di ogni risorsa; egli sente che le sue impegnative pacifiche verso l’Europa devono avere una sanzione. E per non fare pessima figura, egli convoca il divano, gli fa deliberare, seduta stante, la pace, ottiene che nemmeno una voce si elevi a turbare l’ottimismo di cui si vuole dar prova alle potenze. I turchi abbandonano ad un tratto la loro vecchia politica temporeggiatrice e si mostrano decisi a salvare quel tanto che resta della loro potenza in Europa. Intanto però il retroscena lavora. Intanto di soppiatto i softa sono avvertiti, Enver Bey è chiamato dalla sua ben nota funzione di capitano spaventa passeri, la porta della Sublime Porta, in luogo di essere chiusa e ben guardata, si trova socchiusa e niente affatto protetta. E uno, due, tre, fino a trecento, i congiurati si insinuano nell’androne, si dispongono bellamente nel cortile. Sono le tre del pomeriggio; il più bel sole arde su Costantinopoli, e nessuno se ne accorge. D’un tratto un grido, un tumulto: non vogliamo la pace quale è stata conclusa; vogliamo Adrianopoli turca altrimenti la guerra! Nel primo istante Kiamil finge la sorpresa; nel secondo, infila l’uscio, presenta le dimissioni al suo padrone; queste vengono lì per lì accettate e la rivoluzione trionfa. La rivoluzione? Eh no! La rivoluzione, che non c’è mai stata, non ha né trionfi, né sconfitte; soltanto all’Europa, che aspettava la parola definitiva pace, è giocata un’atroce burla. Solo così si può spiegare come la sommossa si sia potuta compiere senza contrasto, senza che Kiamil, dopo aver annunziato tante precauzioni e ordinati tanti arresti, non disponesse di un solo drappello da opporre ai 300 pretoriani. Quando negli ultimi giorni fu annunziata una dimostrazione ben più numerosa innanzi al palazzo della sublime Porta, bastavano pochi cavalleggeri a disperdere la folla; ieril’altro, invece, a custodire l’ingresso vi erano sei gendarmi. Sono questi sintomi che fanno credere all’esistenza dell’accordo. Comunque, giovani o vecchi turchi, hanno assunto un atteggiamento e non è possibile permettere all’arbitrio di qualche avventuriero, seguito da uno scarso manipolo, un permanente attentato alla pace universale. Ed è possibile che un fantasma di sultano, alla mercè di pochi fanatici, debba mutare politica ogni ventiquattrore volendo o disvolendo la pace o la guerra con vicenda comica e tragica insieme, una pace o una guerra che non toccano soltanto gli interessi di uno stato in putrefazione, ma gli interessi di ogni nazione civile? Nelle sfere politiche si domanda l’intervento diretto delle potenze, inteso ad imporre la pace; ed è assurdo pensare che con l’anarchia all’interno, la Turchia possa resistere seriamente ad una nuova guerra con la quadruplice. Se il nuovo governo ottomano volesse davvero la guerra e le potenze gli dessero il tempo di ricominciare le ostilità, il disastro per l’impero sarebbe immane; ma intanto aumenterebbero le difficoltà per instaurare l’ordine. E si dice che occorra far presto, perché la Russia è pronta ad inviare le sue navi nelle acque di Costantinopoli. Se l’Europa avesse un po’ di buon senso e di dignità, saprebbe, senz’altro ciò che le resta da fare. E sarebbe semplicissimo: sbarcare qualche centinaio di marinai dagli stazionarii ancorati nel Corno d’oro; smorzare gli ardori bellicosi della pseudo rivoluzione, presentare a S. M. il Sultano un pezzo di carta da firmare. E sarebbe tutto: si può star certi che il Gran turco non ardirebbe batter ciglio. Ma l’Europa di queste prove di energia non sa darne. E il Turco, che la conosce per lunga esperienza, col suo miglior sorriso di perfetto orientale, delibera le paci, le butta all’aria con le rivoluzioni, e se la gode un mondo.
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21911-1915
Domani, giovedì grasso, l’Europa è in pieno carnovale. Nelle vie e sulle piazze trascina la plebe il suo verso insulso e il suo lazzo; dentro nei saloni e nei ridotti si pigia la folla dei grandi. Il conte Berchtold ha piantato il «concerto» europeo , per godersi un valzer dello Ziebrer, Poincaré abbandona la ribalta della politica estera, donde parla tutti i giorni a tre quarti della terra, e va a far due salti con i suoi amici dell’accademia. Si dice che domani anche i delegati balcanici balleranno la quadriglia. L’Europa balla e fa carnovale. Che importa se geme quotidianamente fra le angustie del rincaro e se fa debiti sopra debiti? Questa vecchia signora non si confonde per sì poco, ne ha passate di peggio ed in ogni caso paga con carta colorata. E chi vi dice che in fin dei conti lo stordirsi non sia il rimedio migliore? O dobbiamo forse in nome della cosidetta solidarietà umana anticipare i digiuni e le penitenze, perché mentre balliamo, laggiù entro le mura di Adrianopoli, di Scutari e di Giannina centinaia di migliaia muoiono di fame e di angoscia? O perché migliaia giacciono nei lazzaretti con sul volto la terribile convulsione della guerra e migliaia e migliaia hanno dovuto soccombere? Strana pretesa sarebbe l’arrestare così il progresso della stirpe umana e la corsa vertiginosa della civiltà europea? Anche questo progresso e questa corsa stordiscono ed è nel baccanale di codesto trionfo, nell’esaltazione del nostro io che fanno tutti i giornali e tutti i panegiristi, tutti gli oratori e tutti i ciarlatani del secolo in tutti i giorni, è così che viviamo la nostra vita moderna e respiriamo la coltura europea. È quindi solo un giro di valzer di più; se non fosse che esso è fatto con maggior slancio di sincerità. Quando l’Europa fa carnovale, è l’unico momento in cui il «concerto europeo» esiste davvero e l’«accordo perfetto» tra le potenze non è una menzogna convenzionale. Perché la sincerità però non sia troppa e non scuota gli animi con la forza di una rivelazione, è necessario che essa si disperda nei festini e nei ridotti, in cui i ministri, diplomatici militari e banchieri s’incontrano e toccano il bicchiere di sciampagne, ammiccandosi dell’occhio come gli aruspici: aruspices cum viderent. Guai se codesti signori fossero sorpresi in quell’istante dal volgo che schiamazza di fuori plaudendo ad un pagliaccio, guai se dovessero sfilare innanzi al colto pubblico che tutto l’anno li ha visti muoversi ed agire sulla ribalta del mondo. È un male, pensiamo noi, che siano caduti in disuso i grandi cortei del carnovale popolare. Ma si capisce perché siano divenuti rarissimi o manchino ormai del tutto. C’è troppa satira in codesta sfilata buffonesca, troppa serietà in codesta allegria apparentemente così spensierata. Se già nelle prime mascherate fiorentine una parte notevole del corteo carnascialesco era diventata la satira contro l’Allemagna, e i fiorentini sghignazzavano, quando passava il gruppo de’ Lanzi che cantava: Sbricche, sbricche Alabardicre, Star flamminche (fiammingo) bon guerriere Se voi far guerre potente, Paghe Lanze largamente: E vedrai todesca gente, Quanto star lor gran potere, quai soggetti oggidì per la processione di carnovale, quai temi per i canti carnascialeschi?! Immaginate voi il corteo di giovedì grasso che metta in burla l’Europa di ieri e di oggi? Si potrebbe chiamarlo il corteo dello status quo, e certo vi comparirebbero dei gruppi gustosissimi, le potenze del désintéressement absolu, quelle dell’entente cordiale, le altre della neutralità interessata, i pacifisti austriaci quando si tratta della guerra libica e quelli italiani, quando si tratta del Sangiaccato o di Scutari, e poi i «crociati» balcanici che partono in guerra per «il trionfo della croce» e per l’autonomia dei connazionali e niente per altro. Ma sovrattutto dovrebbe interessare il gruppo dei mestatori di tutto codesto pasticcio europeo, codesti intriganti della banca, della spada e della penna a cui si potrebbe mettere in bocca la laude carnascialesca dei pellegrini di Lorenzo il Magnifico: Pellegrin (donne) in questo abito strano Siam, che gabbando il vulgo e il mondo andiamo In ogni loco, ogni clima, ogni parte È il viver nostro alchimia, industria e arte E come alcun da questo oggi si parte, Solcando in rena fonda, e sopra invano. Ma il corteo, abbiamo già detto, non ci sarà. Perché dietro a questi gruppi dei fattori competenti, com’è naturale, dovrebbe far seguito la folla dei suoi strumenti; e dovrebbero riardere migliaia di roghi che consumarono sui campi di Kumanovo tante giovani vite, e dovrebbe comparire l’immenso stuolo dei morti di Kirkílisse e poi ancora le fiumane degli scheletri, dei feriti, degli storpiati di Lule, Burgaz e le vittime della peste e della fame ed infine Enver Bey portando in mano il capo mozzo di Nazim, come la lanterna della rivoluzione . Ma allora codesto non sarebbe corteo carnascialesco, ma una danza macabra, domani non sarebbe il giovedì grasso, ma il dì del giudizio. E la folla, la grande massa di chi soffre e lavora onestamente ed è stata a guardare, si raccoglierebbe in questa valle di Giosafat e scossa tutta da una grande delusione intonando il suo çaira, chiederebbe o farebbe giustizia.
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21911-1915
Il tradimento vibra nell’aria! Che cosa giova sbarrare gli accessi con fortezze, minare ponti e strade, piantonare viadotti e gallerie, sequestrare giornali e fotografie, sguinzagliare su tutti i punti del confine «persone di fiducia», se la notizia ed il pensiero possono volare liberamente sopra i nostri cannoni, sopra le nostre sentinelle e sul capo delle nostre spie? Credevamo d’esserci imbottiti ermeticamente su tutti i lati, d’aver tappato tutti i fori e, alle uscite, di poter contare chi va e chi viene, frugarne il bagaglio e scrutarne le reni, ed invece toh! Avevamo dimenticata la terza dimensione. Le nostre misure valgono in larghezza ed in lunghezza, ma non per l’altezza. Con uno sforzo colossale abbiamo abbracciato tutto il paese con un’organizzazione intensa abbiamo proteso i nostri tentacoli fino a sentire i palpiti di tutti i cuori e sorprendere negli occhi dei cittadini il balenio d’ogni pensiero, ma ecco che mentre chiudiamo la stretta del nostro amplesso paterno, ci sfugge l’aria, e un immenso spazio pieno di vibrazioni signoreggia sopra di noi senza il controllo di una guardia di finanza e senza la censura di un procuratore di stato. Com’è potuta avvenire una siffatta ribellione dell’etere, e com’è potuto accadere che mentre tutti gli organi della sollecitudine statale erano in funzione, e tutti, compresa la cancelleria d’Innsbruck, esaurivano le più elette energie nel controllo della psiche civica, un gesuita ha potuto allungare lungo il campanile ed innalzare verso il cielo l’insidia delle sue antenne? Pensare che, mentre quaggiù si sorprendevano i colloqui telefonici e si controllava il martellare degli apparati Morse, lassù nell’alto d’un campanile, un gesuita con un nome italiano, insospettato ed inosservato, lanciava nell’aria pensieri e parole che vibravano via per l’aere immenso fino a Roma e a Malta! Un giorno però – e pare ancora in tempo – un giornalista liberale gettò l’allarme. Era un giornalista patriottico, ma sopratutto un liberale. Il servizio diventava quindi doppio, uno alla patria e l’altro alla libertà. Diavolo d’un gesuita, che ci stava a fare quel frate nero in una stazione radiotelegrafica? Comunicava con Roma e con Malta. A Roma ci stanno il Generale e Merry del Val , a Malta si sta organizzando il congresso eucaristico. Due luoghi, due nomi, ed è detto tutto. Si tratta dell’organizzazione gesuitica mondiale, di quella vasta congiura gesuitica contro la libertà della stirpe umana, ch’esiste nel cervello d’ogni buon liberale da Pombal e Tanucci in qua. Giù quell’antenna! gridò allora quasi unanime la stampa liberale, e la voce trovò un’eco sollecita in tutto l’ambiente psicologico delle fiabe gesuitiche. Si ebbe un bel dire che la stazione era munita di una corrente molto debole, che non serviva se non ad esperimenti fra il dotto gesuita e il gabinetto di fisica dell’università. Un gesuita dotto che lavora con la facoltà universitaria? Come può stare in armonia con la concezione del gesuitismo vero, nemico della scienza e della libera indagine! Gridò l’anticlericale. Esperimenti colle onde marconiane nella libertà dell’etere? Questa è una libertà per gli uccelli, gridò il poliziotto, o non possono essere che esperimenti sospetti e pericolosi. E così un telegramma di stamane ci annunzia che la gesuitica stazione radiografica venne chiusa. «In attesa delle disposizioni del ministero» aggiunge il telegramma. Il telegramma non dice se il ministro del commercio prenderà consiglio da altri fattori. Ma se noi potessimo dare sommessamente un consiglio a Sua Eccellenza, gli sapremo ben noi indicare in quale cancelleria attingere lume per le disposizioni preventive e repressive. Il Commissario X alla turbina, il procuratore Y sull’antenna, due spie nel campanile e poi... avanti, il motore può rimettersi in giro.
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21911-1915
La legge prussiana dell’espropriazione passò 5 anni fa nella Camera bassa fra contraddizioni vivacissime e nel Senato dovette superare l’opposizione di un gruppo notevole dei suoi membri, fra cui si distinse, come tutti ricordano il cardinale Kopp. Bülow riuscì infine a condurla a posto, ma assicurando che si trattava piuttosto di misure precauzionali che verrebbero applicate solo in casi estremi. Al principio di quest’inverno però il governo prussiano annunziò formalmente che applicherebbe la legge, incominciando ad annettere quattro possessi agricoli dell’estensione complessiva di 1700 ettari, appartenenti ai polacchi della Posnania . La commissione a ciò incaricata ne diede avviso ai proprietari, intimando loro che in base al § 13 della legge 20 marzo 1908 il governo avrebbe comperato i loro possedimenti, pagando la cosiddetta tassa media stabilita dalla commissione, che per giunta si manifestò inferiore all’importo già elaborato dagli attuali proprietari per l’acquisto. L’allarme fu grande e s’estese presto dalle linee dei Polacchi al Centro e scosse anche qualche gruppo liberale. Perfino il Berliner Tageblatt (la Presse di Berlino), lamentava che il governo prussiano avesse voluto urtare la nazione polacca proprio in un momento così critico per la tensione colla Russia. Ai 29 gennaio, come annunziavano i nostri telegrammi, i deputati polacchi al Reichstag presentarono la seguente interpellanza: «Il governo prussiano ha intrapreso l’espropriazione forzata delle terre polacche a favore della Commissione per la colonizzazione. Che cosa pensa di fare il cancelliere contro questo procedere inconciliabile con lo spirito della costituzione e della legislazione dell’impero che sia nei riguardi politici sia in quelli sociali, suscita nel popolo l’indignazione più profonda?». Come rileviamo ora dal resoconto stenografico il governo brillava per la sua assenza. Il Cancelliere se n’era andato, lasciando al suo posto un sottosegretario il quale lesse per la centesima volta la solita dichiarazione d’incompetenza. Si tratta di una legge prussiana e quindi il Parlamento germanico non è competente. Il Parlamento stesso non fu però di questo parere. Su proposta dell’on. Czarliuski, la Camera accettò di discutere l’interpellanza. Presero la parola rappresentanti di tutti i partiti. Il conte Prasma del Centro rilevò che l’espropriazione lede il principio della giustizia e inverte il concetto della proprietà privata. Al di sopra della giustizia non c’è nessuna ragione d’opportunità che si possa imporre. Del resto l’espropriazione della Posnania spinge sempre più la popolazione polacca verso province dianzi completamente tedesche, cosicché la politica germanizzatrice dello stato prussiano raggiunge l’effetto contrario. Ancora più notevole è quello che disse il socialista Wendel. I socialisti si rallegrano che conservatori e nazionali creino un precedente per l’espropriazione. Con ciò scavano sotto i piedi di quella che dicono la base dell’ordine sociale presente, cioè della proprietà privata. Qui sta l’importanza mondiale dell’espropriazione polacca. Non si tratta più di principi, di diritto, di giustizia. Oggi – concluse il socialista – espropriate voi perché i cannoni e le baionette le avete voi, domani quando avremo raggiunto il potere, saremo noi che applicheremo lo stesso principio colla stessa motivazione, cioè «per il bene della collettività». Il dibattito si prolungò ancora ma sarebbe opera vana il cercare gli argomenti dei difensori della legge. I conservatori si limitarono a difendere più che la legge, la politica della Prussia, i liberali nazionali ad affermare che non si tratta di espropriare i polacchi ma i terreni della Posnania! Si venne così al voto sul seguente ordine del giorno: «L’espropriazione forzata delle terre polacche ammessa dal cancelliere dell’impero contraddice al modo di vedere della rappresentanza nazionale». Votarono in favore 213 (Centro, socialisti, polacchi, lorensi), si astennero 43 (progressisti), contro 97 (conservatori protestanti e i liberali nazionali). Il cancelliere venne colpito in pieno petto e se la Germania avesse una costituzione parlamentare, avrebbe già dovuto dimettersi. Ma non sono le probabili conseguenze della politica parlamentare germanica che a noi preme di rilevare quanto piuttosto la condanna vergognosa che hanno sofferto innanzi al mondo per i germanizzatori. Anche in Germania dunque la prepotenza teutonica che fa opera di snazionalizzazione viene condannata, e nel discorso di un liberale progressista (Pachnicke) troviamo perfino un cenno alla piccola Svizzera, la quale dovrebbe essere presa ad esempio nel trattare le diverse nazioni. Il principio della giustizia nazionale incomincia a farsi strada anche presso i popoli che piantarono tutta la loro storia e il loro diritto sulla punta della spada. Si tratta solo di resistere con tranquilla costanza. Si tratta di educare il popolo alla legale e tenace difesa dei suoi diritti. E questa opera non ha scatti, non di bei gesti, non di momentanei successi, ma è la sola a cui una nazionalità debole può affidare con fondata speranza le sue sorti avvenire, la sola, contro cui la prepotenza verrà presto o tardi, ad infrangersi.
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21911-1915
Avrete letto che il Governo francese sta pensando se non gli convenga ritornare alla ferma militare di tre anni. Quest’annunzio non v’ha fatto l’effetto di un avvenimento sintomatico? Ritorniamo indietro dunque. Dopo mezzo secolo di propaganda antimilitarista e pacifista, dopo la corsa vertiginosa dell’internazionalismo attraverso il mondo, ci troviamo dunque oggi più diffidenti, più agguerriti che mai l’un contro l’altro? Avevamo avuto un lungo periodo di pace e di ricostituzione civile. Per quasi cinquant’anni ogni sforzo nazionale parve concentrarsi nell’intensificare e nel migliorare la vita sociale. Non s’è parlato che di rappresentanza proporzionale degli interessi, di protezione delle classi deboli, di equa distribuzione del benessere, e proprio negli ultimi anni si studiava e si preparava «l’assicurazione sociale», le pensioni per gli invalidi e per gli indigenti, la garanzia dei forti in favore dei deboli. Lo Stato si credeva così sicuro, che voleva intervenire ed in parte è intervenuto a rinforzare e completare i compiti della famiglia verso i suoi membri, non solo con riguardo al presente, ma anche in vista delle peripezie eventuali dell’avvenire. È l’epoca della beneficenza organizzata, della previdenza sistematica, dell’organizzazione sociale. Dalle discussioni sui paesi militari poi, era almeno derivata l’opinione generale che convenisse cercare i modi di renderli meno gravosi e meno sentiti e che almeno si dovesse tentare di abbreviarne la durata. La Francia marciò come sempre alla testa, e ridusse la ferma a due anni; seguivano altri paesi ed ultimamente, dopo molti studi e con molte attenuazioni, la riforma venne votata anche dalla Camera austriaca. Ora, quale indice di una situazione mutato, si presenta la minaccia della repubblica francese. È lo Stato ove governa la democrazia, il paese ove al ministero della guerra arrivano demagoghi radicali e tribuni socialisti. Che cosa sarà di altri Stati ove la potenza militare è l’ideale di un’educazione e la garanzia, a cui in mancanza di altre più sicure, sono tentati di ricorrere i dominanti? Ritorniamo dunque proprio indietro? All’epoca sociale seguirà proprio un’era imperialista e nazionalista? Troppi fatti si ripetono quotidianamente perché tale domanda non si presenti spontanea. Tutti gli Stati febbrilmente, senza tregua, rovinandosi fino al fallimento. La febbre ha invaso perfino i piccoli Stati neutri, come la Svizzera ed il Belgio. Beernaert è morto in tempo per non vedere anche il suo paese incamminarsi su una via non mai tentata. È come se ad un tratto fosse venuta meno in tutti la fede nelle convenzioni, nei trattati, nella forza del diritto ed ognuno avesse sentito il bisogno di tapparsi in casa rinserrandovisi con il catenaccio e barricandosi ad ogni apertura. Ci sentiamo più che mai stranieri gli uni agli altri, e fuori di noi vediamo i barbari come i greci nel periodo della loro civiltà. Come appaiono vuote ora le parole d’ordine «solidarietà umana», «fratellanza universale», predicateci in tutte le rivoluzioni politiche quasi un vangelo più naturale e più umano da sostituirsi al cristianesimo medioevale rinnegato. Come è nuda, come si rivela in tutto il suo crudo egoismo codesta Europa moderna, proclamatasi tante volte nei congressi e nelle esposizioni internazionali madre disinteressata dei progressi umani. E pure la mente si ribella al pensiero che la crisi manifestatasi negli ultimi anni e fattasi acuta negli ultimi mesi, diventi un male incurabile e letale. Uomini del secolo ventesimo che hanno tanto studiato e tanto esperimentata la vita sociale ed internazionale, non possono credere che la china su cui l’Europa va scivolando sia già la parabola discendente della nostra cultura e che ormai si pieghi verso la decadenza. Noi dobbiamo sperare che si tratti solo di una crisi passeggera, di un sussulto momentaneo che scuota ma non distrugga il presente organismo. Ci sono infine in fondo a questa vecchia Europa delle grandi forze morali da far rivivere e fruttare. Dietro le frasi vuote del moderno naturalismo sta ancora il grande patrimonio secolare dell’idealismo cristiano. Come attingendo ad esse si rifanno gli individui così si rinnovano le nazioni. Così l’Europa potrà celebrare il suo risanamento. Illusione? Può essere; ma, in fondo, senza illusioni la vita politica sarebbe insopportabile.
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21911-1915
Vienna, 3 Ho letto ieri nella Militärische Rundschau l’elegia di un generale. È un rimpianto alle speranze bellicose che sfumano e l’espressione di una delusione profonda. L’esercito, scrive il generale, aspettava, desiderava la guerra, sperava ormai la prova del fuoco. Invece, in cinque anni, ecco la seconda buona occasione che ci scappa. Le esperienze, le manovre, la preparazione di quarantasette anni di pace dovranno dunque isterilire in un nuovo periodo d’inerzia? Questa nostalgia della guerra, espressa con accenti così angosciati nell’organo ufficiale dell’esercito, mi ha colpito profondamente e, pur senza il malo animo della satira, mi è corso alla fantasia lo sfogo di Maston, il segretario del club «cannone». Non faccio ai lettori l’insulto di supporre che non abbiano letto il capolavoro di Giulio Verne Dalla terra alla luna. Ma lo riprendano in mano (dolce è talvolta pensare alla luna) e converranno che l’audace romanzo contiene, senza volerlo, la satira più riuscita contro il militarismo nell’ora presente. «Come! – esclamava I.T. Maston con voce rimbombante – questi ultimi mesi della nostra esistenza non li impiegheremo al perfezionamento delle armi da fuoco! Non si offrirà una nuova occasione di provare la portata dei nostri proiettili! Il lampo dei nostri cannoni non illuminerà più l’atmosfera! Non sorgerà una difficoltà internazionale che ci permetta di dichiarar la guerra a qualche potenza transatlantica! I francesi non manderanno a picco uno solo dei nostri steamers, e gli inglesi non impiccheranno, in barba al diritto delle genti, tre o quattro nostri connazionali!... ...Ci sono nell’aria mille ragioni di battersi – continuava il segretario – e non si fa! Si risparmiano braccia e gambe, e questo a beneficio di gente che non sa trarne profitto». Questo è certamente un linguaggio più... americano, ma in fondo, forse che la psicologia militare di questo torbido inverno europeo è qualche cosa di essenzialmente diverso dall’incerta impazienza che regnava fra i membri del Gun club dopo la guerra federale degli Stati Uniti, quando malauguratamente fu fatta la pace, le detonazioni cessarono, i mortai tacquero, gli obici tappati da tempo ed i cannoni fecero ritorno a testa bassa agli arsenali? E vada ancora per i militari! Il generale Voinovic della Militärische Rundschau ha forse ragione, quando rivendica al soldato che fa il mestiere della guerra il diritto d’augurarsi l’occasione d’esercitarlo. È ben vero che se concediamo questo, veniamo ad ammettere che le stesse istituzioni militari sono di natura loro un pericolo per la pace; ma, infine, si tratterà sempre di una sola classe della popolazione e di influenze che possono venir paralizzate. Ma il peggio è che la psicologia del Gun-club è rivissuta oggi, un po’ da tutti. E il nazionalismo imperialista, messo in voga e predicato come una dottrina rigeneratrice, si imbeve infatti dello stesso spirito e il suo principio potrebbe contenersi nell’esclamazione di un altro membro del Gun-club, il colonnello Blonsberry, che, condividendo l’indignazione di Maston, aggiungeva: «La suscettibilità americana sfuma di giorno in giorno, e noi ricaschiamo nella canocchia». E anche fuori dei nazionalisti militanti, se non per principio almeno per contagio, la cosa non è molto diversa. Tutti parlano di cannoni, di obici, di mitragliatrici, di dreadnoughts, di anime e di calibri, di corazze e di cotone fulminante con la massima disinvoltura e con la più grande competenza del mondo. Se vi trovate in un circolo d’amici e vi rivelate poco sicuri nella balistica, correte il pericolo di passare per un ignorante tanto fatto. Tali i discorsi e tali i criteri. La scala dei valori esiste solo nell’ingenuità dei filosofi; in realtà non c’è che un valore ed un solo criterio per la stima dei popoli e degli stati: «Essa è proporzionata alle masse dei loro cannoni, e in ragione diretta del quadrato delle distanze raggiunto dai loro proiettili». Un giorno un ufficiale ci mostrava delle corazze, alcune provate ed altre pronte per la prova. Questa, spiegava, s’è dovuta fabbricare perché una «potenza straniera» ha introdotto il proiettile della tal forza e della tal durezza, quest’altra è bucata ormai dal proiettile che vedono di fronte e che s’è dovuto provare perché la potenza straniera sta già pensandovi; e così di seguito. Nella sezione accanto poi, l’ufficiale ci faceva ammirare una serie di proiettili lunghissimi e acutissimi, messi in fila come canne d’organo e che si erano costruiti mano mano a seconda che la potenza straniera aveva aumentato lo spessore delle corazze che bisognava perforare. Ecco che cos’è la società moderna, o idealisti impenitenti! Che vi ostinate a suddividerla secondo il torto o la ragione? In fondo, la distinzione che si impone è una sola: chi fabbrica corazze per ammortir le palle, e chi fabbrica palle per forar le corazze. La ragione dipende dalla durezza e dalla velocità iniziale dei proiettili o dalla resistenza delle corazze. Questi due campi della società umana io li vedo personificati nei due grandi protagonisti di G. Verne: Barbicane, presidente del Gun-club e il capitano Nicholl, grande fabbricatore di corazze. «Appena Barbicane (scrive il romanziere francese trent’anni fa) inventava una nuova palla, Nicholl inventava una nuova corazza. Il presidente dei Gun-club trascorreva la sua vita nel far buchi, il capitano nell’impedirli. Nicholl appariva nei sogni di Barbicane sotto la forma di una corazza impenetrabile, contro la quale egli andava a sfasciarsi; e Barbicane nei sogni di Nicholl come un proiettile che lo forava da banda a banda». Eccovi l’Europa nel 1913, al colmo della civiltà contemporanea. Un Cervantes del secolo XX, se gli lasceranno il tempo di nascere, scriverà anche il poema della nuova cavalleria con Don Chisciotte trottante per l’Europa su un affusto di cannone. Peccato che il povero Sancio che lo segue, sia divenuto fra noi il tipo normale. Fuori di scherzo: come faremo a liberarcene? Non c’è proprio modo di uscirne? Il Verne ha avuto un’idea geniale: li ha mandati nella luna tutti, tanto il cannoniere che il corazziere. Idea splendida e liberatrice. S’è ritenuto finora che l’avesse tentato per scrivere un romanzo scientifico, per insegnare ai ragazzi come sia fatto il nostro signor pianeta. Ma io amo credere invece che vi sia nascosto un significato simbolico e più profondo. E proprio di questi giorni in cui ci preme ancora una situazione intollerabile, io penso con invidia a quell’istante memorabile in cui la boccaccia della Columbiade si spalancava sulla cima di Stone’s Hill rimpetto alla luna per vomitarvi contro il proiettile del Gun-club, con dentro ben avvitati ed equipaggiati i partigiani della palla e della corazza!...
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21911-1915
Vienna, 6 Giornata meravigliosa quella d’oggi e piena di sole. I viennesi tornano a vedere i contrafforti delle Alpi ed a misurare con l’occhio l’ampiezza della valle danubiana. A mezzogiorno, quando le campane di Santo Stefano suonano a distesa, si riversa per la piazza e sulla via carinziana una folla varia e vivace che gode con un’ingenuità infantile questa pienezza di luce, questo fascio di raggi, così preziosi, così vitali dopo una lunga agonia di nebbia e d’aria sporca di carbone. Tutto sembra rinnovarsi sotto il bacio di fuoco, e ricompaiono le dorature e gli stucchi, rifioriscono i colori più diversi nelle vetrine, nelle insegne e sui cappelli delle signore (oh, che verzieri!) e la luce si riflette, si moltiplica all’infinito nei cristalli, negli specchi, nei marmi e fino lassù negli embrici metallici della cattedrale. In questo momento attraverso la via una... stonatura. Si tratta naturalmente di un deputato che ritorna dal palazzo Carignano, ove ha sede il ministero delle finanze. Gran bella cosa codesta, signori elettori, sostenuta da giganti più forti, più colossali di Anteo. Pare tuttavia che questa volta si siano lamentati anch’essi perché il peso delle finanze durante l’inverno è cresciuto a dismisura. Così almeno è sembrato al deputato suddescritto, quando ridiscendeva le scale. Ma forse, la smorfia di dolore che credette sorprendere nelle cariatidi non era che il riflesso della sua. Che importa infine ai giganti se i piccoli strillano ed hanno fame? Che cosa perde infine lo Stato, se l’eletto del popolo dovrà scrivere al comune di X: per il vostro acquedotto non c’è denaro, o al consorzio di J: mancano i fondi per rinnovare il sussidio, o al paese di Z: i lavori stradali devono sospendersi, perché il ministero delle finanze ha ridotto l’impostazione del bilancio? E pensare – continuava il deputato nel suo soliloquio lamentoso – che domani dovrò rifare le stesse scale con lo stesso risultato, per sentirmi ripetere in tutti le variazioni stilistiche l’aforisma: Non c’è denaro. Non c’è denaro? Ecco uno sproposito di Napoleone, il quale ha lasciato detto ai posteri che a far la guerra ci vuol denaro. Non è vero. Il denaro ci vuole a non farla! La prima prova l’abbiamo in casa nostra, vale a dire... degli altri (corresse il lacrimoso onorevole), la seconda è quella di tutto il mondo. La Francia e la Germania fanno a gara per rovinarsi onde... evitare la guerra, come due attaccabrighe, i quali si facciano salassare per non venire alle mani. Gran bel paese la Francia. Mannaggia la repubblica e tutta la democrazia! Ora che a furia di paragoni e di richiami ai paesi progrediti, s’era arrivati a darla da capire alle potenze militari, i radicali tornano alla ferma di tre anni. Vedrete che i francesi faranno scuola subito e da noi si tornerà alla ferma di otto! In Germania poi si vogliono introdurre le decime, senza il precetto della Chiesa a dir vero, ma con la minaccia dell’espropriazione forzosa, ciò che in codesto secolo libero da ogni superstizione, vale di più. Ormai il corso è quello che è, inutile sottrarvisi. Meglio buttarsi nella corrente e nuotare a fior d’acqua. Se avete denari, comprate Skoda, Alpine o Creuzot e se ne avete molti farete affaroni con i fucili vecchi che il general Auffenberg vende a stralcio. Se avete figlioli, educateli per il mondo d’oggi e per quello di domani, che sarà l’età del ferro. Non lasciateli impeciare di quelle teorie cristiane della carità e dell’amore universale, di quelle dottrine umbre e francescane, buone per il Medio Evo barbaro ed incosciente. Riprendiamo in mano l’Iliade; ecco il tuo poema, gioventù di domani, quando Ettore scannava gli achei fin sotto le navi; ecco i tuoi dei che scendono dall’Olimpo a gettar quadrella e giavellotti ed a far traboccare lo Scamandro per l’immenso sangue e le cervella sparse. Gli altri, per conto loro, rileggeranno l’Edda , i fasti di Krimhilde e Hagene che, immerso nel sangue fino alla cintura, mena ancora il brando micidiale e doma l’arsura ficcando tratto tratto nel lago sanguigno il muso feroce... Con sì torvi pensieri il deputato attraversa la piazza sotto una gloria di sole. Tutta la grande vita moderna che gli si agitava d’intorno pareva smentirlo. Ma voi compatitelo. L’hanno mandato qua elettori delle nostre montagne, ingenui come lui, e la semplicità e la dirittura della nostra vita lo seducono spesso a cercare anche nella complessa, contraddittoria e tumultuaria vita sociale, fatta dai pochi e subita dai più, un indirizzo logico e le regole del senso comune. Ecco il suo errore, ma ha il proposito di correggersi.
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Questa doveva essere dunque la festa della pacificazione! Il conte Berchtold aveva invitato i ministri, gli ambasciatori, i generali, i senatori, i deputati, i rappresentanti della plutocrazia e della stampa, le grandi dame della «società», circa due mila persone insomma, a passar la sera nel palazzo del ministero degli esteri. S’era prima indetta per il giovedì, poi venne rimandata al lunedì. Gli invitati dicono che c’era di mezzo il comunicato sulla detente austro-russa. I diplomatici s’erano messi d’accordo sulla riduzione degli armamenti, ma non sul modo di annunziarlo al pubblico, ed è sovratutto in diplomazia che il tono fa la musica. Il problema non è facile. Bisogna annunziare il proposito di smobilitare, dopo cinque mesi che si è negato pertinacemente d’aver mobilitato, bisogna dire che da una parte e dall’altra si nutrono i sensi più vivi di fiducia, mentre fino ieri sera si sono dati reciprocamente del brigante e si guardano ancor oggi in cagnesco. E infine nel ch’è più grave, bisogna tentare di dividere nettamente il torto e la ragione fra due litiganti che per avere fatta la ragione e mettere l’avversario dalla parte del torto più assoluto hanno speso centinaia di milioni. Cosicché, il lavorio attorno a quest’oracolo delfico si può più immaginare quando si ricordi anche che nel 1909 in una situazione consimile Aehrenthal ed Iswolski, dopo aver telegrafato e ritelegrafato milioni di parole, finirono col pubblicare ciascuno la propria versione per conto suo, rimandando alla storia l’ardua sentenza . Così fu che il conte Berchtold non ebbe per la sua festa di ieri la nota festiva del comunicato. Vi portò però il suo immancabile sorriso di fanciullo e quell’aria di sicurezza quasi ingenua, colla quale agli arciduchi, ai ministri, ai magnati che entravano pareva dicesse: State tranquilli, ci sono io. Guardatevi d’attorno: è forse questa atmosfera di crisi? E per l’ampio scalone, sui lati del quale valletti vestiti d’oro ed argento sostenevano candelabri a dodici braccia strisciava e saliva la teoria, seria e magnifica degli invitati. Eccovi le arciduchesse e le principesse di corte con le teste coronate di gemme, eccovi la «buona società» che sfila in alto, sfoggiando nei brillanti l’antico casato o i milioni, eccovi gli ambasciatori e le ambasciatrici di tutto il mondo. Largo al concerto europeo: passa il duca d’Avarna , Tschirski, Sir Cartwright e la sua signora, Dumaine e madame Dumaine, il russo Giers poi il rappresentante dello «status quo» (no erat ante) Hussein Hilmi pascià. Più in là il giapponese Satsuo Akidzuki con due compagni, il democratico rappresentante degli Stati Uniti colla sua signora miliardaria, le piccole potenze del Nord e dell’oriente, gli attacchés militari... Tutta questa corte rappresentativa si guarda e si ammira ancora una volta nei grandi specchi che fanno parete nelle anticamere e poi entra, si inchina, si scioglie per i saloni bianco-oro, mandando scintillii di luce ed effluvi di profumi. E qui permettetemi una parentesi per un’aggiunta doverosa. In un mio articolo recente ho diviso gli uomini secondo che fabbricano corazze per resistere alle palle di cannone o cannoni per bucare le corazze . E sta vero, ciò vale per il sesso forte e non ho niente da rettificare. Ma per la classificazione delle signore il criterio è diverso, e l’ho appreso ieri sera da un mio vicino, direttore di un giornale mondano. Ecco, diceva il mio Petronio, quel gruppo di signore là appartiene all’aristocrazia patriottica giallo-nera. Non occorre conoscerle, se lo sente. Il loro profumo è il «parfum Zita» ed è l’odore patriottico di moda. Dubiterai invece che quest’altre sono delle potenze estere? senti la «rose d’Orsay», il violetto di Pinaud – (Place Vendôme) la rosa centifoglia? Non che le gran dame di Vienna stessa – anche in tempo di crisi – rinunzino alle profumerie francesi. Ci sono anzi di quelle che urtate dal patriottismo delle altre, ricorrono per reazione al «parfum inconnu» dell’Houbigand di Parigi. C’è poi un altro gruppo il quale fa la parte di mezzo tra il patriottismo o l’internazionalismo. Ah, ah, le pacifiste, soggiunsi io. Precisamente, ed hanno sciolto il problema così: fabbrica francese e marca austriaca «parfum Marie Antoinette»! Frattanto, mentre gettavamo così le basi di un nuovo sistema di sociologia, si giungeva in un’altra sala, adorna dei ritratti di diplomatici (ho sorpreso in uno la firma dell’eques Lampi) , e che sta oramai sull’ala vecchia del palazzo. Fu qui che venne celebrata qualche festa del famoso congresso del 1815. Il congresso di Vienna! Quante mutazioni in un periodo così breve. Che aria diversa da quella di Metternich! Ripensandoci, non pare che il cancelliere d’oggi, il conte Berchtold, abbia dovuto assumere un pochino il posto (l’atteggiamento, non la veste morale) di Talleyrand al congresso di Vienna? Talleyrand, dopo il disastro napoleonico, era divenuto legittimista, l’Europa invece sorta in armi per il legittimismo, dopo la vittoria, era diventata conquistatrice. – Il faut que chacun y trouve ses convenances, – diceva lo czar. – Et chacun ses droits, – soggiungeva il ministro francese. – Je garderai ce que j’occupe, ribatteva lo czar. – Votre majestè ne voudra garder que ce qui sera legitimement à elle... Je met le droit d’abord et les convenances après. – Les convenances de l’Europe sont le droit, concludeva Alessandro di Russia. Non è un po’ questa la conversazione che si ebbe tutto l’inverno in Europa, dopo la proclamazione dei legittimi interessi fatta da Berchtold alle Delegazioni ed in specie non è questa la discussione fra l’Austria e la Russia? E come andrà a finire questa volta? Nessuno lo sa ancora, nessuno può fare il profeta. Ma l’annunzio che le due rivali si sono accordate per ridurre gli armamenti straordinari è già un grande sollievo. I cosacchi si ritirano dal territorio di confine, ecco la sostanza della notizia, per cui si ricerca affannosamente la formola. I cosacchi, il cui urrà vittorioso faceva un tempo gelare il sangue tra il riso e le feste, e il cui scalpitare dei cavalli riscosse ora troppo spesso dal sonno le sentinelle della frontiera galiziana. Bisogna aver visto quest’ambiente suggestionato dall’allarme di tutti i giorni e l’ansia delle famiglie dei richiamati, per comprendere il mutamento d’oggi. Godiamone anche noi, benché il pericolo ci fosse meno vicino ed il miglioramento sia quindi meno sentito. Non si sa mai, che non venga anche la nostra volta? Fatta la pace colla Russia, si fissano i confini dell’Albania, si scioglie la questione della ferrovia orientale, si spartisce Diacova e si costruisce il corridoio dalla Serbia al mare. Ebbene che si spiccino! Io penso sempre che dopo la linea Monastir- Salonicco verrà la ferrovia di Fiemme, e dopo il corridoio serbo l’acquedotto di Canal S. Bovo. Con questo augurio e con tali speranze nel cuore, ricavate logicamente dalla momentanea situazione internazionale, abbiamo abbandonato ieri sera la gran festa. Ed oggi Vienna, con sguardo triste sull’ultimo semestre di attività parlamentare, sospirando col salmista: Heu mihi, quia incolatus meus prolungatus est! Habitavi cum habitantibus Cedar . Vienna, 11
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21911-1915
La crisi luogotenenziale – intralciata in gennaio dalle pubblicazioni della Neue Freie Presse e negata pertinacemente dalle Innsbrucker Nachrichten che, per l’occasione, si trasformarono in ufficioso della Luogotenenza di Innsbruck, trovando eco ed appoggio nel giornale socialista di Trento – oggi sono un fatto compiuto. Il bar. Spiegelfeld cadde vittima della sua politica nella questione di Fiemme. Nel gennaio del 1912 egli non sentì il coraggio di sostenere la domanda della deputazione dietale italiana, anzi appoggiò pretese avversarie assolutamente inaccettabili, quando poi, nell’estate il Governo centrale concesse anche più di quanto la deputazione dietale aveva chiesto, egli trovò che si poteva avere di meglio. I deputati, richiamandosi alla sua parola, invitarono il Governo centrale a farle onore; ma questo preferì lasciar cadere lo Spiegelfeld. Per il suo contegno nella questione di Fiemme e in genere per la politica seguita dopo la vittoria dei liberali tedeschi nell’estate del 1911 e durante la tensione di anime che rese infausto quasi tutto il 1912, lo Spiegelfeld non è certo seguito da nessun rimpianto. Nelle più importanti questioni amministrative egli fece naufragio, senza nemmeno poter dire di essere stato sincero, logico e forte nel sostenere un’idea; e dell’insuccesso sofferto cercò rifarsi con una sequela delle più inique vessazioni poliziesche: vessazioni che corrispondevano del resto al suo carattere e colle quali accattava appoggio presso i circoli militari presso gli eredi e i fomentatori di un’antica, infelice scuola di sospetti, avversione ed oppressione contro gli italiani. Attaccato al potere come un polpo allo scoglio, il bar. Spiegelfeld, senza molti scrupoli, si appigliò ad ogni appoggio per non abbandonare il posto; ma era chiaro che con lui la Dieta non avrebbe più funzionato e dovette infine adattarsi alla posizione che egli aveva creata, con insigne esempio di poca avvedutezza e di grave scorrettezza verso la deputazione italiana che formava parte della maggioranza dietale, dei cui avori egli coglieva congratulazioni e plauso. Il Governo – accettando la domanda di pensionamento dello Spiegelfeld – volle però dargli la consolazione e la soddisfazione di tirare con sé un alto funzionario della Luogotenenza, il vicepresidente Dorna, e dar celere compimento ad un’opera che lo Spiegelfeld già da tempo aveva amorosamente avviata presso il Ministero dell’interno. O potevano gli italiani pretendere che un italiano potesse effettivamente diventare effettivo? Queste sono cose a cui possono aspirare solo i tedeschi – o, dove sono numerosi e forti – gli slavi. Per nulla tutte le nazionalità dell’Impero non sono equiparate!
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21911-1915
Abbiamo promesso di dare al pubblico alcune spiegazioni intorno alle cause della crisi luogotenenziale testè risolta col ritiro del baron Marco de Spiegelfeld. Esse sono divenute necessarie per rettificare molteplici notizie riferite dai giornali e anche per chiarire una buona volta la nostra vera situazione*). Premettiamo che quanto verrà scritto anche in quella parte che non è ancor nota al pubblico, risale ad informazioni assolutamente sicure. Per oggi ci limitiamo a parlare della questione di Fiemme, la quale fu il terreno sul quale si sviluppò e si decise la crisi del governo provinciale. Riassumiamo brevemente i fatti. Nell’estate del 1909, insistendo la valle di Fiemme per una soluzione pratica della questione tramviaria e imponendosi tale problema per le stesse condizioni generali della politica provinciale, i deputati popolari decisero di fare un’azione energica e conseguente per togliere le difficoltà accumulatesi da lustri. Come si venne al compromesso Ebbe luogo prima un convegno confidenziale in Trento, al Circolo commerciale, fra deputati, rappresentanti liberali dell’amministrazione cittadina e di altri fattori locali, il quale convegno, constatato che né lo Stato né la Provincia, per l’opposizione della maggioranza tirolese, vollero mai concedere né avrebbero concesso il loro appoggio finanziario alla costruzione della sola avisiana, pose la questione, se fosse possibile costruire almeno la Lavis-Molina coi denari del paese. Il convegno rispose negativamente e fu perciò che si approvò l’idea di venire a trattative coi tedeschi per un compromesso. Queste previe sedute confidenziali presso il Luogotenente bar. Spiegelfeld, s’inaugurarono, com’è noto a Bolzano, nell’agosto dello stesso anno sotto la presidenza del luogotenente in persona, coll’intervento dei deputati di tutti i partiti, e della rappresentanza della Comunità di Fiemme e dei delegati delle due città di Bolzano e di Trento, la quale ultima era rappresentata dagli on. Silli, podestà, d.r Bertolini, vicepodestà e dal direttore Peterlongo. Il comitato che fu eletto tenne le sue sedute alternativamente a Bolzano ed a Trento, in Municipio. Da queste trattative nacque il «compromesso di Bolzano» al quale in occasione del viaggio imperiale ad Innsbruck da una delegazione composta del D.r Peratoner, dell’on. Silli e del signor Bertolini, venne invocato l’appoggio dell’Imperatore . Per suggerimento poi del presidente dei ministri d’allora, il baron Bienerth, la Giunta provinciale chiese una dichiarazione in proposito dal governo centrale, il quale scrisse che avrebbe concesso al compromesso il maggior possibile appoggio e dava alla Magnifica Comunità la concessione degli studi per la cosiddetta linea doppia. Nel frattempo però la situazione parlamentare e politica precipitava. La camera veniva istruita, aggiornata e poi sciolta, senza che né ai 7 deputati popolari né agli altri 509 ch’erano al Parlamento fosse stato possibile d’indurre il governo a ripresentare il progetto delle ferrovie locali. Il nuovo Parlamento eletto nel 1911 peggiorò le condizioni dei rappresentanti trentini. L’attuazione graduale Tuttavia le trattative per la ferrovia fiemmese continuarono. Si rinnovarono anzitutto le insistenze per la finanziazione dell’intiero compromesso e constatato che il nuovo governo per la mutata situazione politica e per le sopraggiunte difficoltà finanziarie, si manteneva assolutamente negativo, nel dicembre del 1911 in vista della convocazione della Dieta, si avviarono in Vienna nuove trattative per raggiungere una graduale esecuzione del compromesso. Anche queste conferenze erano presiedute dal baron Spiegelfeld coll’intervento dei rappresentanti di Fiemme, di Trento (on. Tambosi) e di Bolzano. Si concluse col domandare la parallela assunzione nel progetto delle ferrovie locali da una parte della linea di S. Lugano (i tedeschi proposero Egna-Predazzo) dall’altra della linea Lavis-Grumes. La continuazione delle due linee si sarebbe dovuta assicurare entro un periodo determinato (5 anni). Già allora però il bar. Spiegelfeld mostrava di voler abbandonare – come disse un deputato nell’anticamera dei ministri ove si tenne la conferenza principale – la barca del compromesso che faceva acqua. Venuti poi alla Dieta, nel gennaio 1912, gli italiani si trovarono di fronte ad una nuova ripulsa del governo, il quale scriveva di non accettare nemmeno la proposta di esecuzione graduale, combinata nelle trattative del dicembre 1911 a Vienna. L’ultima proposta della deputazione trentina Si venne allora a trattare per la Lavis-Grumes semplicemente, lasciando aperta la questione della continuazione e, respinta anche questa, la deputazione trentina, cioè tanto il club popolare che liberale fecero la nota ultima proposta che suonava: da una parte la linea di S. Lugano, da concedersi alla Magnifica Comunità di Fiemme e da finanziarsi dal Governo e dalla Provincia con la Comunità esclusivamente, dall’altra la Lavis-Cembra, lasciandone impregiudicata la continuazione per il futuro. Il luogotenente bar. Spiegelfeld accettò la proposta degli italiani, ma trasmettendola al Governo ne mutò la formulazione, in modo che l’esclusività della concessione alla Comunità non era assicurata. Per questo, per la stilizzazione sibillina della risposta governativa che il baron Spiegelfeld, contro il parere degli italiani s’affrettò a rendere di pubblica ragione, e per la proposta unilaterale Forcher-Mayr, che costringeva la Dieta ad affrontare tosto la questione in circostanze affatto sfavorevoli – scoppiò l’ostruzione. Di poi le trattative continuarono a Vienna. Incominciate dapprima sulla Lavis-Grumes, per l’opposizione recisa del governo, esse si erano ridotte mano mano sull’ultima piattaforma ritenuta discutibile dalla deputazione trentina alla Dieta cioè: linea di S. Lugano da una parte e Lavis-Cembra dall’altra. I deputati avevano condotta la cosa fino ad una proposta di massima, rimanendo aperte diverse questioni di dettaglio, quando per le trattative private ch’erano state condotte in Fiemme col signor F. Mazzurana per la finanziazione della linea di S. Lugano ed in seguito alle energiche sollecitazioni che i rappresentanti della Comunità avevano fatto di fronte al Municipio di Trento e ai deputati, si venne alla conferenza dei delegati di Fiemme e di Trento presso il ministero delle ferrovie, il giorno 5 luglio 1912, nella quale il bar. Forster fece la nota proposta concreta. Da tutte queste trattative il luogotenente era stato escluso e precisamente per esplicito proposito del ministero che voleva avocata a sé la questione. L’intervento del baron Spiegelfeld Quando la cosa divenne di pubblico dominio, il luogotenente di fronte al deputato di Trento e ad altri due rappresentanti della città, il signor Podestà e l’on. Bertolini, dichiarò che riteneva possibile ottenere un prolungamento dell’avisiana fino a Grumes, che un’azione in tale senso potrebbe avere speranza di buona riuscita. Si propose anzi egli stesso di avviare una nuova trattativa e convocò a tal uopo una conferenza in Trento. L’azione dei popolari I popolari, benché sorpresi da questa mossa improvvisa del luogotenente, badarono al sodo. Scrissero subito al ministero, intervenendo nuovamente in favore della Lavis-Grumes, dichiarandosi lieti dei nuovi propositi e, mentre in pubblico mantennero una posizione riservata, evitando le discussioni e non reagendo talvolta nemmeno agli attacchi, di fronte al governo chiesero insistentemente che le dichiarazioni del Luogotenente diventassero un fatto compiuto. Ma quale non dovette essere la loro meraviglia, quando a Vienna fu loro dichiarato che il bar. Spiegelfeld negava assolutamente di aver neppur da lontano dato occasione a quelle speranze che venivano affermate anche nei protocolli del Municipio di Trento ed ebbero un influsso così decisivo nello svolgersi della questione a Cavalese ed in Cembra! Le smentite del baron Spiegelfeld furono così radicali che se per avventura non fossero esistiti la sua lettera di invito alla conferenza di Trento e i protocolli del municipio cittadino, le veridiche relazioni dei nostri deputati avrebbero dovuto apparire come le più nere calunnie. Fu così che i nostri rappresentanti, i quali già dalla fine dell’agosto 1912 non avevano più col luogotenente alcun contatto, in difesa della dignità del paese che li ha eletti, dovettero pretendere che venissero messe le cose a posto. Prima ancora che il Parlamento si aprisse e d’allora in poi e con replicata insistenza chiesero il mantenimento della parola luogotenenziale: Lavis- Grumes, avvertendo che altrimenti col luogotenente baron Spiegelfeld non sarebbe stato possibile trattare in Dieta né la questione di Fiemme né altra questione importante. La crisi laboriosa Passarono molti mesi, tanto per confermare che un popolo come il nostro non può attendersi giustizia, se non tardiva ed incompleta, e in questo periodo si misero in opera ogni sorta di pressioni e minacce. Si concepì il piano di convocare in ogni caso la dieta, di forzarne i lavori creando una maggioranza antiitaliana ed eventualmente di scioglierla. Si fece sentire in mille modi uno spirito di rappresaglia che pungeva di fianco; ed è ancora nella mente di tutti la campagna del gennaio scorso nelle Innsbrucker Nachrichten ed in simili giornali, ove la Cancelleria innsbruckese tentava addirittura d’organizzare l’odio contro gli italiani descrivendo i nostri deputati come intriganti ed ambiziosi che avessero tentato di provocare una crisi, la quale veniva pertinacemente smentita, semplicemente perché invece d’un italiano al posto di vicepresidente era stato nominato un altro italiano! Ed anche qui si rivelava la solita perfida tendenza di dividere prima i tedeschi dagli italiani e poi i trentini fra di loro. Allora non abbiamo perduta la calma né ci siamo lasciati trascinare ad una discussione che i giornali inspirati volevano assolutamente provocare come non ci spaventarono le rappresaglie politiche che volevano essere una prova di sicurezza, mentre erano un sintomo di debolezza. La campagna della stampa poteva del resto procrastinare ma non scongiurare oramai lo scoppio della crisi. Durante la quale e proprio fino all’ultimo i deputati – malgrado tutto – hanno considerato e trattato il conflitto nella sua sostanza oggettiva e non nei termini personali, cosicché la loro azione rispetto alla questione tramviaria si può considerare come lo sforzo massimo possibile per un miglioramento delle proposte del luglio . Queste le linee principali della crisi. Che se fosse dato di pubblicarne tutti gli episodi e tutte le vicende, si potrebbe constatare ancora meglio quanta somma di lavoro, quanta tenacia di propositi, quanta concentrazione di sforzi sia necessaria, quando un risultato che a partiti tedeschi, rispetto a persone di indiscusso valore, riuscì così agevole ad ottenersi, debba venir raggiunto da pochi uomini in nome di un paese piccolo e debole, sul quale si è soliti passare all’ordine del giorno. *) La Correspondenz Austria ha mandato ai giornali una preistoria della crisi che non è esatta e di cui a torto nella Reichspost viene attribuita la paternità ad un capo del partito popolare.
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[...] Si è affermato anche nel recente comizio che la questione di Fiemme ha un carattere generale riguardante il paese, la nazione. Accettando questo criterio e non esagerando converremo tutti che essa almeno è una questione la quale riguarda Trento come capitale del paese ed un complesso di relazioni morali e di vincoli economici fra questa capitale e due importanti vallate. Da questo largo punto di vista e non da quello semplicemente dell’interesse locale abbiamo il diritto ed il dovere di riguardare quindi il problema, anche come consiglieri comunali di Trento ed in ogni caso quali rappresentanti politici del paese. La proposta Lavis-Cembra ed Egna-Predazzo, fatta dai liberali Premesso questo, ricorda brevemente il compromesso di Bolzano, le trattative del dicembre 1911, le susseguenti trattative prima e durante la sessione dietale, per una parziale attuazione del compromesso, le trattative per la Lavis-Grumes, infine la proposta Pinalli per la Lavis-Cembra e la Egna- Predazzo. Questa proposta venne fatta a nome della deputazione trentina, popolare e liberale, sia di fronte alla maggioranza tedesca che al Governo. Di fronte a questi fattori essa rappresentò fin d’allora la concessione massima che gli italiani avrebbero fatto e che subivano perché si trovavano di fronte alla volontà del governo, all’opposizione dei tedeschi e al volere della valle di Fiemme. La proposta venne fatta per salvare il salvabile e per riservarsi la possibilità della futura continuazione della Lavis-Cembra. Solo perché i tedeschi sia col pretendere un tipo di costruzione inferiore di tale tratto di linea, sia coll’esigere un’ingerenza nella Egna-Predazzo volevano torci anche la possibilità avvenire della continuazione della Lavis-Cembra, scoppiò in Dieta l’ostruzione. Dopo la chiusura della Dieta, fu giuocoforza che i deputati parlamentari riprendessero le trattative col Governo: lo voleva già il fatto che alla Dieta bisognava, pur un giorno o l’altro venire ad una conclusione pratica e la circostanza che in Fiemme la nuova rappresentanza della Comunità generale costituiva un comitato tramviario coll’incarico di venire ad una finanziazione della ferrovia. Le trattative del Comitato in Fiemme, in maggioranza liberale per la Egna-Predazzo Che questa fosse la linea di S. Lugano non era dubbio per chi conosceva le tendenze fiemmesi, rinforzate dalle delusioni patite nelle trattative per l’avisiana coll’amministrazione democratica di Trento. Ciò apparve manifesto quando si seppe che il comitato tramviario trattava sia col signor Felice Oss-Mazzurana sia col baron Sternbach per la Egna Predazzo. Al primo allarme dell’Alto Adige, noi avvertimmo allora che il comitato era composto in maggioranza di liberali-nazionali e che quindi al partito dell’Alto Adige sarebbe stato forse facile d’intendersela. Intanto era urgente che i deputati insistessero a Vienna per avere dal governo offerte impegnative, appunto perché se frattanto fosse intervenuto un pronunziamento pubblico dei fiemmesi in favore della linea di San Lugano, sarebbe stata indebolita la posizione di chi cercava raggiungere qualche cosa sull’avisiana. Ai 23 maggio comunicai lo stato delle trattative alla Comunità generale, pregando che si volessero attendere i passi dei deputati i quali, senza impegnarsi per conto di nessuno, si sforzavano di ottenere una base concreta da presentare ai fattori competenti. Già allora eravamo ridotti sulla base Egna- Moena e Lavis-Cembra, ma il governo rimaneva duro nel proposito di dare per la linea di Egna solo un contributo in azioni di fondazione e lasciarla poi fare e gestire dal comitato di Bolzano e da parte dell’Avisio, voleva costruire il tratto fino a Cembra con un tipo assai ridotto. Di queste trattative diedi sempre informazioni vocali al podestà di Trento e l’on. Conci ne informò i comuni di Cembra. Ai 28 maggio ebbe luogo ad Egna un convegno di interessati dei comuni dell’alto Adige (sic). Le pubblicazioni che ne seguirono, l’appello rivolto da tale convegno ai fiemmesi, che fu poi largamente diffuso nella valle provocarono una reazione a Trento con una relativa discussione e deliberazione in Municipio. Il volere della Comunità. Frattanto io avevo ricevuto dalla Comunità una comunicazione in cui mi si avvertiva che «la popolazione fiemmese e la comunità generale vogliono quanto prima una congiunzione tramviaria né pensano a rinunziarvi sino al momento, in cui lo Stato e la Provincia appoggeranno la costruzione della linea avisiana. L’attuale Presidenza e l’attuale Comitato agiranno certo in tali sensi convinti che la protrazione della vertenza tramviaria non sia più assolutamente compatibile cogli interessi di Fiemme». Fu perciò che in Municipio, quando di quei giorni si voleva limitarsi ad affermazioni generiche proposi che si entrasse subito in trattative concrete colla comunità generale. Sorpassiamo le trattative coll’ing. Münz ch’ebbero luogo ai primi di giugno. Io lo mandai al Podestà ed a questa circostanza accenno per ricordare come anche allora ponevo mente a tutti i possibili miglioramenti della base governativa, giacché il Münz proponeva di fare nuovi studi e progetti, edificando sulla base Lavis-Cembra ed Egna-Predazzo che supponeva potessimo raggiungere. E veniamo alla conferenza dei 7 giugno in Municipio, presenti i delegati di Fiemme D.r Deleonardi, Fr. Giacomelli, podestà di Predazzo e Pettena capocomune di Moena. Dichiarazioni dei fiemmesi a Trento. In quella seduta alle sollecitazioni di Trento i delegati di Fiemme risposero con una comunicazione scritta nella quale reclamavano l’urgenza della ferrovia ed enumeravano i danni patiti per la sua mancanza, dicevano che Fiemme non può aspettare più oltre e che «ritengono che le lunghe trattative di vent’anni hanno dimostrato per l’accanita opposizione dei tedeschi, anche recentemente confermata, che è impossibile ottenere per l’avisiana contributi dallo Stato e dalla Provincia, credono quindi giunto il momento di provvedere in altro modo ad una congiunzione tramviaria, salvi sempre il carattere nazionale e l’indipendenza economica della valle». Tuttavia anche per l’avisiana lasciavano al Municipio di Trento un «brevissimo tempo», prima per fissare i suoi contributi, secondo per provocare dallo Stato una dichiarazione di massima sul suo atteggiamento. Si riservavano però frattanto piena libertà di azione. In quella conferenza il D.r. Deleonardi con grande calore ed energia, ripetutamente e replicando all’on. Viesi dichiarò che la linea di Egna non avrebbe portato nessun pregiudizio nazionale ai fiemmesi. Il deputato Battisti esprimeva allora con molta sicurezza la sua opinione che il governo in ogni caso non avrebbe contribuito né per la linea S. Lugano né per l’avisiana ma avrebbe turlupinato tedeschi ed italiani. Il voto del Consesso In seguito ad altre comunicazioni fatte dai deputati alla Comunità, in cui si assicurava che le trattative col Ministero continuavano, in data 16 giugno la Comunità mi scriveva essere stato riferito in pieno Consesso sullo stato delle cose e sulle mie comunicazioni ed il Consesso «nel mentre approvò l’operato del Comitato (tramviario) e lo incaricò di continuare, d’accordo cogli on. deputati della valle, le trattative, trovò di applaudire all’attività da lei spiegata in questa vertenza». Segue l’invito a sollecitare la conclusione. Accenno a questo, perché più tardi qualche membro del consesso fingerà di non saper nulla di nulla e mi accuserà d’aver mantenuto una corrispondenza segreta colla Presidenza. Intanto Trento portava il suo contributo per l’avisiana o per il compromesso e rispondeva alla Comunità di non voler provocare da sola una dichiarazione di massima del Governo, ma di voler prima accordarsi in Fiemme sui contributi della Comunità generale e poi presentarsi assieme al Ministero. Alle trattative in Cavalese non partecipai perché trattenuto a Vienna, ma il mio atteggiamento d’allora fu molto chiaro e molto logico. Ripetutamente in lettere e telegrammi lunghissimi eccitai la Comunità a votare per l’avisiana e per il compromesso, pur descrivendo il vero stato delle cose e lasciando capire che avevo ben poca speranza sul raggiungimento dell’una e di tutto l’altro. Tuttavia, l’affermazione per l’avisiana, scrissi, è un doveroso atto di solidarietà trentina, il sostenere il compromesso una buona tattica per migliorare più che fosse possibile la posizione di chi trattava col governo. Le mie lettere e i miei telegrammi giacciono nell’archivio della Comunità, ognuno può consultarli e dedurne l’onestà e la sincerità della mia condotta. Il contegno dell’on. Degasperi Un bel giorno ricevetti un telegramma della presidenza della Comunità che chiedessi un’udienza al ministro delle ferrovie; credetti trattarsi dell’ideata conferenza comune di Fiemme e Trento e domandai e feci fissare l’udienza. Ma poco dopo mi si telegrafò chiedendo che l’udienza venisse rimandata, perché non s’era concluso con Trento. Che io in questa faccenda dell’udienza ho agito lealmente basta a dimostrarlo la circostanza che ne avvertii il podestà di Trento e ne feci comunicazione al D.r. Battisti. L’accusarmi d’imbrogli, come s’è fatto nel comizio recente, è aperta slealtà . Presentatomi al Ministro, questi un po’ seccato per tale altalena, mi disse sulle prime di non avere altro tempo a disposizione, poi stabilì che non avrebbe concessa l’udienza al più tardi del giovedì. Poi incominciavano le vacanze. Tengo ancora il biglietto del ministro. Telegrafai allora alla Comunità generale, invitandola ad affrettare le sue risoluzioni ed a venire poi a Vienna, assieme a Trento, che pregai venisse invitato dalla Comunità stessa mentre io lo facevo avvisare anche per mezzo dell’on. Battisti. Nel mio telegramma dicevo che sollecitassero eventualmente a convocare il consesso, quantunque io a questo non ci tenessi molto, primo perché di fronte al Ministero bastava una dichiarazione del comitato tramviario, secondo perché temevo che il consesso potesse anche negare il proprio voto all’avisiana. Si venne così alla conferenza del 5 luglio nel ministero delle ferrovie. Il giorno prima ci eravamo raccolti ad una conferenza nel club parlamentare italiano. Si durò grande fatica a persuadere i delegati di Fiemme a fare almeno una dichiarazione di massima per l’avisiana o per il compromesso, dichiarando essi che a simili impegni il consesso non avrebbe data la sua sanatoria. Temevano evidentemente una tattica dilatoria. Si andò infine d’accordo che il Podestà di Trento avrebbe aggiunto al suo memoriale che anche Trento chiedeva una pronta evasione con riguardo alla prossima presentazione del progetto legge sulle ferrovie locali e che io, quale deputato di Fiemme, m’avrei assunto la responsabilità di dichiarare innanzi al ministro che Fiemme sarebbe disposta a finanziare anche l’avisiana. Così avvenne. L’esito della conferenza è noto. Il ministro fece la proposta Egna-Predazzo e Lavis-Cembra in termini però molto più generali e con molto minor certezza sul modo e tempo di costruzione, di quello che abbiamo oggi. Su domanda del presidente della Comunità, il ministro rispose che voleva una risposta entro i 15 luglio. Dopo la proposta del Ministro Il giorno dopo, partiti i delegati di Fiemme, ci radunammo al club italiano e qui i delegati di Trento Cappelletti e Cristofolini convennero che, date le circostanze, fare una politica negativa non convenisse; essere ancora il miglior partito quello di tentare di garantire e migliorare la base governativa. Ritornati a Trento, agli 8 luglio si tenne una sessione privata in Municipio per deliberare sul da farsi. I delegati della comunità che, frattanto, avevamo pregato di tacere, telegrafavano di voler esserne disimpegnati, perché la popolazione voleva sapere il risultato del viaggio e m’invitavano a recarmi in Fiemme ad assistere alla seduta del consesso. Nella sessione confidenziale Cappelletti, Cristofolini, Bertolini , espressero l’opinione che di fronte a due valli non era consigliabile fare un bel gesto negativo che ponesse il seme della discordia fra i trentini. Zippel disse che si dovrebbe tentare la Lavis-Grumes; che nelle attuali circostanze dolorose però forse la cosa sarebbe tollerabile se si escludesse Bolzano dalla finanziazione della Egna-Predazzo. Battisti dichiarò che come socialista al Parlamento si trovava in tale posizione di fronte alla deputazione italiana, ch’egli potrebbe fare solo un’opposizione platonica. Gli arbitri della situazione sono i deputati dietali. Avanzate come sono oramai le trattative, converrà vedere se non si possa almeno garantire la contemporaneità della costruzione del tratto dell’avisiana. Crede che si dovrebbe provare a fare pressione su Fiemme. Bertolini ricorda che alla Dieta l’ostruzione italiana venne fatta contro le pretese dei tedeschi sul modo di finanziare e costruire la Egna-Predazzo e la Lavis-Cembra non contro queste due linee come tali. E per cercare di garantir meglio le modalità richieste per rendere possibile la continuazione della Lavis-Cembra. Coll’opporsi semplicemente si farà peggio. Quando uomini come Deleonardi, della cui fede nazionale non si può dubitare, dichiarano che Fiemme in linea nazionale non ne patirà pregiudizio, non si può pretendere la solidarietà di un intero paese con una parte contro l’altra. La conclusione. Tambosi concluse col dire che il D.r Degasperi dovrebbe cercare che i fiemmesi votino tali clausole da assicurarsi nazionalmente e da rendere possibile la continuazione dell’avisiana. Su esplicita domanda mia Tambosi dichiarò che avrei potuto dire che in tal modo si faciliterebbe la posizione a Trento, ci s’indorerebbe la pillola. Per torre ogni dubbio, in seguito ad un accenno del D.r Battisti dichiarai che se il D.r Battisti andasse in Fiemme e venisse autorizzato a dire il contrario di quello che si permetteva dicessi io, non ci sarei andato. Battisti rispose ch’egli, nel caso che si recasse in Fiemme, accentuerebbe naturalmente di più il punto di vista locale di Trento, com’è dovere del suo deputato, ma in fine anch’egli avrebbe lasciato capire che se votassero la clausola, la cosa sarebbe meno grave. Dopo queste conclusioni mi decisi di andare in Fiemme, in ossequio al telegramma della Comunità. Prima di partire, scrissi al Podestà un biglietto che sarà bene ricordare, perché comprova la rettitudine e la lealtà del mio contegno. «Trento 9 luglio 1912 Egregio Signor Podestà quantunque indisposto, parto per Cavalese dove su mia preghiera verrà convocato il comitato tramviario. Farò tutto il possibile per raggiungere le condizioni e i miglioramenti su cui nel convegno di ieri in Municipio abbiamo fermata l’attenzione, dimostrando come l’intesa, che tali formule e clausule servirebbero a facilitare la posizione di Trento. Le scriverò ancora domani l’esito. In ogni caso se Ella non potesse aspettare il risultato di Fiemme per convocare l’adunanza confidenziale – ciò che crederei opportuno – abbia la cortesia d’avvertirmene a suo tempo. Con ogni ossequio D.r Degasperi». La votazione di Cavalese A Cavalese il comitato tramviario formulò la nota proposta. Espressamente io dichiarai di non voler farne che la redazione. Il comitato nella sua maggioranza liberale-nazionale combinò la proposta da presentarsi al consesso. Tre giorni dopo questo venne convocato. Che cosa avvenne in questo periodo non so dire. Io me ne stetti inerte a Tesero, mentre il Battisti girava la valle, trattando perfino col capocomune di Trodena, mentre si spargevano ad arte menzogne sul mio conto, accusato di agire contro gli altri colleghi di deputazione, sicché dovetti telegrafare all’on. Gentili perché smentisse la cosa, e sovratutto si è sollevata fra i singoli comuni la questione del quartiere, cioè del peso che, virtualmente avrebbe gravato su ogni singolo comune, se avesse dato voto favorevole la Comunità. Ma l’evoluzione più rapida e più fenomenale venne compiuta dalla delegazione di Cavalese con a capo il D.r Deleonardi, il quale votò contro la sua proposta! Cambiamento di tattica La votazione di Cavalese del luglio 1912 mutò completamente la tattica dei partiti. Avevamo un bel dire noi che il rifiuto era venuto per dissidi interni, che per il grosso della questione non aveva a che fare, che la deputazione di Cavalese partiva da criteri essenzialmente locali, che la popolazione di Fiemme era tuttavia sempre in grande maggioranza per la linea di San Lugano. La menzogna convenzionale. A Trento invece la parte radicale volle gonfiare l’importanza del voto, ci diede un significato di solidarietà trentina che non aveva, e col poggiarsi su alcuni pochi di Cavalese, ricostituì e mantenne la menzogna convenzionale che la valle di Fiemme era con Trento contro la proposta governativa. S’incominciò quindi l’agitazione per l’avisiana, finché una dichiarazione molto franca dell’on. Tambosi che in una seduta preparatoria del consiglio disse: Proclamare «vogliamo la avisiana», data la nessuna disposizione del governo e della provincia e la posizione sfavorevole di Fiemme è proclamare di volere un fiasco, tagliò le ali anche al proletario Battisti che s’era reso il compito molto facile, facendo appello alla borsa dei borghesi. Lavis-Grumes È noto che una conversazione col luogotenente Spiegelfeld diede modo di avviare trattative per la Lavis-Grumes e dall’altra (ben compreso) la linea di S. Lugano. Le trattative furono appoggiate fin sul principio dall’on. Gentili che su proposta del Tambosi, ne scrisse al Governo, ma fu appoggiato ancora più dallo sforzo incessante di tutta la deputazione popolare, la quale a Vienna sostenne tutto l’autunno e tutto l’inverno: Vogliamo la Lavis-Grumes altrimenti se ne vada il luogotenente. E questo è caratteristico per lo sforzo di parte nostra di conciliare possibilmente la soluzione proposta cogli interessi di Trento. Ma è caratteristico anche per questo. La Lavis-Cembra è circa 13 km, anzi più, la Lavis-Grumes 23. Né l’una né l’altra ci assicurano la congiunzione con Fiemme, né l’una né l’altra attirano sull’Avisio il suo commercio. Ma in ogni caso codesti 10 km da Cembra a Grumes, che costano 2 milioni mentre dal Lavis-Cembra se ne spendono quattro, questi 10 km in più di quello che noi accettiamo e che viceversa avrebbero accettato Tambosi, Battisti e compagni, non è distanza tale che autorizzi a posare i liberali e i socialisti da immacolati difensori dell’intransigenza e della dignità e lanciare contro di noi l’invettiva di traditori della causa nazionale, degli interessi di Trento, straziatori dell’unità del paese, vili servitori del Governo. Anche voi v’eravate messi sulla strada dei compromessi e della transazione, perché vi spingeva la stessa fatalità di cose, la stessa congruenza di forze che hanno spinto anche noi sulla stessa via. Ma per voi Egna-Predazzo e Lavis-Cembra + 10 km sarebbe stato un trionfo, per noi Egna-Predazzo + Lavis-Grumes – 10 km rappresenta il tradimento del paese *). La differenza maggiore si rilevò durante quest’ultimo periodo, perché i liberali, sopra erronee informazioni credevano o fingevano di credere che la valle di Fiemme fosse d’accordo nel gran rifiuto. Ma avranno dovuto disingannarsi. Io stesso che in luglio avevo dichiarato di sentirmi esonerato dall’occuparmi ulteriormente della cosa, dovetti accorgermi che la mia dichiarazione fu troppo affrettata. Non solo i tedeschi avrebbero forzata una decisione, parlavano ai Ministeri per la Egna-Predazzo e sovratutto ci aspettavano nuovamente al varco della dieta, ma in Fiemme si lavorava attivamente per la finanziazione della Egna-Predazzo. Dopo il primo convegno di Panchià in cui gli otto comuni più importanti, fatta eccezione di Cavalese, insistevano per la Egna-Predazzo-Moena, durante l’inverno si costituì un comitato dei 5 comuni più interessati, i quali fecero un piano di finanziazione, avviarono formali e concrete trattative con Bolzano, e si deve all’influenza mia e dei miei amici, se li abbiamo trattenuti per un lungo periodo da pubbliche manifestazioni o da formali impegni. Di ciò esistono protocolli e relazioni documentate. Il pericolo che bisogna scongiurare Ecco qual’era la terza eventualità, che noi volevamo scongiurare, che Fiemme si buttasse con Bolzano, che questa acquistasse un influsso d’una valle finora libera che, contribuendo alla finanziazione della S. Lugano fosse un ostacolo perfetto alla continuazione dell’avisiana. Il nostro piano ed un tempo quello dell’intiera deputazione trentina alla Dieta era di creare nella linea di S. Lugano una linea per quanto fosse possibile libera da influssi bolzanini, e sulla quale dei fattori locali potessero contribuire i fiammazzi soli. Di fronte a tale cumulo di circostanze i miei colleghi ed io, tutti in piena armonia, abbiamo favorito l’accordo degli interessati locali perché colla votazione dei contributi venisse assicurata tale soluzione. Certo è doloroso che Trento non abbia raggiunta fin d’ora la sua diretta congiunzione con Fiemme, ma troppe circostanze ci furono avverse: la linea avisiana è più lunga di parecchi chilometri e più costosa, il governo è sfavorevole, la Provincia in maggioranza nelle mani degli avversari dell’avisiana. Per di più il popolo di Fiemme è legato da tradizioni ben più vecchie del suo stradone allo sbocco di S. Lugano. Male a proposito vennero ricordati nel recente comizio i patti gebardini del 1110, perché essi sono una prova delle antichissime relazioni fra Fiemme e l’alto Adige. Allora Fiemme si considera la valle dalla «chiusa di Trodena fino al ponte della Costa» e fin a quei tempi remoti risalgono i diritti di pascolo dei fiemmazzi sul terreno dei comuni di Val d’Adige e viceversa l’obbligo della Comunità di pagare una quota per la manutenzione del ponte sull’Adige ad Egna, perché i valligiani passavano di là. Il lato nazionale Certo se il raccordo di una tramvia per il passo di S. Lugano alla stazione della meridionale Egna-Termeno, ove ora partono invece le automobili o i carri, potesse rappresentare la perdita nazionale di Fiemme, noi tutti, a qualunque costo, avremmo dovuto opporci. Ma l’opinione dei più equanimi non condivide tali timori, e basti fra tutti il direttore dell’«archivio per l’Alto Adige» , non sospetto certo di tedescofilia o di clericalismo, il quale sostiene che tale linea potrà essere nazionalmente un vantaggio. Quella certa tedescofilia in certi circoli di Fiemme del resto in diminuzione dipende dall’emigrazione temporanea come da essa dipende il volksbundismo in Vallarsa e Terragnolo, che è pur congiunta con Rovereto o di certi paesi della Valsugana, che è pure percorsa da una ferrovia la quale parte a Trento e mette capo a Venezia. Perciò abbiamo concluso: salviamo il salvabile! Non ci siamo piegati per servire nessuno, ma come l’uomo che si piega per non essere spezzato da una forza maggiore e per risollevarsi poi ancora a combattere e a vincere. Certo una cosa non abbiamo salvato, quello che sperai lungo tempo di raggiungere, cioè la solidarietà trentina, d’evitare cioè lo spettacolo doloroso di una lotta fratricida in mezzo a tanti avversari. Ma qui prevalse il vecchio odio di parte, lo spirito anticlericale e la mania della frase rimbombante e tribunizia. Di fronte al quale spettacolo noi continuiamo tranquilli e sereni l’opera nostra, consci della nostra responsabilità e del nostro dovere. Il discorso detto con grande calore e lucidità fu interrotto spesso da applausi ed infine l’oratore, contro il quale in questi giorni si appunta l’ira avversaria, venne fatto segno ad una grande ovazione. *) Esattamente secondo il progetto Fogowiz, la Lavis-Cembra è di 13,5 km la Lavis-Grumes 23,6 km.
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21911-1915
Uno degli oratori del comizio in Municipio l’avv. Menestrina ha detto: «Rammentate che questo cortile vide un altro comizio, quello in cui voi respingeste una proposta di autonomia che avrebbe staccato dal Trentino la Valle di Fassa; allora per non sacrificare Fassa si sacrificò con un disdegnoso rifiuto un provvedimento vantaggioso a tutto il paese. Oggi, oltre a Fassa, si dovrebbe perdere anche Fiemme, senza l’ombra di un compenso che non sarebbe mai adeguato» . Il ricordo è fatale ed il ragionamento dell’oratore liberale non può voler significare che questo: Ricordate che allora avete commesso un gravissimo errore, oggi vi convochiamo a commetterne un altro . Se infatti si fosse accettata ed istituita allora l’autonomia amministrativa per tutto il Trentino tranne Fassa, in linea nazionale i vantaggi sarebbero stati grandissimi. Ricordiamo anzitutto la lotta linguistica. Avendo noi in mani nostre il consiglio scolastico provinciale, si sarebbe evitata tutta la violenta campagna che abbiamo dovuto sostenere e sosteniamo tutt’oggi unguibus et rostris contro il Volksbund e tutti i tentativi di germanizzazione sul terreno scolastico. I sacrifizi di denaro, di fatiche, di energie sarebbero state sostituite da semplici deliberazioni del nostro consiglio scolastico autonomo. E Fassa? Fassa in realtà sarebbe rimasta come oggi. Sarebbe stata sottoposta al consiglio scolastico misto, come oggi siamo tutti in tutto il Trentino, ma viceversa le istituzioni di difesa nazionale e tutti i buoni italiani avrebbero potuto concentrare in Fassa ed oltre la loro attività. La «rinunzia» sarebbe stata quindi semplicemente una frase. Che più? Proprio nella questione tramviaria di Fiemme, se allora avessimo accettata ed ottenuta l’autonomia amministrativa, la posizione dell’avisiana sarebbe ben stata più favorevole! Una gran parte della pressione in favore della linea di Egna, che deriva dalla maggioranza dietale tedesca non esisterebbe o sarebbe stata attutita. Vestigia cerrent. La politica d’allora fu un disastro, e noi ne soffriamo le conseguenze. Andammo di male in peggio, da Fassa venimmo ricacciati sulle difese in Folgaria e in Valsugana. Dobbiamo oggi ripetere l’errore? Per conto nostro, no risolutamente no. L’Alto Adige dice che i «clericali» non dovrebbero ritenersi «infallibili». Stia certo l’organo liberale che non l’abbiamo mai creduto e che, proprio nella questione di Fiemme, abbiamo valutate tutte le eventualità, tutto il rischio. Anche noi abbiamo avuto delle preoccupazioni e non ci siamo passati sopra a cuor leggero, anche noi abbiamo pensato, se forse non commettessimo un errore. Ma per quanto l’accettazione dell’odierna soluzione provvisoria ci potesse sembrare dura di fronte ai comuni e vecchi postulati dell’avisiana, per quanto anch’essa non sia priva di rischi per l’avvenire, di fronte alle certe conseguenze di una tattica negativa e di un’opposizione radicale, non abbiamo potuto che scegliere la accettazione. Era meglio salvare oggi la Lavis-Cembra, cioè 4 milioni dell’avisiana, colla possibilità della continuazione o perderla tutta, oggi o domani? Era meglio che in Fiemme un ente autonomo ed italiano costruisse, assieme al governo, come una volta lo stradone di Egna, così oggi la ferrovia, o lasciare che i fiemmazzi, alleati col comitato tramviario di Bolzano documentassero nella forma e nella sostanza il distacco dal Trentino? Vagliato il pro e il contro, non abbiamo potuto esitare. Sapevamo che avremmo dovuto affrontare una corrente fortissima che anche per noi sarebbe stato così dolce, così comodo assecondare, ma la coscienza della nostra responsabilità (e null’altro!) ci diede il coraggio della risoluzione. O se, all’infuor di essa, s’aggiunse qualche cosa che ci poté facilitare la decisione, fu il ricordo fatale del rifiuto e della rinunzia, a cui accennò l’avv. Menestrina, ed il rimpianto ora quasi generale nel Trentino che allora non siano insorti degli uomini coraggiosi ad affrontare a sangue freddo il vuoto dominio della frase.
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21911-1915
Nell’odierna vita pubblica la frase, la parola d’ordine acquista un valore straordinariamente comprensivo e rappresentativo. Ciò avviene in modo particolare quando tali manifestazioni della vita politica o sociale vengono più dal sentimento che dal ragionamento. S’incontrano invero delle suggestioni di frasi anche sul terreno economico: basta pensare alle pregiudiziali del marxismo, ai dogmi dei liberisti. Ma la terra in cui la frase fiorisce a meraviglia e cresce a dismisura è la politica propriamente detta; la politica che si fonda su aspirazioni diffuse e quasi spontanee, ma non approfondite, che emana da concezioni di diritto immanenti ed indiscusse, che risponde ad impulsi istintivi e calcola su essi. In Austria il dominio della frase è potentissimo sul terreno della politica e della lotta nazionale. Ci sono delle frasi che s’impongono per lustri, ci sono delle parole semisecolari che mantengono il loro impero anche sulle vergini generazioni che seguono, ci sono stereotipie divenute oramai il patrimonio di famiglia che vengono ereditate da padre in figlio, come i mobili di casa, e oltre a ciò, più spesso, colla rinunzia al beneficio dell’inventario. Ribellarsi a questo dominio che governa oramai come autorità costituita non è cosa da poco e i ribelli sono quindi assai rari e per lo più sfortunati. I loro sforzi non sono per questo però meno notevoli. Degno di rilievo ci è parso in tal riguardo un articolo recente della «Meraner Zeitung» scritto da un S.W. che il giornale dice buon conoscitore delle condizioni nazionali del Trentino e dell’Alto Adige. Il signor S.W. si professa caldo seguace della politica nazionalista, rileva gli sforzi fatti dall’ottanta in qua dal Schulverein e da altre società consimili e poi si chiede perché mai, dopo tanti sforzi e tanto lavoro, i risultati siano così disastrosi. Due terzi dell’articolo sono dedicati a rispondere a tale domanda. Noi non lo tradurremo né lo riassumeremo nel suo ragionamento, ma ci piace riferire alcuni passi che rappresentano o confessioni preziose per noi o in ogni caso un’autocritica tedesca, degna dell’attenzione nostra. «Diremo di nuovo che la colpa è del governo, della Curia italiana, frasi che sono tanto comode e sono sempre sicure del plauso delle masse? No. La causa della decadenza del tedeschismo nel Trentino, nell’Alto Adige da Salorno fino a Bolzano va ricercata altrove». In questa ricerca l’autore constata francamente che lo scopo delle società nazionali è di conservare al popolo tedesco i figli di madri tedesche in regioni bilingui e di rigermanizzare quei territori che divennero italiani solo nel secolo XVIII. Con quali mezzi? Non ce n’è che tre: ammazzare gli italiani, e sarebbe la più spiccia ma è un metodo che dopo la trasmigrazione dei popoli non è più in uso e poi sarebbe pericoloso se il metodo trovasse imitatori in Boemia, assimilarli, ma oramai i tedeschi non ne hanno più la forza. Non resta che una terza via: essere più bravi. «Superano forse i nostri legali i legali italiani? No, e qui sta il marcio. Il legale italiano in 98 casi su 100 è la forza più usabile, perché egli possiede tutte due le lingue del paese, mentre il tedesco ha già smaltito da un pezzo nelle sbornie l’italiano che ha appreso in ginnasio. Ma chi costringe gli italiani ad imparare il tedesco? Noi colla nostra politica nelle nuvole, che sogna la germanizzazione ed intanto consegna al nemico ed a proprie spese quelle armi con cui nella lotta dell’esistenza ci sconfiggerà. Ma dateci una volta la loro fabbrica di legali italiani in terra italiana, e poi vedremo quali progressi potranno fare col loro tedesco ginnasiale, come notai, giudici, impiegati erariali. Allora sarà finita coll’inondazione del territorio tedesco per parte del proletariato dei legali italiani». Lo scrittore esamina, poi le condizioni ai confini linguistici e nei paesi dell’Alto Adige, ed esce a dire: «Colle frasi a buon mercato di germanesimo invincibile, di energie popolari inesauribili e simili oramai non s’incute timore nemmeno ai più pidocchiosi Sarmati dei Carpazi. Seguiamo la sorte di una serie di famiglie tedesche nell’Alto Adige, sangue puro e tirolese. Ora figli e nipoti sono corrotti, andati in rovina, scomparsi, morti negli ospedali o degenerati, tutta gente gravata di malattie ereditarie, impotenti a resistere nella lotta per l’esistenza. L’alcool sciagurato è la radice del male. Perché vengono quassù codeste masse italiane? Hanno forse il proposito di schiacciarne i tedeschi? Niente affatto. La fame è quella che li spinge e li attrae la prospettiva del guadagno; anch’essi vogliono vivere». La «Meraner Zeitung» studia poi il corso di queste famiglie che cacciano le originarie tedesche, perché sono più sobrie e lavorano a più buon prezzo, e si chiede di qual razza siano oramai abitati i paesi di Bronzolo, Leivers, Laghetti, Salorno, ecc. Secondo l’autore non sono affatto tedeschi per quanto si dicano tali. «A scuola viene loro ingozzato il tedesco, ma fra loro parlano italiano, essi non sentono e non agiscono da tedeschi e se non viene un rinsanguamento di puro sangue tirolese, verranno ingoiati dalla crescente marea italiana, perché essi etnicamente non sono quello che sembrano, per quanto all’anagrafe facciano mostra del loro carattere tedesco. Tutto ciò è finzione, patriottismo affarista, matrimonio convenzionale!». «Interessante è anche che nei luoghi suddetti vengano letti molto più giornali italiani che tedeschi. Che cosa ciò significhi, non occorre esaminare più a lungo». Infine l’articolista propone l’unico rimedio, secondo lui, possibile: cioè il rinsanguamento di codesta razza «bastarda» ai confini, il che evidentemente vorrà dire una specie di colonizzazione con tirolesi genuini e più settentrionali. La cosa è tanto più urgente, secondo lo scrittore perché le condizioni attuali celano un pericolo politico grave. Recentemente fu chiesto ad un consigliere comunale d’uno dei luoghi sovracitati da che parte si metterebbe in caso di una divisione dell’Austria, coi tedeschi o cogli italiani? Rispose: «Vo’s hoalt am konvenient»! (Dove si starà meglio). È il caso – conclude lo scrittore della Meraner – di gridare analogamente a Riza Pascià: «Non lasciatemi soli con codesta razza di gente, mandatemi tirolesi!». Le quali parole vogliamo lasciarle qui anche noi a conclusione, senza commenti. Ci paiono l’iscrizione funebre del sogno prepotente che voleva fare tirolesi tutti i trentini, fino alla chiusa di Verona. Oggi bisogna oramai provvedere ai «bastardi» della regione bolzanina.
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21911-1915
Vienna, 2 Non c’è più dubbio alcuno che la guerra sia realmente scoppiata . Ogni governo cerca di farne risalire la responsabilità agli altri, e Serbia e Bulgaria si dichiarano adesso pronte ad accettare l’arbitrato dello Czar e a mandare i loro rappresentanti a Pietroburgo. Grecia, Bulgaria e Serbia assicurano di voler solo rispondere agli assalti nemici, dichiarano di non essere la parte assalitrice e di essere stati invece assaliti dagli altri, e protestano contro la insinuazione di aver cominciato la guerra. Tutte queste dichiarazioni hanno un valore molto relativo e sembrano destinate più che altro ad uso e consumo degli stranieri. Resta il fatto però che significano una disfatta completa della politica russa, la quale ha dimostrato la sua impotenza di impedire agli slavi di combattersi fra loro. A Belgrado, donde è giunta la notizia che i combattimenti durano tutto il giorno, si considera la guerra come realmente scoppiata. La questione dell’arbitrato passa in seconda linea e il ministro degli interni Protic a nome del governo ha detto che la guerra è scoppiata perché i bulgari l’hanno già cominciata. Con ciò anche il memoriale serbo spedito a Pietroburgo ha ben poco valore. Nel pomeriggio il ministro degli esteri greco, Koromilas, ha dichiarato che il governo greco considera la guerra come ormai scoppiata, e con ciò è escluso che fra la Bulgaria e la Grecia si possa parlare ancora dell’eventualità di una soluzione pacifica. Resta però il fatto che gli ambasciatori non sono stati ancora richiamati e che non sono state rotte ancora le relazioni diplomatiche fra gli stati balcanici. Ancora, pare accertato che la Rumania per intanto si manterrà quieta. Non è ancora bene accertato quello che voglia fare la Rumania; probabilmente, quando la guerra sarà scoppiata, la Rumania aspetterà l’esito della battaglia decisiva. Si crede che la Rumania oltre che il tratto di costa Turtukaia-Balek voglia ancora qualche altra città e cerchi anche di occuparla durante la lotta. Lo scoppio della guerra fra gli Stati balcanici significa anche una piena disfatta della politica panslavista e della politica antitriplicista. Intanto non si può parlare di intervento o mediazione delle potenze.
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21911-1915
Noi, dobbiamo confessarlo, abbiamo commesso un grande delitto. In municipio , per mezzo dei nostri amici, abbiamo criticata la proposta di cedere 1000 mq. del giardino Garzetti alla «Unione ginnastica» . Con quali argomenti abbiamo fatto la nostra opposizione? Forse, attaccando l’Unione ginnastica e la sua attività, forse rilevandone la sua opera di partito! No. Ci siamo semplicemente associati agli argomenti di due consiglieri liberali, di due membri di Giunta della maggioranza ed abbiamo aderito alla loro proposta di rimettere la deliberazione su tale argomento al nuovo consiglio, che verrà eletto in base al suffragio universale. Abbiamo anzi aggiunto che, secondo noi, il Municipio di Trento riguardo a sovvenzioni, non ha che due vie da scegliere: o tener conto delle giustificate domande di tutte le società, a qualunque partito appartengano, o respingerle tutte. L’attuale amministrazione ha applicato altre volte questo secondo principio, rilevando che il Comune non si trova in condizioni tali da poter essere troppo largo. Per conseguenza abbiamo chiesto che il principio dell’economia stretta si mantenesse anche di fronte all’Unione ginnastica. La proposta della minoranza della Giunta e nostra è caduta. La maggioranza ha votato la donazione all’Unione ginnastica. E sta bene. Ma era lecito ancora a dei cittadini di Trento, a dei contribuenti del comune di Trento, di esprimere il proprio disappunto per la votazione di una simile proposta? Noi abbiamo creduto di sì ed abbiamo ospitato due articoli, uno di un operaio, un socio della «Mutuo soccorso artieri», società, che si sappia, punto «clericale» , un altro di un cittadino contribuente che deplorava soprattutto la scelta del luogo ossia la distruzione di un giardino. Non l’avessimo mai fatto! L’Alto Adige è montato su tutte le furie, ha detto che quelli del Trentino sono «sdilinquimenti» e che noi possiamo gracchiare a nostro talento, perché infine non facciamo che il nostro mestiere. Ora confessiamo ancora una volta la nostra debolezza. Codeste frasi ingiuriose lanciateci con spagnolesca burbanza dall’Alto Adige, hanno un po’ urtato la nostra non esagerata suscettibilità. E abbiamo pensato che forse noi, organo di un partito che a Trento ha riscosso il plauso di 1343 elettori (vedi elezioni parlamentari 11 giugno 1911) avevamo pur diritto di muovere delle critiche anche se non piacciono all’organo dei 979, tanto più se in buona parte non facevamo che ripetere l’argomentazione di due assessori liberali. Ci siamo anche detto che noi le cui istituzioni pagano fior di quattrini alle casse municipali e di cui qualche impresa può contare tra i migliori clienti del comune avevamo pure il dovere di discutere di cose comunali senza lasciarci terrorizzare dalle ingiurie. O forse che doveva trattenerci dall’esercitare il nostro dovere il ricordo del trattamento usato dalle amministrazioni liberali a noi in occasioni simili, come quando alla società che costruiva il salone Manzoni non si volle vendere a nessun prezzo una lingua di terreno comunale lungo l’attuale edificio, preferendo di affittarla assieme al resto ai militari piuttosto che cederla a caro prezzo «ai preti»; ovvero come quando in sede di bilancio gli attuali rappresentanti della maggioranza ammisero e poi non fecero onorare la domanda di una nostra società musicale per un modesto, troppo modesto sussidio? C’è parso di no e perciò pur riportando integralmente la deliberazione del Consiglio , come ci pregava di fare il Municipio, abbiamo ieri aggiunto i nostri motivi, per i quali a noi pare di non poter cambiare atteggiamento. Abbiamo sbagliato, siamo in errore! E l’Alto Adige aveva il diritto di dimostrarcelo. Ma no; l’Alto Adige vuole non discutere, non ragionare, non convincere, ma vuole terrorizzare. Ier l’altro ha tentato di farlo coll’ingiuria, buttando in faccia a noi ed ai nostri collaboratori, censiti comunali, l’insulto del signorotto al villano che osa contradirlo, ed ierisera, sapete che cosa ha scritto ierisera? Che ognuno veda e giudichi! Ha scritto che, visto che noi critichiamo una deliberazione del Consiglio comunale di Trento, esso, Alto Adige pubblicherà degli articoli di attacco... contro la società ferroviaria Dermulo-Mendola, articoli, che teneva in serbo da parecchio tempo!!! Qui c’è tutta l’involontaria confessione di una campagna ignobile. L’annunzio è come un lampo il quale rischiara d’un colpo solo gli onestissimi propositi e le alte idealità che inspirano in tale mossa il giornale di via Dordi. Giudichi ogni galantuomo, di qualunque partito si professi, se codesta si può dire elevata e disinteressata missione della stampa per il bene del pubblico, o non sia invece una miserabile rappresaglia, inspirata ad un meschino odio di setta. Ma se i signori dell’Alto Adige a cui evidentemente è montato il sangue alla testa, credono di tapparci la bocca colle loro braverie, colle loro retorsioni, si ingannano a partito. Nel Trentino ed a Trento stessa c’è più popolo di quello che l’Alto Adige vede attorno a sé e il gracchiare di questo popolo può essere un giorno una protesta efficace, di cui difficilmente il giornale di via Dordi potrà sbrigarsi col gesto altezzoso del Grande di Spagna.
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21911-1915
La Germania ha votato le sue leggi militari e quelle finanziarie che dovevano venire per rendere possibile l’applicazione delle prime. Ora è notevole e merita di venire rilevata la circostanza che il partito socialista votò unanime per la riforma tributaria, contribuì cioè in modo eminente all’applicazione della legge militare, ossia al supremo sforzo che ha fatto la Germania negli armamenti. La motivazione di tale voto è alquanto curiosa. Votiamo, dissero i socialisti, per il progetto finanziario combinato dalla maggioranza, perché di esso fa parte la contribuzione sulle sostanze. Quest’imposta colpirà i possidenti e li guarirà così dalla loro mania militarista. In realtà però il vero motivo fu un altro. Il partito socialista s’è finalmente accorto che con la sua politica puramente negativa si manteneva in un isolamento infecondo. Ha pensato quindi di raggiungere un’influenza reale per conquistare in Prussia il suffragio universale e ciò coll’allearsi ai liberali di sinistra. Ma quest’alleanza era possibile solo se i socialisti nel momento solenne che attraversa la Germania, non si fossero tenuti proprio in disparte. Così avvenne che i socialisti votarono per le imposte e precisamente per le imposte militari. La Neue Freie Presse rileva l’importanza sintomatica di tale voto. È la prima volta dalla costituzione del partito germanico in qua che i socialisti votano per un progetto governativo e precisamente per un’imposta. Finora avevano sempre tenuto fermo alla massima di non collaborare in nessun senso col Parlamento dello stato borghese. Ora questa linea di condotta, seguita per quasi mezzo secolo subisce una brusca interruzione. I socialisti si sono detti che è meglio cercare d’influire nel proprio senso sulla legislazione che aspettare la catastrofe dello stato borghese che pare ancora al di là da venire. Il voto dei socialisti germanici assume così un valore internazionale. L’Arbeiterzeitung di Vienna non ne ha ancora voluto prender nota perché, evidentemente, con un voto favorevole a leggi finanziarie militari si perde molto di quella posa di fieri e di irreducibili tribuni che i deputati rossi sono soliti assumere in occasioni analoghe.
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21911-1915
I prigionieri bulgari – vedi i nostri telegrammi d’oggi giunti al Pireo – furono accolti a risate dai prigionieri turchi. Questo turco che, nella sua disfatta, può ridere dei cristiani vincitori, appare nello sfondo azzurro del Pireo come il Mefistofele della moderna civiltà europea. In ottobre il re dei greci, circondato dal Santo Sinodo, proclamava l’unione di tutti i popoli cristiani contro la barbarie e la tirannide turca, in luglio spinse il suo popolo a vendicare col sangue la perfidia dei vincitori dei turchi . E come accorrono anche questa volta i greci, come scannano, come ammazzano, come il sangue dei fratelli bagna i campi della Macedonia! E in mezzo alla mischia, leva il suo capo il Turco che pareva annichilito e getta in faccia all’ipocrisia europea il suo sghignazzo. Crociate, fratellanza cristiana, trionfo della Croce? Erano frasi copiate dai proclami dei Papi, erano forme che richiamavano una grande epoca storica. Ma sotto le frasi, dietro la forma, mancava il pensiero, non c’era l’anima. Si parlava di liberazione cristiana, ma si pensava alla conquista pagana, e quando essa venne compiuta, il principio vero dominò da solo e scatenò l’egoismo. Ora nessuno può levarsi nel mondo a richiamare i belligeranti ai loro proclami ed ai loro giurì che datano da pochi mesi: non Clemente III che riconciliò l’Inghilterra e la Francia per unirle nella crociata, non Innocenzo III che scrisse al re di Francia, comandandogli in nome del Vangelo di cercare e di far regnare la pace, non Eugenio IV che per unire tutta la cristianità ordina nella sua bolla «in virtù dell’autorità che viene dall’Onnipotente, che il mondo cristiano sia in pace», non Pio II che per meglio vincere la barbarie turca ha il proposito d’ordinare fra tutti i popoli cristiani un armistizio di cinque anni, pena la scomunica. Nessuno può levare oggi una voce che imponga la pace, che richiami le coscienze al concetto della guerra giusta od ingiusta. La Chiesa nonché imporre la pace deve subire essa stessa tutti i giorni la guerra più aspra nella sfera delle sue legittime influenze e raccogliere tutte le forze dei suoi fedeli per non essere spogliata di tutte le sue libertà. Ma anche la concezione ghibellina del Medio Evo non ha oggi alcun raffronto. Dante che invoca la monarchia universale perché, «ubicumque potest esse litigium, ibi debet esse judicium», scompare ormai come ombra evanescente nello sfondo remoto dei secoli. Perché? Forse perché la forma, la costituzione dello stato di cose che invocava il Grande di Firenze, sono troppo lontane dagli istituti politici e sociali moderni? Niente affatto. Non è questo il contrasto maggiore. In vero il «concerto europeo», la «conferenza degli ambasciatori», la nuova organizzazione diplomatica potrebbero sostituire l’autorità dell’impero romano germanico, come l’invocava il grande Ghibellino, autorità civile somma e suprema che lasciava la massima autonomia alle nazioni ma «cui de jure subesse debent omnia regna et omnes gentes mundi ad faciendam et conservandam concordiam gentium et regnorum per totum mundum». L’idea dunque potrebbe sopravvivere ai mutamenti dell’ordine politico sociale se esistesse ancora la base su cui da una parte i Papi ed i Vescovi con le loro tregue ed i loro arbitrati, dall’altra il pensiero pacifista ghibellino fondavano tutto il loro diritto e la loro forza d’esistenza. Se esistesse cioè l’unanime consenso o l’assenso della maggioranza dei popoli a quel concetto di giustizia e di fratellanza cristiana, che dominava il Medio Evo. Ma dacché tutto il grande edificio della res publica christiana è caduto, dacché al principio della guerra giusta si è sostituita, dominatrice assoluta, la ragione di stato, è crollata la base, tanto per un fecondo intervento della società religiosa, quanto per l’efficacia di qualunque arbitro supremo che ci richiami ad un principio morale. Gli è così che il Turco ha potuto ridere dei cristiani odierni che nella guerra contro la barbarie hanno bensì usurpato ai loro padri gli epiteti onorifici ma non ne hanno ereditato i titoli del diritto.
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21911-1915
Abbiamo letto ieri nel Corriere della sera alcune considerazioni di Luzzatti sulla rivelazione bestiale ch’è oggi la zuffa selvaggia delle fiere balcaniche, e ci ha colpito in modo particolare la conclusione a cui lo scrittore liberale muovendosi in larghe evoluzioni moralizzatrici è arrivato. Giova riferirla per intiero. «L’internazionalismo dei lavoratori, che dice con troppa burbanza: noi soli salveremo il mondo dalle guerre, noi rechiamo la pace universale, comincerebbe, per porla ad effetto, col distruggere la borghesia, comincerebbe, se si lasciasse fare, quale non voluta ma necessaria conseguenza delle sue dottrine, colla guerra civile, la quale è ancora peggiore della guerra fra Stati. È perciò che a noi è sempre parso grave, fatale, lo squilibrio tra l’incremento rapido degli elementi economici e quello più tardo degli elementi morali e ci è sempre parso che i santi, religiosi o laici che siano, e ci vorrebbero entrambi, dovrebbero invocarsi e apparire oggidì più che mai per impedire la decadenza della civiltà, per mitigare i felini istinti della natura, i quali mutano forme, ma non la intrinseca loro malvagità. Un palpito grande di bontà, meglio di un ragionamento il più accorto, può salvare la vita spirituale del mondo». I lettori sanno che ci troviamo innanzi ad un uomo di stato liberale, ad un pensatore il quale ha ben sostenuta l’eccellenza del vangelo sulla dottrina del buddismo, ma non professa alcuna religione positiva, e nelle sue parole stesse che abbiamo riportato vediamo più che la confessione della verità religiosa delle concessioni che a questa medesima vengono fatte, colla cura evidente che non vadano troppo innanzi e vengano anzi tenute in freno da una certa santità laica, della quale il Luzzatti stesso sarebbe impicciatissimo a darci un’idea concreta. Ma, a parte questo tentativo di equilibrismo fra la verità ed il pregiudizio, che appare più formale che reale, noi vogliamo rallegrarci che l’economista liberale Luigi Luzzatti sia giunto alla stessa conclusione che 15 anni fa il sociologo cattolico Giuseppe Toniolo formulava alla fine del suo libro «sulla soglia del sec. XX» , quando dopo avere esposto e propugnate tutte le rivendicazioni economico-sociali della democrazia cristiana, avvertiva però che, in fondo, la riforma della società non poteva venir fatta che dai santi. Luzzatti, l’israelita, muove anzitutto ai socialisti la stessa obiezione che fanno loro i cattolici. Come pretendete voi di riformare e migliorare il mondo, se trascurate, negate anzi il fondo morale della questione? Volete ricorrere alla violenza contro l’ingiustizia, quando la violenza stessa diventa un’ingiustizia sociale? E più innanzi egli viene a dire: Il progresso economico e civile senza il progresso morale e spirituale non salva dalla barbarie. Nonostante i progressi della tecnica, del commercio, degli ordinamenti civili, noi decadiamo. Il mondo non si può salvare che con una riforma dello spirito, con un miglioramento interiore, con un grande sforzo di virtù, di cui i santi sono i confessori e gli eroi. Ebbene queste verità che il pensatore acattolico fa echeggiare nei suoi periodoni come una rivelazione è per i cristiani dottrina del piccolo catechismo e per la Chiesa la pratica quotidiana. Essa lavora infaticabilmente sul terreno della coscienza, ad infondere nello spirito la scienza del bene e nel cuore l’attaccamento alla virtù. I nostri santi sono i maestri di questa scienza e gli eroi di questa morale. Ecco perché, anche secondo il Luzzatti, gli stessi santi divengono nel medesimo tempo gli antesignani e gli eroi della civiltà. La Chiesa ha insistito su questo vero supremo con particolare attenzione proprio nella nostra epoca, in cui si ripose e si volle riporre troppe speranze di rigenerazione nelle riforme politiche o nei progressi economici. E quando Leone XIII parlò al mondo di questione sociale, di elevazione proletaria, di equità distributiva, di giustizia internazionale, richiamò sempre tutte le riforme invocate al supremo principio morale, da cui scaturirono e per cui solo avrebbero potuto sussistere. Con questo carattere sorse appunto anche il nostro movimento cattolico sociale o sociale cristiano; ed è appunto per questa stessa ragione che le nostre associazioni le quali vogliono lavorare alla riforma sociale non possono essere neutre, non possono cioè trascurare l’elemento religioso, che deve anzi costituire la base di ogni ulteriore attività. Gli è così che la storia contemporanea s’incarica essa stessa di richiamarci a quella purezza e quell’intransigenza di principi direttivi, a quella cura intensa dell’elemento morale che papi e vescovi hanno raccomandato ai cattolici di mantenere nella loro azione pubblica, perché sia davvero opera efficace di restaurazione morale e civile.
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21911-1915
Giovedì si inaugurerà dunque a Regina del bosco nell’Alta Anaunia la prima settimana religioso-sociale del Trentino. I giovani che l’hanno voluta non hanno trovato presso tutti quell’accoglienza che si doveva attendere né hanno suscitato quell’entusiasmo che meriterebbe la bellezza dell’idea. È un’idea nuova, un esperimento non ancora tentato ed in tal riguardo il nostro paese è piuttosto lento e di una certa diffidente indolenza. Tuttavia la settimana si farà, perché l’idealismo giovanile non conosce ostacoli, perché è un tentativo che merita di venire fatto e sarà, lo speriamo con certezza, il primo passo su di una via che bisogna prendere risolutamente. È generale il lagno che la vita spirituale dei nostri giovani, in specie degli studenti, è illanguidita e va man mano isterilendosi. Qual mezzo migliore per ravvivarla che raccoglierli lassù in alto; innanzi ad un panorama di bellezze alpine, ove la voce amica di un apostolo giovanile, come Mons. Pini, riaffacci allo spirito, liberato, l’eterne verità della religione e le leggi supreme della morale? Si dice che i nostri giovani, tolte alcune rare eccezioni, non possiedono una coltura sociale, una coltura cioè che li renda capaci a tutte le attività della vita e, intellettualmente, li renda indipendenti dalle fluttuazioni accidentali od artificiose dell’opinione pubblica. Ebbene, perché non facciamo lo sforzo di elevarci per alcuni giorni al di sopra delle cure quotidiane che ci soffocano e non tentiamo in una breve rivista di guardare almeno in faccia i grandi problemi della vita collettiva, all’urto dei quali saremmo altrimenti esposti per sempre passivamente? Certo in quei pochi giorni di vita libera non si farà della sistematica; ma si faranno dei richiami, si imparerà ad osservare la vita nei suoi legami complessi. P. Chiocchetti parlerà di filosofia, della necessità e del modo di studiarla; due altri nostri amici toccheranno i problemi storici ed economici. Vediamo: quanti luoghi comuni, e opinioni fatte non si assumono dai giornali, non si assorbono dalla superficialità dello scambio accidentale delle cognizioni? Non sentite tratto tratto il bisogno di rendervi indipendenti, di farvi un’opinione vostra, risalendo alle fonti? Ecco una lezione utilissima che potrà avere in coda una discussione interessante. E poi: non sentite voi spesso il bisogno che la nostra coltura sia più materiata di cifre e di osservazioni sperimentali? La nostra vita sociale ed economica è come un treno che corre senza tregua. Noi stiamo nel carrozzone, corriamo anche noi. Proviamo un momento ad uscirne, ad osservare il fenomeno economico dal di fuori. Bisogna tentare, bisogna provare, altrimenti nel consorzio civile, nel nostro paese eserciteremo una funzione semplicemente passiva. Tanto più poi lo dobbiamo fare come cattolici, cioè come quelli che hanno delle credenze e delle convinzioni che sul fatto storico o sul fenomeno economico vengono chiamate a giudizio o a contributo. Vi parrebbe poco il poter discorrere sulla sosta attuale del movimento sociale quali sul fatto storico o sul fenomeno della guerra, che ci rigetta indietro, sulle sue cause e le sue conseguenze sociali e sul valore morale che a tutti questi fatti collettivi va assegnato alla luce delle dottrine della Chiesa? Ebbene, alla settimana lo tenteremo, senza pretese, ma col proposito di collaborare insieme e di educarci a questo genere di osservazioni. Ma quello che sovrattutto dovrà risultare dalla settimana è un affratellamento d’anime e di volontà. L’invito era rivolto a tutte le classi, e avremmo desiderato che in certi circoli la corrispondenza fosse stata maggiore. Poiché il nostro convegno non deve riuscire un pretenzioso cenacolo d’intellettuali, ma un ritrovo di libere energie che vengono dalla vita reale, come si presenta nella sua varietà. Dev’essere un tuffo nell’idealismo per tutti. Con intima e sicura soddisfazione noi prevediamo lo sviluppo futuro che prenderanno nel nostro paese le settimane religiose-sociali; ed oggi, innanzi al primo tentativo, diciamo a quanti possono sostenere questa magnifica iniziativa dei giovani: appoggiatela. Perché è democratica, ha bisogno del vostro concorso finanziario. Anche nel nostro paese, generalmente, l’idealismo è povero. E ai giovani volenterosi ripetiamo: chi di voi vuole essere fra i pionieri delle nostre settimane sociali, chi vuol partecipare al primo gruppo di semainiers?
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21911-1915
[...] Egli dimostrò come, per quanto incerto possa parere, ad un’esegesi superficiale il pensiero del Vangelo su questo proposito e per quanto siano pochi, pure tra i sommi cultori del giure e della dottrina cattolica quelli che esplicitamente e di proposito si occuparono di questo problema pure in tutti i tempi e nella pratica e nell’insegnamento la dottrina più sicura della Chiesa da S. Agostino a S. Tommaso al Victoria e al Suarez, tenne sempre l’aurea via di mezzo tra la concezione ultra conservatrice del De Maistre che, accostandosi ai moderni imperialisti e guerrafondai vedeva nella guerra un che di divino e fatale e la concezione anarchica del Tolstoi, che vedeva nel Vangelo la condanna di ogni guerra, anche la più giusta e la più santa, e che riallacciandosi, potremmo dire, ai montanisti, formulava il suo principio anarchico e nichilistico. La Chiesa certo non invoca la guerra e nelle litanie prega a peste, fame et bello libera nos domine. E i cattolici, con la moderna scuola francese, che fa capo a Vanderpol (alla quale dobbiamo ormai alcune pubblicazioni e l’idea d’una scuola superiore per lo studio del diritto internazionale dal punto di vista cristiano), tenendosi lontani così dal pacifismo esagerato (il pacifismo per il pacifismo) come, e più, dal militarismo guerrafondaio, si propongono di penetrare del loro spirito e della loro nobilissima tradizione (che va dall’istruzione dei fratelli pacieri, alla tregua di Dio, al terz’ordine francescano, all’arbitrato dei Papi ecc.) tutto il movimento pacifista contemporaneo avviando l’umanità se non all’eliminazione totale della guerra e degli armamenti (forse utopie) alla loro limitazione progressiva a quelle guerre soltanto che possono trovare la propria giustificazione nella tutela del diritto e delle ragioni morali, applicando pure a queste guerre, nella misura più larga possibile, i principi della carità e della giustizia. Non è a dimenticarsi come i deliberati sul diritto della guerra della conferenza dell’Aia per la pace si ispirino alla dottrina cattolica quale la troviamo formulata già nell’opera dei teologi del principio dell’Evo Moderno, quali il De Victoria e il Suarez.
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21911-1915
Democrazia di democratici patentati – La gioia che uccide – Gli effetti dello stravincere – Marx al bivio – La pancia per i fichi – Il fiasco. La Pitonessa di Berlino... e quella di Zwolle – Più in alto s’arrampica la scimmia... L’Aia, 19 Parecchie volte il Trentino s’è occupato recentemente degli avvenimenti politici del non grande regno di Guglielmina. Gliene offrirono occasione le recenti elezioni parlamentari che, grazie alle discordie sorte fra i partiti di destra, portarono al potere o – per essere più esatti – spostarono la maggioranza che toccò ai liberali e ai socialisti, uniti in blocco. Da telegrammi vostri è noto ai lettori del Trentino che la campagna elettorale si svolse sulla piattaforma della tariffa daziaria. Il partito conservatore aveva elaborato un progetto di legge che assicurasse dal provento della tariffa daziaria un importo tale che bastasse a garantire la pensione ai vecchi e ai disoccupati. La politica protezionista e daziaria dei conservatori aveva certo uno scopo eminentemente democratico. Il progetto non piacque al blocco rosso-azzurro, ai socialisti e ai liberali alleati, che seppero colorire lo spettro dei nuovi pesi con tinte così fosche, da indurre – e si capisce – molti borghesi a votare per i genuini (?) e patentati rappresentanti del proletariato. E vinse il blocco di sinistra e la sua vittoria fu più grande di quanto pareva sul momento. I liberali, che anche qui benché affratellati ai socialisti rappresentano il grande capitale, erano fuor di sé per la gioia della vittoria e di sapersi ritornati al potere. Vi fu però una circostanza di fatto che improvvisamente, qual nuvolone di tempesta, fece la sua comparsa e turbò i sogni dorati dei vincitori. Vi è noto che i socialisti, che nella passata legislatura possedevano 7 mandati, hanno ora, più che raddoppiato il numero possedendo ben 18 seggi in Parlamento. Il risultato finale delle elezioni dava 45 mandati ai conservatori e 55 al blocco libero-socialista; nel blocco però i 18 socialisti formavano un gruppo compatto ed eterogeneo. Terminate le elezioni bisogna pensare al nuovo governo e, giusta le norme della politica in stato costituzionale, il governo spetta al blocco rossoazzurro. Si vagliò quindi la questione se i deputati rappresentanti l’idea rivoluzionaria, antiborghese ed antidinastica dovessero in giubba o redingote, poco importa, ascendere le scale di palazzo reale e presentarsi a prendere gli ordini di S.M. la regina Guglielmina. La questione – che diremo elegante, dopochè Bissolati l’ha ridotta ad una semplice questione di... moda – venne discussa in Italia, ma specialmente nel Belgio, ove Vandervelde sentenziò essere egli disposto per parte sua ad accettare un portafoglio nel caso che il blocco anticlericale avesse riportato vittoria sui cattolici . Tant’è vero che il barbuto e barbogio Marx è in soffitta! E venne la volta di sbottonarsi anche per i socialisti olandesi. La giovane regina Guglielmina incaricò il dott. Bos di costituire un gabinetto al quale, visto l’esito delle elezioni, partecipassero tutti i settori di sinistra. Il Bos corse tosto dai socialisti con l’offerta di tre portafogli. Ma i socialisti rifiutarono. C’è da salvar la pancia per i fichi e i capoccia compresero troppo bene che addossatasi una volta la responsabilità del governo, accettando la direzione di tre ministeri, avrebbero dovuto fare della politica seria e fare politica seria avrebbe voluto dire rimangiarsi tutte le promesse fatte alle masse socialiste prima e durante le elezioni. Tant’è vero che i demagoghi socialisti possono essere creduti sulla parola quando arringano le masse sia in piazza che in... redazione. Dopo il gran rifiuto il Bos tentò ogni mezzo per comporre un gabinetto liberale, non riuscendovi piantò in asso l’Olanda e la sua regina e si recò all’estero per rimettersi dagli strapazzi delle elezioni. Prima di partire ebbe cura che tutto il suo carteggio col Troelstra , il capo dei socialisti, venisse dato alle stampe, onde compromettere i compagni ed indurli così ad accettare la parte di responsabilità di governo che aveva loro addossato l’esito delle elezioni. Guglielmina, visto che il Bos era incapace di assolvere il mandato affidatogli, chiamò un altro liberale Eost Van der Linden, coll’incarico di comporre un gabinetto non più parlamentare, ma di impiegati, prendendoli da tutti i partiti. La vittoria della democrazia anticlericale olandese non poteva finire in uno smacco più umiliante. Il Troelstra, allo scopo di salvare il prestigio ormai compromesso del blocco, corse a Berlino a consigliarsi col Kautsky , il depositario del Corano rosso. E l’oracolo rispose essere necessario interrogare il proletariato che avrebbe sciolto la questione se o meno in base alle teorie socialiste, i compagni avessero potuto indossare il palamidone di ministri. E il proletariato si radunò a congresso a Zwolle e decise... che la pera non è ancora matura ed essere necessario che i deputati socialisti si tengano lontani da certa paglia... borghese perché il pericolo di fuoco è in mora e potrebbero andare in fumo le promesse del sol dell’avvenir e ciò che più importa, i voti delle masse. Sul popolo tutta questa commedia fa l’effetto d’una farsa in cui la democrazia libero-socialista fa la parte dei burattini. E se il popolo li ritiene per tali non sappiamo proprio dargli torto. E la reazione, giusta, giustificata e meritata, non tarda a manifestarsi. Ierl’altro i cattolici riportarono buoni risultati in due distretti. Significantissima la vittoria dei cattolici a Rotterdam, che fu sinora la rocca dei liberali e dei socialisti. Anche la democrazia anticlericale olandese si è mostrata per quello che è ed una volta ancora ha confermato quel sapientissimo detto popolare, basato sulla realtà... naturale, che più in alto va la scimmia e più mostra la coda. Permettete che termini con una notizia che non riuscirà priva di interesse per i trentini, che ebbero ospite l’anno scorso il Cardinale Van Rossum in qualità di Legato pontificio. L’eminentissimo porporato visitò di questi giorni l’Olanda ed ebbe accoglienze festosissime. La regina stessa si recò all’Aja per accogliere con tutta pompa il Cardinale. A Rotterdam il borgomastro, benché protestante, mise a disposizione di S. Eminenza un battello a vapore per visitare il porto. In Amsterdam le op. catt. fecero un’importante fiaccolata in onore del Cardinale, a cui parteciparono parecchie migliaia di persone.
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21911-1915
Carano, 24 Per le 2.30 era convocata un’adunanza popolare nell’albergo ai Bagni. Intervennero buon numero dei censiti presenti in paese e l’avv. Rizzoli di Cavalese con pochi suoi amici. Fra gli intervenuti noto il capocomune, il parroco del luogo e mons. Mich, nostro compaesano. Il D.r Degasperi s’introduce ricordando le dichiarazioni programmatiche fatte da lui durante la campagna elettorale del 1911 e dimostrando che la sua azione posteriore riguardo alla ferrovia si attenne logicamente al suo programma. Con un’esposizione serrata e convincente dimostrò poi che la proposta, sostenuta oggi dai deputati popolari, è la conseguenza necessaria derivata dai tre fattori chiamati a decidere le sorti della ferrovia, cioè del volere e dei bisogni di Fiemme, della posizione assunta dallo stato che deve dare in maggior parte i danari e della condizione creatasi col concorso di tutta la deputazione trentina alla Dieta. Circa il primo fattore, ricorda l’azione del comitato tramviario di Fiemme, nel quale era rappresentato anche Cavalese, l’opera del consesso della comunità, le manifestazioni pubbliche della popolazione, le deliberazioni della Comunità e della maggioranza dei comuni ed il costituirsi in Fiemme di una grande maggioranza pro ferrovia, nella quale si sono fusi diversi paesi e diverse tendenze politiche, compresa quella del partito liberale-nazionale. Circa la posizione dello stato accenna alle trattative fatte dal dicembre 1911 per una graduale attuazione del compromesso di Bolzano , alle insistenze per l’avisiana o almeno per la Lavis-Grumes, fino alle recise dichiarazioni ministeriali per l’attuale proposta Egna-Predazzo (Moena) e Lavis-Cembra. Enumera in fine le trattative dietali e l’ultima proposta Pinalli per la Lavis-Cembra, concludendo che da questi tre fattori nessuno sforzo valse a ricavare una proposta che s’avvicinasse di più della presente all’ideale ch’era il compromesso del 1909. Accennò poi rapidamente agli improvvisi voltafaccia, sopravvenuti nell’ultima fase ed al radicalismo che dopo le fallite trattative per la Lavis-Grumes riprese vigore sfogandosi in attacchi violenti, in accuse di tradimento ed in ingiurie contro i deputati popolari. L’oratore rileva qui che, quantunque avesse potuto come tanti altri lavarsi le mani della vertenza, approfittando della confusione creata ad arte in Fiemme e salvarsi così da tutte le ire sollevatesi contro di lui, ha preferito attenersi logicamente e serenamente alla voce della sua coscienza, all’imperioso dovere di rappresentare gli interessi che gli elettori gli avevano affidato. La tattica stessa del resto dei dissenzienti e degli avversari che, malgrado le proclamazioni, si addimostrò semplicemente negativa, conferma la bontà della sua condotta. L’osservazione sempre più attenta della vita di Fiemme gli conferma sempre più che la ferrovia di Egna non porta al carattere nazionale della valle alcun pericolo, ch’essa rappresenterà anzi un progresso sulle condizioni presenti, convinzione questa condivisa anche da molti liberali nazionali della valle e fuori. Riguardo alla parte finanziaria ricorda ch’egli già nella seduta del consesso nel luglio 1912 ha dichiarato di non essere compito dei rappresentanti politici di assumere responsabilità di sorta. Il preventivo venne fatto e riveduto dai rappresentanti del ministero e ad essi spetta ogni responsabilità. Certo ch’esso sarà più attendibile di quello delle altre ferrovie trentine costruite, poiché dell’esperienze fatte in queste si è approfittato nel calcolare il costo della ferrovia di Fiemme e di Cembra. Quello che va assolutamente escluso è che la Comunità sia tenuta a contribuire al pagamento di eventuali sorpassi. Anche riguardo al contributo della Comunità ed al conguaglio dei singoli comuni per questo contributo, il deputato si è tenuto estraneo, favorendo solamente, com’era suo dovere, il piano di venire a trattative che tendevano ad un accordo fra i comuni, le quali però vennero condotte senza la sua collaborazione. Termina il suo discorso, ascoltato con grande attenzione, dichiarando che fino a tanto che i suoi elettori gli continueranno il mandato, lo eserciterà, seguendo i criteri che lo hanno inspirato fino ad oggi. A questo punto l’avv. Rizzoli domanda se, quantunque di Cavalese, possa avere la parola. L’on. Degasperi gliela concede, pregandolo però d’essere breve, perché alle 4.30 ha indetto un comizio a Moena e sono già le 3.15. L’avv. Rizzoli si rivolge ai presenti dicendo che l’oratore ha svolto i suoi criteri politico-nazionali, ma che è sorvolato su quello che più importa a noi fiemmazzi, cioè alla questione finanziaria. Il contributo domandato alla valle di Fiemme è troppo forte. Perché nella valle di Cembra i comuni pagano solo 120.000 corone su 4 milioni di spesa preventivata, mentre Fiemme deve pagare quasi 2 milioni su 9 milioni e 300.000? Vedano i deputati di far usare una misura più equa di giustizia. Riguardo ai sorpassi, il deputato se ne è lavato le mani, ma intanto la Comunità una volta ingaggiatasi con un dato percento nell’impresa ferroviaria, dovrà pagare anche i sorpassi eventuali in concorrenza e così forse il contributo dei fiemmazzi potrà arrivare a 4 o 5 milioni. Come si farà a caricarsi di tali debiti, quando il bilancio della Comunità non è punto florido? E tutti questi sacrifici si dovranno fare per alcuni osti e per il comodo dei turisti che passano attraverso la valle per recarsi agli alberghi di montagna! Calcola che cosa dovrà venire a pagare il comune di Carano, dice che Cavalese, se la cosa andrà come vuole la maggioranza dei comuni, verrà a pagare circa 330.000 cor. In quanto al conguaglio degli altri comuni è vero che Predazzo promette delle rifusioni a destra e a sinistra, ma Predazzo, che è il comune più in miseria della valle, in realtà se ne rifà aumentando le addizionali che andranno a cadere sui censiti di tutta Fiemme. L’avv. Rizzoli dichiara quindi di non poter approvare il contegno del deputato e d’invitarlo invece a studiare un’altra proposta, che sia meno gravosa per Fiemme. L’on. Degasperi risponde assai felicemente, interrotto spesso da applausi. Altamente si meraviglia che l’avv. Rizzoli chiami in confronto il piccolo contributo richiesto ai poveri comuni di Cembra. Se lo facesse un censito di Moena e pretendesse che i danari destinati alla Lavis-Cembra venissero invece dedicati alla Predazzo-Moena, nessuna meraviglia! Ma che faccia tali confronti un antesignano del partito liberale nazionale, un parteggiante per la ferrovia di Cembra, muovendo quasi un rimprovero ai deputati di avere strappato al governo 4 milioni per un tronco dell’avisiana, questo gli sembra inconcepibile. È dunque vero che certi avversari per combatterci ricorrono ad argomenti contraddittori secondo gli uditori che li ascoltano: che a Trento gli amici dell’avv. Rizzoli ci chiamino traditori perché non abbiamo saputo ottenere l’avisiana fino a Grumes, cioè un tronco dell’avisiana per 6 milioni, che in Fiemme invece ci accusano d’aver favorito Cembra con 4 milioni, a spalle dei fiammazzi! Che dire poi del concetto che mostra oggi avere l’avv. Rizzoli d’una congiunzione ferroviaria? È strano che un rappresentante della coltura e del progresso dipinga ai contadini una ferrovia, come se si trattasse precipuamente di quattro osti e dei turisti. I forestieri passano anche oggi in automobile, ma la ferrovia deve servire anzitutto ai fiammazzi, alla loro importazione ed alla loro esportazione. Ma non fu proprio il D.r Rizzoli che parlò sempre del necessario progresso d’una ferrovia, e che eccitò la comunità a votare un milione e mezzo in azioni di fondazione per la ferrovia del compromesso? Forse che allora si poteva sperare in una rendibilità! In quanto ai possibili sorpassi, non è vero che la Comunità sarà chiamata a pagarli in concorrenza. La Comunità dà alla ferrovia non un percento della spesa, ma l’importo fisso di un milione in azioni di fondazione e 800.000 di priorità. Ma com’è del resto che tutto codesto pessimismo pervadeva l’avv. Rizzoli proprio in questo caso negli archivi della Comunità stanno parecchi progetti di finanziazione ma più pericolosi, o almeno altrettanto gravosi al suo patrimonio, incominciando dal conchiuso di finanziare e costruire da soli la Molina-Moena o la S. Lugano-Moena e terminando alle proposte del 1909. La proporzione dei pesi che vengono a gravare sui singoli quartieri e sui singoli comuni è cosa che riguarda i rappresentanti amministrativi e comunali di Fiemme, non il deputato politico della valle. Se Cavalese dovrà, come dice il D.r Rizzoli pagare troppo e non in proporzione, saranno responsabili quei rappresentanti di Cavalese che non hanno voluto sapercene di trattare con gli altri comuni, e nessun altro. Come poteva il deputato al Parlamento sapere che in Fiemme sorgerebbe a proposito del contributo ferroviario la questione della ripartizione di esso fra i comuni che sono rappresentati nel consesso. Nessuno, ch’egli sappia, ne parlò mai quando si trattò di altre finanziazioni ferroviarie, né quando si votò il milione e mezzo per il compromesso e nessuno gliene scrisse fino alla votazione dell’anno scorso. La questione scoppiò dopo, come altra volta scoppiò la questione vicinale, come sempre perché si ricorra a complicare col problema della comunità la questione tramviaria. Ma è ora una volta che anche in Fiemme le questioni pubbliche si trattino con maggiore sincerità e le si affrontino a visiera alzata ed alla luce del sole. L’oratore termina fra grandi applausi, scusandosi di dover chiudere, per recarsi a Moena. Il maestro dirigente Ciresa propone alla votazione un ordine del giorno nel quale Si proclama il volere di Fiemme di avere... prima attuata la ferrovia, si plaude ai rappresentanti del consesso... comuni che hanno votato in favore, si fa appello alla deputazione, perché promuova la definizione della vertenza, si fa un caldo ringraziamento all’on. Degasperi ed ai deputati della valle e fuori che lavorarono per la ferrovia di Fiemme e si riconferma loro la più ampia fiducia. La risoluzione è votata fra segni di approvazione e la gente esce commentando vivamente. L’impressione nel paese, non avvezzo ai contraddittori, è grande e del tutto favorevole al nostro deputato.
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Entrando in Olanda da Nijmegen, quando il sole si volge al tramonto, pare che tutto sia disposto per infondere nell’animo sensi di pace e d’abbandono. I castelli del Reno, le cattedrali, le torri, i Belfried, i Rathaus sono scomparsi da un pezzo dietro le vostre spalle, e voi penetrate in un paese nuovo, che è una pianura immensa e silenziosa, una distesa di praterie pallidamente verdi, tagliata da canali grandi e piccoli, interrotta talvolta da laghi che paiono fiumi e da fiumi vasti come laghi. Sui prati qua e là dei gruppi d’ontani o di pioppi, più spesso armenti di vacche bianco-nere senza pastore ed in fondo a sinistra, a destra, da tutte le parti del basso orizzonte mulini a vento che girano le grand’ali come spettri crepuscolari. Eccovi finalmente un gruppo di case, ma anche qui nessuna linea che s’elevi arditamente, nessun rialzo che turbi l’idilliaca uniformità del paesaggio. Sono piccoli gusci, tutti coloriti di verde o di rosso, con tendine bianche e tulipani variopinti alle finestre. Si capisce che sono fatte per crogiolarsi dentro e che il costruttore non ha pensato all’aspetto che avranno per chi sta fuori ma unicamente al riposo, alla quiete intima di cui dentro circonderanno la famigliuola. E case e stagni e pioppi e canali e praterie e mulini, tutto è come dolcemente immerso in una bruma leggera che decompone tutti i colori, assorbe tutte le tinte, attutisce ogni rumore. Ecco un paese fatto apposta per un congresso pacifista, ecco un paesaggio in mezzo al quale si sente l’abbandono di tutte le cose violente e si prova il distacco nel cuore e nella fantasia da tutta la nostra storia piena di armi, di torri e di bellici oricalchi. Passiamo così sulle vaste affluenze della Mosa, del Waal e della Schelda e ci sembrano le acque pallide e lente di Lete, al di là delle quali quasi ci abbandoneremo ad un oblio profondo e pacificatore. Assaporando così per più ore la voluttà di questo sogno, si è quasi meravigliati, quando scendendo all’Aia, s’incontrano degli uomini, che gestiscono e gridano come un qualsiasi europeo. Addentrandosi per le vie della città di Guglielmina si rimane anzi attoniti di un contrasto che non poteva essere maggiore. Dopo un viaggio nel chiaroscuro rembrandesco, si piomba in una città sfolgorante di luce, dopo la pallida uniformità della campagna olandese si gode uno spettacolo di colori vivissimo, dopo il silenzio del pastorale ci troviamo in un mezzo ad un cancan carnevalesco. La città è in festa per il grande centenario dell’indipendenza e per le vie dell’Aia si celebra il Kirmess fiammingo. Le case sono tutte tappezzate così di colori nazionali e letteralmente tappezzate d’arancio. Ad ogni finestra una bandiera rossa, azzurra, arancio, ogni davanzale, ogni stipite è coperto del colore della casa d’Oranje, da ogni finestra si tira all’altra di fronte una corda che porta centinaia di bandierine e lascia pendere un centinaio di palloncini di carta arancio, cosicché non si vede di che materia siano costruite le case e al di sopra non si scorge quale aspetto possa avere il cielo. E sotto queste pergole improvvisate, dentro queste gallerie di stoffa multicolore e di lumi a migliaia, circola, si pigia, si agita, barcolla e danza follemente il buon popolo olandese. Ma che popolo strano è codesto! Non ho mai immaginato una maniera simile di festeggiare un centenario nazionale. Pochi discorsi, pochissima rettorica, nessuna commemorazione, non una tuba, non un palamidone, né lapidi, né frasi fatte, né monumenti. La gente s’abbandona all’allegria spensieratamente, in un disordine spontaneo e tumultuoso. Intiere famiglie, vecchi e giovani, ragazze, giovinotti e fanciulli, civili e militari intonano l’inno di Guglielmo d’Orange, poi si danno la mano, formano un circolo flessibile ed in continua trasformazione, e cantando a perdifiato l’inno, ballandolo come un cancan, appassionandosi sempre più nel canto e nel ritmico agitare delle gambe, terminando in una ridda vorticosa finiscono col rompersi addosso ad un altro cerchio, a confondersi con un’altra ridda, a riprendere musica e ballo ad una nuova ondata della folla, che pare tutto un mare in burrasca, che invade e s’ondeggia in tutte le vie. Ho visto dei soldati ballare la ridda colla folla borghese, sguainare le sciabole, agitarle sopra le teste, come in un’operetta viennese, dopo aver scambiato con i giovanotti le tuniche e i kepì col cappello di paglia delle signorine. Vi corrono subito alla mente certe pagine del Taine in cui si descrive la fraternité della guardia civica nelle giornate della rivoluzione. Ma il ricordo non è a posto, perché qui non si vedono né ceffi rivoluzionari, né virago incendiarie. Sono sempre le facce olandesi, pacificamente contente, la ridda non diventa tumulto, ma continua in una certa infantilità che la distingue dalla baldoria, trascinando tutti nei suoi vortici, tutti, cittadini e stranieri, ed anche le scarse guardie che, in mezzo alla tregenda generale, smettono anch’esse di far da piantone all’ordine pubblico. Finché la fiumana pare si riversi e venga a morire nel centro tetro e tragico dell’Aia, il Binnenhof. Sorge qui il Riddersaal, grande fabbricato nero, un po’ teatro e un po’ chiesa. E qui dentro convenne la celebre conferenza internazionale per la pace, e qui si tiene anche il congresso della union interparlamentaire. Avviene spesso che l’Unione si confonda colle conferenze ufficiali per la pace, nelle quali deliberano i plenipotenziari degli stati ad esse aderenti o più spesso ancora coi congressi pacifisti e che su quasi tutto si riversi il dileggio di un’ironia purtroppo molto facile. Ma l’Unione interparlamentare è piuttosto un anello intermedio fra le prime ed i secondi. Le conferenze dell’Aia codificano lo sviluppo del diritto internazionale e concludono delle convenzioni formali, i congressi pacifisti agitano l’idea, spesso tumultuariamente, impicciandosi ancora di rettorica internazionalista e smarrendosi talvolta per i sentieri pericolosi dell’utopia rivoluzionaria. L’Unione interparlamentare invece, composta di uomini che nei loro parlamenti condividono più o meno la responsabilità della loro politica estera, ha in questa sua stessa costituzione il freno della realtà, che le impedisce di abbandonarsi alla rettorica infeconda. Ma d’altro canto, perché vi lavorano uomini che vogliono arrivare all’ideale pacifista, uscendo dalle difficoltà che non misconoscono, diventa un organismo di studio ed un fattore propulsivo del diritto internazionale. Un primo sguardo all’assemblea magnifica del Riddersaal vi dice che qui si lavora sul terreno della realtà presente. Alla presidenza siedono fra altri Ferid Pascià e M. Costantinesco. I due nomi dei rappresentanti degli Stati balcanici ricordano e significano molte cose. Qualcuno vi legge l’ironia dei destini umani? Può essere, ma con ciò non è detto nulla. Va rilevato invece che l’unione interparlamentare non s’occupa del passato per giudicarlo o trarne capi d’accusa, ma per ricavarne ammaestramenti. Ne tiene conto per preparare l’avvenire. È quasi una confessione solenne dell’equivoco fatale in cui ci muoviamo, di desiderare la pace e di dover talvolta volere la guerra, ma è contemporaneamente la confessione di un male, che potrà esser stato più forte della nostra volontà, ma cui bisogna rimediare. I deputati si dicono: Poiché la pace non si potrà ottenere che con un arbitrato, che con accordi giuridici e col presidio del diritto, cerchiamo assieme il modo di non combatterci, pur rimanendo liberi frattanto di badare ciascuno ai casi nostri, come par meglio nel momento attuale. Un focoso senatore belga, il La Fontaine in una vivace discussione sull’ordine del giorno ha chiamato quest’equivoco un’ipocrisia, ma l’assemblea nella sua enorme maggioranza non gli diede ragione. Domani magari i membri dell’Unione si crederanno costretti di votare nel loro parlamento delle spese militari. Rinunziano per questo all’ideale dell’arbitrato? No, constatano semplicemente che l’ideale non è ancora sulla via del raggiungimento e che per intanto ognuno deve difendersi come può. Vi si rassegnano, come ad una cura locale dolorosa, ma studiano intanto la medicina che deve curare l’organismo intiero. È questo il compito a cui tende l’Unione e perciò studia il modo di evitare i conflitti, di diminuirli o d’alleviarli. Così il recente congresso discusse e votò risoluzioni sul regime degli stretti, sui doveri degli stati neutrali, sui presidi che vanno richiesti per certi stati che sono già in condizione di neutralità permanente. Su questo terreno i congressi dell’unione hanno preparato già del materiale utilissimo per le conferenze internazionali dell’Aia. Si cerca ancora di studiare tutti i mezzi che possono rendere più facili gli scambi fra le nazioni. Infatti anche nel congresso di quest’anno una delle risoluzioni riguardava l’introduzione di un bollo da lettera internazionale. I relatori sono uomini eminenti del parlamentarismo e della diplomazia, e accanto e sopra di loro vigila un consiglio presieduto da lord Weardale , che presenta ai singoli governi le conclusioni raggiunte. Chi potrebbe negare a questo lavoro un’efficacia per l’avvenire? Certo, le difficoltà sono ancora enormi. Bisogna creare una vera rivoluzione di idee, perché le convenzioni abbiano valore, ma non è lo scopo prefisso così magnifico da meritare sforzi di lunghi anni? Conviene sopratutto che quest’opera venga accolta senza pregiudizi e non vi si oppongano timori che non hanno ragione di essere. C’è chi teme per esempio, che n’esca infiacchito il sentimento nazionale, che i popoli vi perdano quell’individualità che ci è costata sacrifizi di lavoro e di sangue. Nulla di più infondato. L’olandese Tydeman, presidente del congresso di quest’anno ha affermato solennemente nel suo discorso inaugurale che l’Unione interparlamentare nutre la convinzione che «tout internationalisme bien entendu doit reposer sur l’indépendance et la prosperité des nations: la condition essentielle dont depend, la société mondiale, c’est la solidité de nationalités elles-mêmes». Ed invero non è significativo che i paesi i quali partecipano con maggior entusiasmo al movimento pacifista internazionale, come l’Olanda, il Belgio, la Svizzera, i piccoli Stati nordici sono contemporaneamente gli Stati più gelosi della loro indipendenza? L’Olanda ha chiuso le feste del suo centenario con un corteo storico che percorse le vie dell’Aia, piene di popolo. Passarono i primi conti d’Olanda e di Nassau, le magnifiche cavalcate dei principi vassalli, le carrozze di Carlo V e Filippo II, gli eroi della guerra contro gli spagnuoli con cotte d’armi scintillanti, e si vedevano muoversi le figure della «ronda di notte» del Rembrandt e i capitani del van der Helst nel «banchetto dei bersaglieri» e poi gli Stattholderi che governarono fino alla rivoluzione e poi Napoleone coi suoi battaglioni gloriosi e con Luigi Bonaparte, il primo re. Ma la folla assisteva quasi apatica. Finché comparvero il primo re nazionale Guglielmo I, salito al trono dopo il congresso di Vienna, e allora in tutto quel popolo passò come un’onda d’entusiasmo, e quasi non si trattasse d’una visione storica, ma della realtà presente, la folla scoppiò nel grido di Viva l’Olanda, viva l’indipendenza! d.
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[...] Gli amici della direzione dell’associazione universitaria hanno voluto che vi rivolgesse la parola anche chi, essendo alla testa del quotidiano del partito, si trova tutti i giorni in mezzo alle tristi lotte della nostra vita politica e come tale deve parlarvi da un posto di combattimento. Parrebbe così che la sua voce debba risuonare aspra ed affaticata dalle polemiche e schermaglie, cui spesso gli avversari lo costringono quasi quindi in contrasto colla serenità e colla superiorità di un’adunanza di giovani che guardano all’avvenire. Ma avviene invece che appunto chi prova l’assillo del dibattito quotidiano senta più che altri una viva nostalgia di tempi migliori e provi più intimo il bisogno di dirvi: Voi che siete giovani, che non siete ancora travolti dal vortice di una vita pubblica, in cui per disgrazia del nostro paese tutto diventa oggetto di rabbiosa competizione politica e spesso il contrasto politico a sua volta viene trasformato in litigio personale, voi, dico, non disperdete le vostre energie nelle scaramucce della politica d’attualità troppo spesso infeconda, ma fate uno sforzo per uscire da questo ambiente che soffoca e levatevi su al di sopra di codesta atmosfera grigia, avvelenata così di sovente dalla malafede e dall’odio partigiano (applausi); badate agli ideali, ai principi, guardate all’avvenire! I giovani accademici si dividono spesso in due schiere. L’una è dei pochi che si fanno della vita una concezione puramente estetica e del culto della forma un’idolatria. Per loro nelle manifestazioni umane non esiste che il criterio della bellezza. Girano così pel mondo novelli peripatetici d’un egoismo pagano. Quando incontro uno di questi, penso a quelle categorie di belle statue degli dei antichi che si ammirano nei musei vaticani. Questi dei apostrofa il poeta, quando scrive: Sotto la piana e tranquilla fronte di marmo, immota è la vostra pupilla. Avete visto una madre salire il Golgota, e il figlio precederla sotto la croce tutto di sangue vermiglio? E così va ripetuto ai giovani ch’io loro rassomiglio. Non vi siete accorti voi ch’è venuto al mondo il Cristo che ha predicato la fratellanza ed ha imposto il dovere sociale? Ma non sarà questo il pericolo maggiore in cui i soci dell’universitaria, quasi tutti venuti dalle classi popolari, incorrano facilmente. C’è però una seconda schiera di giovani, più numerosa, più comune ed è quella di coloro, i quali esauriscono le loro energie giovanili in una continua verbale e verbosa reazione alle nostre condizioni politiche, che si gettano a capofitto nella politica del giorno, giudicando e sentenziando subito secondo le norme fisse di un dommatismo radicale, esaltando o crocifiggendo e classificando dal solo punto di vista d’un preconcetto fisso. Nemmeno a questa schiera, o studenti cattolici, dovete appartenere, affinché anche non v’accada poi, nella pratica della vita, quello ch’avviene spesso a quelli, di finire cioè in un opportunismo tanto più avvilente, quanto è maggiore il contrasto col verbalismo degli anni giovanili. No, il vostro compito è più grande, più faticoso, come il geologo che prepara la risurrezione della miniera. Anzi tutto studiare! Lasciate che la dica forte questa parola che da tanti convegni studenteschi fu pure bandita. Studiare! Senza una soda preparazione scientifica voi presumerete invano di fare qualche cosa di grande per voi e per il vostro paese. Il Trentino non diventerà un paese migliore, non farà un progresso notevole, fino a tanto che non avremo alcuni uomini superiori, fino che non ci saranno dei legali, dei filosofi, degli ingegneri, dei finanzieri che s’eleveranno sopra la media, di cui le tristi condizioni della nostra vita intellettuale ed un’indolenza colpevole ci hanno abituato a chiamarci soddisfatti. (Applausi). Bisogna che ciascuno di voi tenti questo sforzo, si proponga questa meta! E poi a tale vostro studio particolare aggiungetene uno più generale. Studiate il vostro paese, come studiereste una carta geologica, studiatelo nei suoi strati sociali nella sua conformazione storica, nella sua costituzione interiore. A questo punto è giunto il momento in cui conviene mettere mano all’opera e fare quello che per la miniera compie la perforatrice. Nel fondo del nostro popolo giacciono tesori antichi di unità di fede, di santità di tradizioni, di bontà di costumi, di tenacia, di lavoro. Questi tesori conviene mettere in valore. Bisogna penetrare sotto la corteccia della manifestazione quotidiana, allontanare le sovrapposizioni accidentali e giungere ai tesori d’energia potenziale e viva che giacciono in fondo al cuore del popolo trentino. Discopertili, lavoriamoci attorno con gli strumenti della tecnica moderna, con i sussidi della scienza progredita, fino che avremo quel popolo che sta in cima ai nostri ideali, quel popolo ravvivato della sua fede, rinsaldato nella sua coscienza nazionale, socialmente riorganizzato, ritto in piedi innanzi agli irrisori ed ai potenti come noi lo abbiamo nella mente, quando auspichiamo alla democrazia cristiana trentina (grandi applausi). Io vi veggo, o giovani, – conclude l’oratore – circondati oggi da tanto assenso di popolo che nessun miglior augurio posso farvi di quello che nella vostra vita sia sempre come oggi e che, combattendo e lavorando, possiate vedere sempre la vostra opera accompagnata da tanto plauso e da così cordiale partecipazione. Ma non illudetevi, non sarà sempre così. Vi sono nella vita sociale dei momenti in cui pare – e forse non è – di essere soli. Soli in mezzo alla bufera avversaria, soli in mezzo ad incertezze affaticanti, e sembra di non aver accanto nessun braccio che sorregga, di non sentire alcuna parola che conforti e consigli. In questi momenti vi trovate soli innanzi a Dio ed alla vostra coscienza. È per questi momenti decisivi che l’associazione cattolica v’eccita a preparare fin d’oggi le vostre riserve di energia religiosa. Se per quei momenti vi sarete armati da lunga mano della fortezza di un cristiano carattere o della rettitudine d’una coscienza intemerata, allora procedete pure tranquilli per la vostra via, per quanto deserta vi possa sembrare la solitudine che vi circonda e per quanto accanita l’opposizione che vi sta innanzi. Anche a voi allora il poeta, il nostro Gazzoletti vi dice: Passa in silenzio, o navicella ardita: Mira al Cristo, a lui tendi, in lui confida; Egli è la via, la verità, la vita! (Applausi vivissimi) .
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Se visitate il Palazzo della Pace all’Aia con la mente imbevuta di quell’umanitarismo superficiale che è per troppi la base del pacifismo moderno, sosterete a contemplare i doni ricchissimi, di cui tutte le nazioni hanno voluto adornare il monumentale scalone, la sala «des pas perdus» e quella del tribunale arbitrale; le meravigliose finestre colorate dell’Inghilterra, i pannelli del francese Besnard e i gobelins del Giappone, i marmi d’Italia, i vasi della Cina, i candelabri dell’Austria, le porcellane dell’Ungheria, il diaspro della Russia, i tappeti della Turchia; e tutto questo meraviglioso concorso del lavoro internazionale vi chiamerà sul labbro parole di ammirazione e d’augurio per la solidarietà del genere umano che auspicate come una creazione delle energie buone le quali, attraverso mille vicende, finiranno col prevalere. Ma se, come dice il nostro Foscolo, avete la mente addestrata alle istorie e nel fondo dell’anima avete più vivo e più vero il senso della realtà sociale, vi parrà tuttavia che questo immenso palazzo dovuto alla munificenza di un miliardario , straricchito nell’industria americana, e, pieno dei doni votivi di tutti gli stati civili, sia vuoto e quasi funebre. Manca la vita e non è valsa ad infondervela la splendida piantagione di rosai che la società olandese «nos jungunt rosae» ha diffuso dappertutto con una meraviglia di profumo e di colori. Così m’ero indotto anch’io a concludere, dopo la visita al piano inferiore, che è il più ricco ed importante, quando salendo al secondo, ad una svolta della scalea sontuosa, m’è parso che tutto si ravvivasse e che in tutte quelle cose morte entrasse uno spirito che le ordinasse ad una mente dominatrice, ad un comune concetto superiore. Si eleva al di sopra di noi la statua in bronzo del Cristo, Redentore del mondo, in atto semplicissimo e buono. A molti, che salivano con noi, quella figura non era forse familiare e neppure simpatica, ma tant’è, era là e s’imponeva a tutti. Credenti o non credenti, seguaci suoi o non cristiani, tutti sentivamo il fascino irresistibile della Sua personalità storica e tutti, anche quelli che non credevano alla Sua divinità, sentivano che è ancora Lui quegli che guida i destini umani, il solo che possa sanare le nazioni e ridonarci la pace. E pensare che delle nostre nazioni cristiane, invitate a rendere bello e significativo il palazzo di Carnegie, nessuna aveva ardito ricordarsi del Redentore; e questa vecchia Europa, la quale fu la sua figlia prediletta e deve a Lui quanto c’è di buono nella sua civiltà, perché imputridita nell’ateismo di governi s’è lasciata superare da una giovane repubblica americana. Gloria a te, o Argentina, e viva il tuo pensiero, o America latina, che dopo aver innalzato la statua del Redentore sulle Ande come nobilissimo segnacolo di pace, hai voluto sorgesse anche qui in quella che sarà la sede della giustizia internazionale di un mondo migliore! Il tuo esempio valga a scuotere questa inconscia società cristiana dell’Europa, la quale avrebbe visto con somma indifferenza sorgere vuoto d’ogni simbolo cristiano un monumento universale della pace. Discendendo, m’accorsi che il mio spirito era tutto assorto da questo contrasto e che mi s’imponeva con insistenza la domanda: perché i cattolici erano assenti, perché i confessori del più sano e del più ideale internazionalismo, non aggiungevano l’espressione della loro speranza, l’affermazione della loro volontà pacifica a quella dei pionieri del pacifismo internazionale? Ci sono ancora molti di loro i quali credono col De Maistre che «la guerre est divine en elle même, puisque c’est une loi du monde» e acquietano la loro coscienza ad una teoria così pericolosa? O molti hanno paura che parlare «di pace e cristianesimo» equivalga a cadere nella concezione ascetica rivoluzionaria del Tolstoi, il quale derivò dal Vangelo il suo grido: gettate le armi!? O forse manchiamo noi cattolici di una dottrina chiara e precisa sul diritto internazionale e di una concezione ben fissa ed elaborata dei problemi della pace e della guerra in faccia al cristianesimo? A quest’ultima questione mi rispondevo subito di no. Non avevo visto testè nella biblioteca pacifista aperta in una vasta sala del palazzo della pace, fra i volumi al posto d’onore le opere di Francisco de Vitoria e del Suarez? Pochi fra quella turba internazionale che visitava con noi il palazzo avranno saputo che i due celebrati autori sono gesuiti, e meno ancora che il de Vitoria, morto nel 1546, nelle sue lezioni De jure belli e De Indis scrisse il primo trattato dell’jus inter gentes, affrontò il problema della guerra in tutte le sue complicate variazioni e studiò fino in fondo i diritti di difesa e di conquista, distinguendo e precisando in un campo così vasto che va dalla guerra delle crociate fino alla guerra coloniale. E troppo pochi ancora tra i cattolici in un momento in cui il problema della guerra è sì vivamente discusso, ricordano che il Suarez codificando verso il 1600 il principio della guerra giusta non faceva che riassumere la dottrina più antica di Tommaso d’Aquino e che questi a sua volta attraverso il Decretum Gratiani attingeva a sant’Agostino, il quale in polemica contro scrittori e uomini di stato pagani, esponeva la dottrina evangelica, liberandola dalle interpretazioni esagerate in senso pacifista dei primi padri, ma contemporaneamente fulminando le guerre ingiuste e le magna latrocinia su cui era fondato l’Impero romano. La biblioteca donata da Carnegie è però in tale riguardo tutt’altro che completa. Se un giorno i cattolici saranno invitati ad ingrandirla, appariranno in quegli scaffali le cronache delle lingue «pour le maintien de la paix» che furono strumento validissimo di pace nel medio evo francese, e vennero promosse dalla Chiesa, ed accanto a loro i documenti delle «tregue di Dio» che beneficarono per secoli tutta l’Europa occidentale. Vi dovranno comparire le storie degli ordini militari cavallereschi, le esortazioni di tanti concili nazionali ed universali e l’encicliche di tanti Papi che promossero ed ottennero la pace seguendo la massima di Innocenzo III, il quale affermava che «il Papa è il sovrano conciliatore sulla terra». Ancora nel 1514 il concilio lateranense proclamava che «niente vi è più di rovinoso, niente di più funesto alla repubblica cristiana che la guerra». Certo che dopo d’allora i documenti pacifisti della Chiesa si faranno più rari, non perché venga meno il principio o si cambi la dottrina, ma perché la res publica christiana si dissolve, e gran parte della società civile, nonché accettare uomini dalla Chiesa, si organizzerà contro di essa. Facendo un salto ai tempi moderni, non mi ricorda quella stessa Aia, sede della prima conferenza internazionale per la pace, l’affronto fatto a Leone XIII, quando un governo europeo (l’Italia, purtroppo!) impose l’esclusione del rappresentante la Santa Sede? A questo punto del mio soliloquio, cercando quasi in mezzo alla folla interparlamentare dei visitatori chi potesse accompagnare il corso dei miei pensieri, m’ero fatto vicino ad un prelato di imponente statura che accanto ad un altro prelato polacco, era la rara avis ecclesiastica del congresso internazionale. Appresi subito che avevo l’onore di parlare con mons. Alessandro Giesswein, capo del partito cristiano-sociale ungherese e presidente della società per la pace ungherese*). Un cattolico pacifista dunque in tutta forma! Potete immaginare la nostra conversazione; fu la continuazione del mio soliloquio. Udii deplorare anche da lui il troppo assenteismo dei cattolici, ma con sommo piacere appresi che nel recente congresso pacifista, tenuto anch’esso nella città residenza dell’Olanda, i pochi d’essi, intervenuti avevano promosso una riunione a parte, ove avevano deciso di intensificare la propaganda tra i cattolici della Francia, del Belgio, della Germania e dell’Austria-Ungheria, cercando specialmente di influire perché la stampa cattolica, anche in momenti critici, non si abbandoni a tendenze guerrafondaie ma si ricordi sempre che, secondo i nostri principii, la guerra è il flagello delle nazioni e che quando è scoppiata, non può considerarsi se non una dura necessità che bisogna superare al più presto. C’è dunque ormai la cellula dell’organismo pacifista fra i cattolici. Chi l’avrebbe detto, miei giovani amici della settimana religioso-sociale, quando un mese prima nelle nostre conversazioni, affrontando il problema della pace e della guerra, dal punto di vista cristiano, deploravo che la scuola francese del Vanderpol, il fondatore dell’Union pour l’étude du droit des gens d’après le principe chrétien, malgrado l’adesione di sei cardinali e di molti dotti, fra cui i nostri Talamo e Toniolo, avesse trovato nel mondo cattolico internazionale sul terreno dell’azione pratica ancora così pochi fautori? *) Vedere il suo opuscolo, stampato anche in tedesco: Der Friede Christi, Vienna, Kirsch, 1913. d.
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I. Nel 1909 prima di avviare le trattative di Bolzano, i rappresentanti dell’amministrazione liberale di Trento chiamati in seduta confidenziale ammisero che il Trentino solo era incapace di finanziare l’avisiana; accolsero quindi l’idea di trattare coi tedeschi per un compromesso. II. I rappresentanti dell’amministrazione liberale, con a capo il podestà, parteciparono alle trattative del compromesso, delle quali parte si svolsero nelle sale del Municipio di Trento, e firmarono l’accordo coi tirolesi per la costruzione della EGNA-MOENA e Lavis-Cavalese. III. Fallito l’accordo, per l’opposizione del Governo e per la mutata situazione parlamentare, i rappresentanti liberali della città di Trento parteciparono nell’inverno 1911 alle trattative col Ministero per un compromesso ridotto, cioè per la costruzione della Egna-Predazzo e della Lavis-Grumes (lasciando la costruzione del tratto Grumes-Cavalese ad un termine da stabilirsi). IV. Alla Dieta (gennaio-febbraio 1912) liberali e popolari procedettero in perfetto accordo tanto di fronte al Governo che ai partiti tedeschi. Alla fine, riuscita vana ogni altra proposta, il deputato liberale on. Pinalli propose di fare di fronte ai tirolesi la transazione: Egna-Predazzo (Moena) e Lavis-Cembra. A questa proposta aderirono dei deputati liberali: Avv. Dott. Bertolini, già vicepodestà di Trento, Dott. de Bellat, Raile e avv. Antonio Stefenelli. V. Liberali e popolari iniziarono d’accordo l’ostruzione, perché i tirolesi, pur accettando la proposta Pinalli pretendevano una formola o un pregiudizio di fatto ch’escludesse per sempre la continuazione della Lavis-Cembra. Chiusa la Dieta, i deputati liberali e popolari rivolsero insieme un proclama agli elettori in cui spiegavano l’atteggiamento preso, la grande ostinazione tedesca che resisteva anche inanzi all’ultima concessione italiana e promettevano di lavorare ancora allo scioglimento della questione fiemmese. In Fiemme, nei comizi gli elettori tutti, senza distinzione di partito votavano un plauso alla deputazione, specie ai popolari. VI. I popolari ripresero a Vienna le conversazioni col Ministro delle ferrovie per spianare il terreno alla sessione dietale. Avendo tentato invano di insistere per il compromesso o almeno per la Lavis-Grumes, si trovarono presto sul terreno della proposta Pinalli, dalla quale vollero tolto ogni possibile pregiudizio alla continuazione della Lavis-Cembra, ciò che appunto non s’era ottenuto alla Dieta. VII. Prima della conclusione di queste trattative, perché il comitato ferroviario della Comunità insisteva per una soluzione ed in seguito alle manifestazioni avvenute nel convegno dei comuni tedeschi ad Egna e nel Municipio di Trento, si venne alla conferenza del 5 luglio 1912 a Vienna in cui il Ministro dichiarò di non trovare discutibili altre proposte se non quella di Egna- Predazzo, Lavis-Cembra. VIII. Quando i comuni di Fiemme nella sessione dei 13 luglio 1912 non andarono d’accordo fra loro per la ripartizione dei contributi ferroviari, il Municipio di Trento ne approfittò per riprendere nuove trattative onde ottenere oltre il già promesso, il tratto Cembra Grumes (10 km). Per queste trattative si chiese e si ottenne l’appoggio dei popolari. Ma il governo si mantenne negativo e respinse anche come ineseguibile l’idea di costruire da una parte l’avisiana e dall’altra la ferrovia di Costalunga. IX. Di fronte alla precisa dichiarazione del Ministero comunicata in iscritto a Trento ed ai deputati interessati, e per questi a Fiemme e Cembra, la comunità di Fiemme ed i comuni di Cembra risposero di accettare la proposta Lavis-Cembra, Egna-Predazzo. A Trento invece prese il sopravvento la parte radicale, che si sfogò in violenti concioni e manifestazioni contro i deputati popolari, accusati di tradimento nazionale e di mercimonio della valle di Fiemme. Per ricondurre l’agitazione su di una via pratica abbiamo proposta una tassa volontaria proporzionale sui redditi e sulle sostanze per la finanziazione del tratto Cembra-Grumes; ma il comitato eletto per sciogliere la questione di Fiemme non ha fatto nessun tentativo pratico. La borghesia non ha messo fuori un soldo, nonostante gli appelli dell’on. Battisti e questo s’è aggiunto agli altri per fare semplicemente dell’anticlericalismo. Tutto l’odio di partito si è riversato ed è fermentato nella questione economica. X. Lo scopo è d’impedire, malgrado i fiemmazzi ed i cembrani, che queste due valli possano avere la congiunzione ferroviaria proposta. I popolari, consapevoli delle grandi responsabilità assuntesi di fronte agli elettori ed al paese, non possono prestarsi a queste manovre e non si presteranno mai. Contro di loro si fa una campagna sistematica di denigrazione e si tentano tutti i mezzi cogli attacchi alle persone ed alle istituzioni economiche d’intimidirli, di togliere loro la fiducia della popolazione. Abbiamo anche sentito che si preparano altre campagne e che si esauriranno contro di noi tutti gli sfoghi d’un odio settario. Attendiamo a piè fermo, dolorosamente stupiti della ferocia di codesta lotta, ma fermamente convinti di dover compiere fino all’ultimo il nostro dovere. Dio non paga il sabato; e nemmeno il popolo trentino. Il quale nella sua enorme maggioranza, siamo certissimi, stanco di tante provocazioni si leverà a pronunciare la condanna di codesti nostri sleali avversari. XI. L’ultima. Per lunedì hanno convocato un comizio, nel quale come assicura l’«Alto Adige» si presenterà come postulato raggiungibile la combinazione: avisiana e ferrovia per il passo di Costalunga. « ...I deputati popolari non commettano lo scandalo di attraversare l’opera che potrebbe essere una comune conquista... », intima l’«Alto Adige». Ci può essere slealtà, ipocrisia maggiore? La proposta di Costalunga venne respinta dal governo, rispettivamente dai tirolesi come ineseguibile nel 1902, nel 1905 e nelle ultime trattative del 1912 e 1913. Se si fosse sperato che i circoli di Bolzano avessero ora disposizioni più favorevoli, il Comitato, a ciò eletto, per fare qualche cosa sul serio, avrebbe avuto mesi e mesi di tempo per trattare coi tedeschi. Invece si convoca un comizio, come se gli accordi coi tedeschi, a cui l’«Alto Adige» ammette bisogni pur venire si potessero conchiudere nel cortile municipale di Trento!!! E poi s’intima a noi: «non attraversate l’opera!... » Quale opera? L’unica opera che fate, cioè quella di attraversare l’unica soluzione ferroviaria che si presenta possibile per Fiemme e per Cembra e, badate bene, per una possibile costruzione futura di tutta l’avisiana?
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L’Alto Adige di sabato tenta l’impossibile. Vuole cioè metter d’accordo i suoi attacchi violenti ed iniqui contro chi accetta la combinazione Egna- Predazzo e Lavis-Cembra col fatto inconfutabile che il deputato nazionale liberale Pinalli propose egli stesso nel febbraio 1912 tale combinazione ed i deputati Bertolini, Bellat, Raile, A. Stefenelli l’accettarono. Ed ecco come l’Alto Adige tenta di Cavarsela. Scrive: «La proposta affacciata dall’on. Pinalli nel corso delle trattative, allorquando nel febbraio 1912 alla Dieta di Innsbruck si trattavano i problemi ferroviari e i tedeschi avevano gettato finalmente la maschera calpestando il compromesso, non ebbe mai il valore di una proposta formale; tanto è vero che non venne mai sottoposta agli interessati. Essa aveva unicamente la portata di una momentanea tattica di opposizione; non era che una mossa per dimostrare fino a qual punto giungesse l’intransigenza dei tedeschi; tendeva unicamente a rigettare sui partiti tedeschi la responsabilità dell’ostruzione che si stava per iniziare. Questo sapevano e sanno i popolari, come essi – assieme ai loro colleghi liberali – sapevano ancor prima di enunciarla che quella proposta non sarebbe stata accettata dai tedeschi. Ciò che infatti avvenne. Il “Trentino” col farsi forte di questo episodio delle trattative dietali è in aperta malafede. Come spiega il “Trentino” la esclusione voluta da parte dei suoi dei deputati liberali dalle ulteriori trattative, se esso è convinto che questi fossero favorevoli alla Lavis-Cembra? La verità è, che, scoppiata l’ostruzione alla Dieta d’Innsbruck, la deputazione italiana per bocca dell’on. Conci si dichiara sciolta da ogni e qualsiasi impegno di fronte ai tedeschi e riprese la sua piena libertà di azione nella questione fiemmese. Con che anche la famosa proposta Pinalli, anche se fosse stata avanzata sul serio, perdeva ogni e qualsiasi valore». E qui ognuno, cui non difetti il senso comune dovrebbe subito dire: ma signori, pezo ’l tacon del buso. Pezo ’l tacon Ammettiamo per un momento che la proposta Pinalli sia stata fatta per finta, come mossa tattica, come dice l’Alto Adige. Ma questo equivale a dare ai vostri deputati dei gonzi e degli ignoranti. Un contadino che alla fiera vuol vendere la sua bestia a Cor. 500, non gli viene in testa di domandare Corone 300. E se i vostri deputati volevano arrivare assolutamente almeno fino alla Lavis-Grumes; bella mossa avrebbero fatto col proporre di accettare la Lavis-Cembra!! Ma voi fate torto al buonsenso ed all’intelligenza dei vostri deputati collo stampare che si trattava di una mossa tattica. Come andarono le cose No, si tratta di una proposta formale, impegnativa e decisiva. Ed ecco come andarono le cose. Nella nota seduta del febbraio 1912 l’on. Pinalli in seno alla conferenza plenaria dei deputati trentini propose di accettare – visto che tutte le altre soluzioni erano state respinte – la combinazione Egna-Predazzo, Lavis-Cembra. Messa ai voti la proposta, dei liberali aderirono Bertolini, Raile, Bellat, A. Stefenelli, cioè tutti, meno l’on. Viesi. L’on. d.r Conci fu incaricato di estendere la dichiarazione che il Ministero delle ferrovie avrebbe dovuto mandare alla Dieta in conformità alla proposta Pinalli, affinché gl’italiani potessero poi votare in Dieta i contributi provinciali per le due linee accennate. L’on. d.r Conci, estese la formula per tale dichiarazione, la consegnò al Luogotenente d’allora, Barone Spiegelfeld il quale si impegnò di trasmetterla al Ministero e di ottenere dallo stesso la risposta nel più breve tempo possibile. Nella trasmissione però il Luogotenente modificò la formula nel senso che la Comunità generale di Fiemme non sarebbe stata l’unica ed esclusiva concessionaria della linea Egna-Predazzo, come avevano deciso i deputati italiani; ma la concessione avrebbe potuto essere estesa anche ad altri. Il Ministero rispose con una nota che, in tale riguardo corrispondeva non ai postulati degl’italiani, ma alla variante del Luogotenente, il quale ne diede tosto comunicazione all’on. Gentili che, pur riservandosi di sentire il parere di tutti i colleghi italiani, si espresse nel senso che la nota non sarebbe stata trovata soddisfacente per prendere con cuore tranquillo una deliberazione in seno alla Dieta, non essendo assicurato il contegno che poi avrebbe tenuto il Ministero. Osservò ancora che la seconda parte della nota ministeriale, riguardante la linea Lavis-Cembra, aveva subito tali modificazioni da parte del Ministero ed era così enigmatica, da non dare nessun affidamento, e finì esprimendo il parere che meglio sarebbe non comunicare tale nota alla Dieta e continuare invece le trattative per ottenere possibilmente un migliore risultato. Convocati i deputati italiani e data loro la partecipazione della nota ministeriale, essi furono del medesimo parere dell’on. D.r Gentili il quale si affrettò a darne partecipazione alla Luogotenenza. Questi però consegnò ugualmente la nota ministeriale ai capiclubs tedeschi, i quali in tal modo facendosi forti della posizione sfavorevole degli italiani presa dal Ministero, si ostinarono sempre più nel negare le volute concessioni, per il che la Dieta fu chiusa e la questione restò arenata. Il D.r. Conci nell’ultima seduta dei capiclubs dichiarò che gli italiani con ciò erano sciolti da ogni impegno verso i tedeschi e viceversa i tedeschi di fronte agl’italiani. È evidente per lo stesso tenore della dichiarazione che ciò era una mossa tattica rispetto ai tedeschi per procurarsi una posizione più forte nelle ulteriori trattative, ma non significava e non poteva significare un mutato apprezzamento sul modo come potesse venire risolta la questione, né i deputati popolari ebbero alcuna ragione di credere che i colleghi liberali della Dieta avessero mutato in tale riguardo il loro parere, non avendo mai avuto alcuna comunicazione in proposito. Stando le cose in questi termini, l’on. d.r Conci quale deputato della Valle di Cembra, convocò un’adunanza dei Capi comune della Valle, nella quale espose lo stato delle cose, chiedendo il loro parere sulla combinazione Egna-Predazzo e Lavis-Cembra, e tale parere fu favorevole. Gli on. Degasperi e Trettel esposero pure le questioni in due adunanze a Predazzo e a Tesero, ottenendo l’approvazione delle stesse, e l’on. Degasperi tenne poi a Cavalese, ai 13 febbraio il noto comizio in cui l’avv. Rizzoli dichiarò il contegno dei popolari superiore ad ogni elogio. Subito dopo i popolari ripresero le trattative a Vienna per ottenere dapprima il compromesso a tappe e giungere almeno fino a Grumes; e non potendo ottenere questo tanto, insistettero infine sulla Egna-Predazzo e Lavis-Cembra, colle note clausole richieste. Delle trattative col Ministero fu spesso informato il podestà di Trento che si rivolse anche a qualcuno dei deputati popolari per avere udienza presso il Ministro delle ferrovie nella dibattuta questione; per cui fu colla più alta meraviglia che i deputati popolari ebbero poi a conoscere l’ordine del giorno votato ai 9 agosto 1912 da deputati liberali, ordine del giorno il cui tenore lasciava adito a credere che i deputati popolari avessero condotto le trattative col Ministero sopra una base ripudiata e non anzi proposta formalmente da uno dei loro e da essi stessi approvata né mai fino allora ritirata. CONCLUSIONE. LA PROPOSTA PINALLI PER LA EGNA-PREDAZZO, LAVIS-CEM- BRA ERA FORMALE ED IMPEGNATIVA DI FRONTE AI TEDESCHI ED AL GOVERNO ALLA DIETA I CONTRIBUTI PROVINCIALI PER LA EGNA-PREDAZZO E LA LAVIS- CEMBRA. MA I TEDESCHI PRETESERO D’IMPEDIRE ANCHE LA «FUTURA» CONTINUA- ZIONE DELLA LAVIS-CEMBRA; DI QUI L’OSTRUZIONE E LA CHIUSURA DELLA DIETA. OGGI INVECE ABBIAMO OTTENUTO CHE LA FUTURA CONTINUAZIONE DELLA LAVIS-CEMBRA NON SIA PREGIUDICATA. I POPOLARI QUINDI NEL 1913 SONO SULLA PRECISA BASE PROPOSTA DALL’ON. PINALLI ED ACCETTATA DAI LI- BERALI NEL 1912.
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L’anniversario del monumento a Dante coincide colla ripresa autunnale delle nostre attività sociali. C’è bisogno di dire che il migliore nostro omaggio dev’essere il proposito di mantenersi vigilanti, fermi, risoluti nella nostra difesa nazionale! La recente campagna antivolksbundista ha scosso la coscienza delle masse popolari e le ha addestrate nella lotta. È in buona parte merito dei nostri amici se i vivissimi attacchi in Folgaria trovarono degli ostacoli nella rinnovata coscienza popolare, è (in misura notevole) merito nostro, se la mentalità fassana va snebbiandosi dei suoi pregiudizi contro l’italianità; e fu sovratutto l’opera vigorosa, la tenacia dei cattolici quella che fiaccò il Volksbund nel suo attacco generale al Trentino. Altri, potendo dedicare a tale scopo risorse materiali, che i cattolici quasi esauriscono in opere di culto, di carità e di provvidenza sociale, hanno potuto offrire alla difesa nazionale in misura maggiore della nostra i presidi, gli strumenti della lotta, ma lo strumento morale più alto e di più difficile maneggio, la coscienza dei combattenti, la reazione dei tentati fu sovratutto compito nostro di risvegliare o reintegrare. Paesi, vallate intiere dopo la diffusione della nostra stampa e la propaganda delle nostre associazioni non si riconoscono più. Che cosa sarebbe avvenuto del Trentino, se fosse stato chiamato alle urne del suffragio universale a scegliere fra un nazionalismo signorile con sottocorrenti anticlericali e non rare dimostrazioni piazzaiuole e dall’altra la reazione sorda, ma profonda ch’esisteva contro una minoranza avvezza a monopolizzare il Paese? Quando verrà lo storico imparziale della nostra vita pubblica dovrà ammettere che il partito popolare, o meglio il movimento cattolico-sociale esercitò dal punto di vista nazionale una funzione mediatrice ed educatrice provvidenziale. Oggi c’è attorno a noi chi ci grida che siamo nazionali di seconda qualità, altri che siamo troppo spinti. La nostra via è nel mezzo ed è la via aurea, la quale del resto viene segnata dalla realtà delle condizioni psicologiche, sociali e politiche del nostro popolo e del nostro paese. Continuiamo su questo. Liberiamolo ancora, ove ce ne sia bisogno, dal pregiudizio una volta assai diffuso che irredentismo politico e culto della propria nazionalità, che attaccamento alla propria nazione e movimento antistatale sia tutto una cosa da ripudiarsi o da accettarsi insieme. Educhiamolo con tenacia nelle nostre associazioni al sentimento nazionale, valendocene come strumento di civiltà e di progresso morale, non come incentivo ad odiare o a disprezzare le altre nazioni. Quest’opera non è certo una ventata o una fiammata che passa, ma lavoro tenace e, più spesso, non appariscente, ma che importa? Noi non dobbiamo aver fretta di farci dei meriti per vantarcene in confronto della nazione o servircene nelle competizioni politiche. Lavoriamo per l’educazione nazionale per sé stessa. I frutti verranno, poiché il popolo sa che noi non pretendiamo da lui che sacrifichi il proprio sviluppo economico a preconcetti di una dogmatica nazionale insofferente di ogni critica o revisione e perché vede che parlandogli di nazionalità, gli parliamo di qualche cosa che deve integrare non assorbire la sua mente e la sua opera. I frutti verranno sopratutto, perché il popolo Trentino, quando gli parliamo di Dante Alighieri comprende che noi non gli presentiamo una ricostruzione modernamente ritinta della sua dottrina e della sua opera, ma la figura vera ed intiera di quel Maestro che per divenire grande della nostra nazione, fu gigante nella Fede e nella Chiesa cattolica.
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[...] Accolto da un’ovazione ha la parola il deputato parlamentare di Fiemme . Esprime la sua soddisfazione per l’intervento numeroso. Per lui, per i suoi colleghi, per quanti conoscono Fiemme non c’era bisogno di nuovi comizi. Si sa come la pensate. Ma vi hanno provocato, hanno detto che la vostra opinione è coartata da arti subdole del mio partito, e quindi è naturale che oggi vi siate convocati qui a dire il vostro pensiero. Voi siete qui a protestare contro la contraffazione del vostro pensiero (applausi). Si è creata dagli altri anche la questione di partito, e dopo che si è cercato d’aizzarvi un paese contro l’altro, una fazione contro l’altra, ora nell’imminenza di questo comizio si è scritto che esso è convocato per rompere la concordia (ilarità). Non noi abbiamo sparso in Fiemme la zizzania, ma i nostri avversari incorsero a tutte le arti, fino alle denigrazioni personali, perché avevano paura d’affrontare la questione nei suoi veri termini. Per noi nella questione di Fiemme non ci furono né popolari né liberali, né socialisti, ma solo fiammazzi ed oggi qui sotto le libere bandiere dei vostri comuni non vedo che fiammazzi (applausi). Una volta la concordia c’era, ma chi l’ha rotta? Chi ha rotto la concordia Nel febbraio 1912 liberali e popolari s’accordarono alla Dieta per la Egna-Predazzo e la Lavis-Cembra; chi è venuto meno a questo accordo? Il comitato tramviario fiemmese era composto in maggioranza di liberali, e mi scriveva ad unanimità nel maggio e nel giugno 1912, approvando le nostre trattative col Ministero per la linea da S.Lugano e la Lavis-Cembra. Chi poi ha cambiato bandiera? (applausi). Terzo atto di concordia. Ai 10 luglio il comitato tramviario formulava la proposta Egna-Predazzo, Lavis-Cembra. A questa proposta aderiva anche il liberale D.r. Deleonardi di Cavalese. Chi, tre giorni dopo, nel consesso rompeva questa concordia? (Applausi. Fischi all’indirizzo dei rappresentanti di Cavalese, Degasperi li soffoca subito, pregando i partecipanti a non lasciarsi trascinare dall’incivile contegno del gruppo oppositore. Applausi). Quarto atto di concordia. Quando qualche comune nel consesso dichiarò di non poter votare il contributo, perché non ne risulterebbe una giusta divisione dell’aggravio, allora l’on. Trettel ai 26 luglio convocò i rappresentanti dei comuni a Panchià, perché tentassero un accordo sul contributo. Quale comune si ostinò a non venire e nemmeno a trattare? Cavalese, quantunque prima il suo capo avesse espresso l’opportunità di tale convegno. Furono i nostri avversari che portarono nella valle la menzogna. Ognuno aveva diritto di dir chiaro. Voglio o non voglio la ferrovia, voglio o non voglio la tal linea, ma non di ricorrere ad intrighi, non di scatenare l’odio di parte, d’arrivare alle denigrazioni (applausi vivissimi). La decisione Quando, come deputato di Fiemme e consigliere comunale di Trento mi sono trovato di fronte all’ultima parola detta dal ministro e a completare il mio giudizio ho chiamato in validissimo aiuto l’esperienza ventenne di un fervente propugnatore dell’avisiana, come il D.r Conci e la chiarezza di visione dell’on. Gentili, allora mi sono sentito al bivio di una decisione importante. Da una parte farmi dei facili meriti di fronte alla solita rettorica pseudo-nazionalista, tentando di menar a naso ancora per un paio d’anni i fiammazzi, tirando fuori vicini, divisione o qualche altra questione della comunità , dall’altra affrontare e risolvere praticamente il problema. Ma anzitutto ho una coscienza politica e sapevo la volontà degli elettori. (Quattro, cinque persone del solito gruppo sghignazzano. La maggioranza insorge grida: abbasso i forestieri ed applaude). Degasperi: Lasciateli pure sghignazzare, non fanno che testimoniare della loro educazione (applausi). E poi noi deputati abbiamo dovuto concludere: Ci sono troppe forze e troppe circostanze che propendono per S. Lugano. Se non oggi, sarà domani che i fiemmazzi con noi o contro di noi l’avranno! Allora per Cembra non si avrà più niente. Nella presente combinazione abbiamo quindi visto l’unico mezzo di salvare un buon tratto di linea fino a Cembra e almeno la possibilità della sua continuazione. Ecco perch’io anche essendo consigliere municipale di Trento, ritenni di dover aderire alla proposta. Certo la città di Trento aveva diritto di difendere i suoi interessi, di insistere per una soluzione migliore, fino che lo crede possibile, ma quello che non è giusto è che nei suoi comizi si voglia falsare e cancellare la volontà della maggioranza di Fiemme, dando da intendere che i fiammazzi sono spinti dai deputati, e non invece i deputati che devono pur tener conto della volontà e dei bisogni del popolo (applausi). Ora in Fiemme, perché l’opposizione alla linea di S. Lugano come tale non attecchisce, si va dicendo che è troppo cara e che manda in rovina i comuni. Il costo I deputati hanno fatto il possibile per diminuire il contributo e sono arrivati a 1 milione di azioni di fondazione e 800.000 di priorità. Di più non hanno potuto fare. Ma è ingiusto che si faccia loro un rimprovero, perché si è dovuto tener conto di Cembra. La Comunità fu in altri tempi disposta a spendere ben più. Ai 2 dicembre 1902 deliberò di assumere un prestito per costruire la Molina-Moena preventivata in Cor. 2.450.000 e chi sa quanto sarebbe costata di più! Nel ottobre 1904 si fecero a Trento proposte ancora più onerose per Fiemme, come ha ricordato il signor Valentino Morandini , nel 1905 il prof. Ossanna consigliava Fiemme ad assumere 1 milione di fondazione e 2 milioni e mezzo di priorità. Nel 1909 la Comunità votava 1½ milione in azioni di fondazione per la linea del compromesso. Ov’erano allora gli economi d’oggi? (Applausi). Un’altra frottola che si va sussurrando negli orecchi degli ingenui è questa: la linea di S. Lugano è voluta dai tedeschi e dal governo. Il governo se la farà quindi a spese sue, senza che ci mettiamo niente. Baie, nessuna ferrovia locale viene costruita senza il contributo degli enti locali. (Voce dal gruppetto: Basta, basta! Degasperi: Vi brucia che certe menzogne vengano smascherate? Applausi). Ma si dice ancora: i fiammazzi possono aspettare. Ad aspettare alcuni anni non si perde niente. Intanto verrà forse qualche cosa di meglio (Ilarità). L’aspettare non costa niente? Dite, p.e. ai nonesi, che lascino ferma la Trento-Malè per 10 anni, che tornino agli omnibus del Moggio ed ai carradori, e poi che dopo 10 anni facciano le somme. Allora si vedrà la differenza, e che cosa vuol dire aspettare per 10 anni. Il distacco dal Trentino Contro di noi poi deputati in particolare si lancia l’accusa di distaccare Fiemme dal Trentino. Questa frase del distacco fa impressione su chi non la esamina alla luce dei fatti. Vediamo. Per che cosa è attaccata ora e ab antiquo Fiemme col resto del Trentino? Ci sono le relazioni religiose, morali e linguistiche. I vostri preti studiano al collegio vescovile di Trento e vengono diretti dalla Curia di Trento, i vostri avvocati, impiegati ecc. studiano a Trento o a Rovereto e da là vengono diretti. I vostri maestri studiano a Rovereto e portano nelle scuole l’educazione trentina, il catechismo diocesano, i testi trentini. Così la Chiesa, la scuola, gli uffici sono italiani e trentini. Inoltre avete relazioni commerciali con Trento, specie le cooperative col Sindacato, le società di credito colle Banche di Trento, i consorzi col Consiglio d’agricoltura ecc. ecc. Ora queste relazioni che fanno parte del Trentino per dove passano, ove è il punto d’attacco di Fiemme e il Trentino? Da centinaia d’anni è ed è sempre stato Egna, il ponte di Egna, la stazione di Egna! Se di qui innanzi sul ponte di Egna invece dei carri passeranno vagoni ferroviari, se invece delle automobili che vi fanno trasbordare nel paese di Egna andrete in tram direttamente alla stazione Egna-Termeno della Meridionale, forse che il punto d’attacco di Fiemme al Trentino è diverso, forse che si può parlare di un distacco? Ci sarà invece un mezzo più presto, più sicuro di locomozione fra Fiemme e Trentino e le loro rispettive relazioni morali, nazionali e commerciali diventeranno più strette. (Grandi applausi). L’unico danno nazionale forse sarà che non ci saranno più i carradori che fanno sosta a bere l’acquavite nell’osteria dell’ex capocomune di Trodena, ai cui sensi disinteressati hanno fatto appello i nostri avversari, quando si trattava d’impedire il distacco di Fiemme dal Trentino. (Ilarità. Grandi applausi). Certo se vedessimo la possibilità di costruire l’avisiana noi tutti deputati crediamo ancora ch’essa sarebbe l’ideale. Ma si fa tanto ricordare il programma Mazzurana . Purtroppo dobbiamo ammettere che le premesse economiche di tale programma non esistono più. Chi vorrebbe ora investire danari in ferrovia per speculazione privata? Nel paese non ci sono i danari, e chi li ha non li mette fuori. Mazzurana stesso se oggi vivesse dovrebbe attenuare le sue speranze . Ma se non può farlo, lui, l’ha fatto suo figlio, il signor Felice Mazzurana, il signore trentino caro ai fiammazzi perché ha tentato e tenta di sviluppare in Fiemme una grande industria. Non ha egli scritto e stampato nel suo opuscolo che la Comunità di Fiemme ha diritto di scegliere la propria via e non ha trattato l’anno scorso col comitato tramviario per la finanziazione della linea di S. Lugano! (Applausi). Viva il Trentino! Fiemmazzi! Con piacere saluto le antiche bandiere dei vostri liberi comuni e comprendo tutta la vostra fierezza e la reazione che vi nasce nell’animo contro chi vi ha descritti come pecore, soggette alle arti subdole di pochi. Ma in questo momento è il consigliere di Trento che vi parla e vi dice di non lasciarvi provocare a sensi ostili contro la città che per noi sarà sempre il centro del paese. A Trento non tutti la pensano come i comizianti. Fiemme rimarrà sempre unita al Trentino, rimarrà sempre italiana (applausi). Verrà tempo in cui la storia dovrà ammettere che proprio noi, chiamati oggi traditori nazionali, abbiamo invece rafforzato il senso di solidarietà trentina nella valle dimostrando che per il suo progresso economico noi trentini sacrifichiamo almeno temporaneamente un ideale, per il quale abbiamo combattuto da anni. Io ho l’intima fiducia che verrà presto il giorno in cui vi si potrà chiedere un ricambio di solidarietà, che anche voi ci aiuterete a promuovere la continuazione della Lavis-Cembra. Con questi sensi termino invitandovi a gridare Viva Fiemme, viva il Trentino. (Evviva, applausi, ovazione all’on. Degasperi).
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21911-1915
Anche nel Trentino hanno oramai fatta larga irruzione i grandi giornali liberali del Regno. Al qual proposito se da un canto possiamo compiacerci che il Corriere della Sera abbia quasi sbancato l’ebraico Piccolo che ammorbava colla sua cronaca scandalosa gli ambienti delle nostre città e se dobbiamo augurarci, per il minor male, che il Corriere tenga testa al massonico Secolo, il quale tenta di diffondersi pur esso, è però nostro dovere di pubblicisti cattolici di richiamare l’attenzione dei buoni sul pericolo che la diffusione della grande stampa liberale sia pure non radicale rappresenta per la coscienza cristiana nel nostro paese. Il richiamo è tanto più necessario, perché non si tratta qui del giornale sbracato, anarchico che spaventa ed allontana. No, no, esso viene come un signore compito, azzimato, benevolo per tutti; giudice «imparziale» di uomini e di fatti, e chi lo legge pensa di trovarsi assieme a persona molto dabbene, molto serena, persino religiosa e si sente portato a pensare colla testa del suo giornale, ed a giurare nel suo verbo. Ma siccome tutti dicono che ora il giurare in verbi magistri è passato di moda e viviamo nell’epoca della libera critica, noi vorremmo invitare quei cristiani, che ci tengono ancora ad esser tali a sostare talvolta nella lettura di codesta stampa addormentatrice e ad esaminare attraverso la signorilità della forma il pensiero che domina in certi articoli ed in genere dell’indirizzo del giornale. Si provino per esempio certe signore pie, che si accostano magari tutte le mattine alla S. Comunione, a leggere con occhio critico certe novelle o qualche bozzetto, che vanno comparendo nella terza pagina del giornale lasciato penetrare impunemente nelle loro famiglie, e neghino, se possono, innanzi alla loro coscienza di cristiane, che certe narrazioni, fatte magari sotto lo specioso pretesto dell’arte, guastano, falsano ed uccidono un po’ alla volta insinuandosi come sottile veleno, il retto senso morale. E non è già un grave pericolo codesto rivestire giornalmente d’estetica e d’eleganza il libertinaggio, codesto trattare con simpatica disinvoltura e con signorile superiorità ogni aberrazione dalle vecchie, sacre ed irriducibili vie del principio morale! Forse che voi nella vostra educazione famigliare, v’inspirate ad una indulgenza così colpevole o permettereste che un maestro, un professore avviasse i vostri figli ad una considerazione così scettica o più spesso così elegantemente volteriana del bene e del male, del morale e dell’immorale? Rispondete di no, e sta bene; ma perché allora date loro in mano ad occhi chiusi il grande giornale liberale? Non parliamo poi della religione. Conosciamo delle brave persone che se capita loro sott’occhio una vignetta ingiuriosa dell’Asino o un insulto triviale del Secolo, si sentono rimescolare il sangue e la loro coscienza offesa si ribella energicamente. Viceversa non s’accorgono delle insinuazioni continue contro il Cattolicismo del giornale liberale, insinuazioni velate, pietre lanciate da mani in guanti gialli ed aggraziate ma non meno micidiali perciò. Qui è un grano di storia posto con tutta disinvoltura in una luce sfavorevolissima alla Chiesa; altrove è un Atto Pontificio, giudicato con olimpica serenità alla stregua di viste puramente umane; è l’atto di un collegio di Vescovi che si vuole abilmente far apparire in contraddizione col Sillabo di Pio IX; è una teoria contraria alla Dottrina Cattolica che viene abbigliata di veste lusinghiera e ornata dell’orpello della scienza, per quanto non si tratti affatto di vera cognizione scientifica: è un personaggio dei Libri Sacri, che viene rappresentato come appartenente ad una tradizione semileggendaria. Non è una guerra aperta al Cattolicismo, no, non è nemmeno una lotta organizzata e sistematica. Ma nella realtà è però una demolizione fatta a poco a poco, una demolizione inesorabile, che mina, mina nelle basi, una demolizione fatta alla volteriana, col sorriso sulle labbra. La mentalità formatasi su questa stampa viene bel bello a considerare il fatto religioso come un fatto puramente umano, la vita cristiana non come un dovere, ma come uno dei fenomeni umani, per cui è naturale il mancarvi, come è naturalmente spiegabile il mancare alla morale cristiana. Il divino, il soprannaturale è messo a poco a poco nella regione delle fole, a cui crede chi ne ha voglia; tutto è umanizzato. Ebbene, voi, trentini che ci tenete ad essere cristiani, e voi signore pie, come potete praticare e vantare il vostro cattolicismo, mentre fate vostro amico, vostro consigliere, vostro informatore il foglio che, colla lustra di una serena imparzialità, tratta la vostra Religione alla stregua di ogni idea umana, di ogni qualsiasi umana opinione e che in questo modo avvolge fra le nebbie sollevate dall’orgoglio umano, offuscandola, l’aureola della divinità, che cinge la fronte di quel Gesù, che voi adorate come Dio, spoglia la Chiesa della gloria di sposa di Lui, ed il Capo Augusto di Essa della gloria di continuatore di Gesù in terra! Come potete non temere che le parole garbate penetrando nel vostro cuore non vi scalzino a poco a poco i sentimenti che sono dovere per ogni cattolico, di attaccamento inconcusso alla Dottrina della Chiesa, di venerazione ed obbedienza ai suoi ministri, sopratutto al suo Capo? Ecco una domanda logica, precisa, ecco la questione che dovete porvi senza infingimenti, senza titubanze ed alla quale la vostra libera coscienza deve dare una libera e franca risposta!
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21911-1915
In 80 sono entrati al Parlamento i deputati socialisti e la loro massa si allarga su diversi settori della camera. Che cosa sono mai in loro confronto i piccoli gruppi delle nazionalità minori? Quattro noci in un sacco che si distruggono a vicenda. Ma la falange invece del socialismo internazionale, piantata sulle larghe spalle del popolo, colle vive energie di un sistema scientifico e di una propaganda democratica, coll’occhio intento ad un radioso avvenire, quella rappresenta una forza irresistibile. Sgomineremo, avevano gridato i candidati socialisti, le file dei capitalisti e degli agrari, trionferemo dei nemici del proletariato e costringeremo i retrogradi ad inaugurare una politica di progresso e giustizia sociale. Così la diminuzione delle imposte, la riforma tributaria in senso democratico, le pensioni operaie, e tutti i soliti postulati del programma minimo socialista si affacciavano già sull’orizzonte. Perché finora non s’era fatta tutta questa bella roba? Perché i socialisti erano troppo deboli. Ma aspetta un poco: ora entrano al parlamento in 80 e divengono un partito fortissimo. Li vedremo alla prova. Ebbene, che cosa è accaduto? Non diciamolo colle parole nostre, lasciamolo dire ai socialisti, ai socialisti autentici e coscienti, ai fiduciari anzi del partito socialista convocati al recente congresso generale in Vienna . In altro articolo abbiamo rilevato il lagno generale sollevatosi al congresso; oggi da tanti discorsi, riportati stenograficamente dall’organo centrale socialista, prendiamo a caso questi due brani. È il fiduciario socialista del Vorarlberg, Leibfried, che parla e noi traduciamo: «Nel nostro piccolo paese la repugnanza contro il Parlamento si fa sempre più grande, tanto che i nostri compagni le nostre compagne hanno quasi perduto la speranza in questo Parlamento, la quale pure era così grande; ci speravamo da questo Parlamento grandi progressi in linea politico-sociale, che sono mancati totalmente; nel nostro club abbiamo molti teoretici, ma troppo pochi pratici, il club fa troppo il diplomatico, e dovrebbe invece fare una politica che possa comprendere anche il semplice lavoratore». Un altro fiduciario di Knittenfeld, certo Reger, discute le ragioni per cui le masse si vanno staccando dai deputati socialisti e conclude: «Quello che ci ha allontanato le masse fu il cumulo di speranze che vennero fatte balenare innanzi al proletariato nella lotta per il suffragio universale, le quali per riguardo al Parlamento, non si sono realizzate nemmeno da lontano; le classi popolari vogliono aver qualche cosa di pratico dal Parlamento ed invece non vedono niente se non una tribuna rettorica, dalla quale i nostri deputati tengono dei discorsi belli ed energici, ma che viceversa al popolo non giovano niente; oggi è scossa la fiducia non solo nel Parlamento, ma anche nel partito». Questi sono due esempi soltanto delle molte espressioni simili, uscite di bocca socialista, durante la discussione, tanto che dovettero correre ai ripari tutti i caporioni da Vittorio Adler a Pernerstorfer . Delle giustificazioni del primo abbiamo toccato nel nostro articolo sull’ostruzionismo. Ma chi disse più netta e più cruda la verità fu il presidente on. Pernerstorfer, nel suo discorso di chiusura. Leggete questi periodi che traduciamo dalla relazione dell’Arbeiterzeitung: «Quando noi siamo entrati nel Parlamento in numero sufficiente, e ne approfittammo come di pubblica e libera tribuna per il proletariato, è accaduto lo strano fenomeno che il proletariato austriaco avesse di mira dei successi immediati. Invero i nostri oratori e la nostra stampa non hanno mancato di spiegare in migliaia di discorsi e di articoli che noi non siamo un partito di riforme. Noi avremmo potuto fare come i partiti borghesi, e come sembra che qualcuno anche se l’abbia augurato. Avremo potuto fare cioè dei buoni affari. Forse questo ci sarebbe riuscito, se ci fossimo risolti ad essere un partito borghese riformista, un partito radicale dei lavoratori, com’è esistito per lungo tempo in Inghilterra e vi esiste ancora, il quale in sostanza tende a raggiungere dei risultati immediati, ma non è penetrato dal grande sogno del socialismo. La nostra meta invece è di non ottenere questa o quella legge, ma il sovvertimento dell’odierno ordine sociale e capitalistico. Noi portiamo in noi il carattere dell’inconciliabilità che pone il nostro partito in contrasto con tutti gli altri partiti». Di fronte ai lavoratori dunque che domandano miglioramenti e riforme, nuove protezioni dalla legge e nuovi benefici dallo Stato, il presidente del congresso socialista vi dice chiaro: Noi non siamo dei riformisti ma dei socialisti. La nostra tattica tende quindi non a raggiungere veramente qualche cosa di pratico per voi, ma a provocare la grande rivoluzione sociale. Noi non possiamo fare affari, cioè venire a ragionevoli compromessi cogli altri partiti, per cavarne un progresso reale; sono cose effimere e noi cogli altri partiti non possiamo trattare. Lo spirito rivoluzionario socialista ci separa da loro con un abisso. Ma e allora? obiettano gli ingenui. Perché avete un programma minimo? Perché avete fatte tante promesse nella propaganda elettorale? Perché al Parlamento sembrate talvolta concentrare i vostri sforzi nel raggiungere una votazione? – Eh sì. Qui sta appunto l’imbroglio. Tutta la tattica socialista tende a questo risultato negativo: di dimostrare che gli altri partiti borghesi non sono favorevoli ai postulati operai. Sta bene, e fino ad oggi il popolo lavoratore non se n’era accorto. Ma oggi incomincia a brontolare. I borghesi sono canaglie, non vogliono far nulla per noi, lo sappiamo, ce l’avete detto tante volte. Ma voi, deputati socialisti, voi partito degli ottanta, oltre dei discorsi, che cosa avete fatto, che cosa avete raggiunto voi?
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Il nostro paese avrebbe bisogno di un periodo di raccoglimento e il nostro popolo reclama una politica di lavoro per risorgere e farsi forte. In moltissimi, anzi nei più s’è diffusa la convinzione che le stesse lotte di partito debbano attenuarsi perché sia più agevole il collaborare assieme per la difesa e l’accrescimento dei nostri beni morali e nazionali e sopratutto per il nostro progresso economico. Ma il piccolo paese che abitiamo ha la sventura di albergare troppi elementi distruttivi. C’è troppa gente che per interesse o per temperamento lavora ad impedire che altri lavorino o a distruggere quello che altri hanno fatto. Bisogna quindi guardare in faccia alla realtà e convincersi che nessun’opera sociale, nessun risultato politico ci darà il premio d’una tregua nella vita pubblica. A noi toccherà sempre di lavorare come l’antico costruttore del vallo in vista del nemico, nell’una mano il martello e nell’altra la spada. E poiché oramai per disgrazia del Trentino, la realtà è questa, noi vorremmo che nella mente di tutti i nostri amici la visione di essa si facesse ancora più chiara e più precisa, affinché tutti sentano la necessità irrefutabile di mantenere immutata la tensione del loro sforzo sociale. Nei prossimi mesi la campagna si farà aspra e vivissima. La decisione del partito liberale di fare ostruzione alla Dieta più che per se stessa è importante come sintomo . Vuol dire che il radicalismo sta rompendo tutte le dighe della tolleranza e della moderazione, e che contro di noi si andrà all’assalto su tutta la linea. La campagna violenta e sleale contro le nostre istituzioni, contro il partito e contro le persone, contro il contegno dei nostri deputati e perfino contro le loro intenzioni non è stata e non è che il prodromo della guerra che verrà combattuta senza quartiere e senza scrupoli. Le elezioni dietali, che coincideranno forse colle municipali di Trento, supereranno in violenza quelle parlamentari del 1907. Noi lo vediamo, lo sentiamo, lo sappiamo; e ci prepariamo a fare ai nostri avversari quell’accoglienza che merita il loro attacco rabbioso e sleale. Bisogna però che questo nostro fermo proposito sia non solo di noi, ma di tutti i nostri amici. Ed ecco il primo lavoro che dobbiamo fare assieme. S’è constatato in tutte le elezioni che l’artiglieria pesante e d’azione decisiva è la stampa quotidiana. Ebbene, rafforziamo la nostra artiglieria. Diffondiamo il Trentino! Potremmo mandare agli amici nostri ed ai fiduciari una circolare, un eccitamento privato. Diciamolo subito: non ne abbiamo il tempo. Il tempo di guerra non è tempo di cerimonie, e noi preferiamo dirigervi pubblico appello da queste colonne. Nei prossimi giorni concentrate la vostra attenzione su questi due quesiti: si può istituire nel nostro paese una rivendita del Trentino e, in secondo luogo, quanti potrebbero essere gli abbonati straordinari? Risposto al primo quesito affermativamente, avvisate subito l’amministrazione. Le pratiche per il permesso occuperanno tutto il tempo che rimane fino a capod’anno. Per il secondo siamo in debito di una spiegazione. Col primo dicembre apriamo un abbonamento trimestrale di favore al prezzo di sole Cor. 3 invece che di Cor. 5.50. Il favore è straordinario: la nostra perdita di fronte all’amministrazione di 2.50 per abbonato. L’anno scorso ha coperto metà dell’ammanco che ne risultò la Direzione del Comitato Diocesano. Quest’anno non possiamo pretenderlo. Eppure lo sforzo va rinnovato. Abbiamo deciso di rivolgerci agli amici più facoltosi (sono pochi purtroppo!) per chiedere loro un contributo per coprire le deficienze, che calcoleremo ad abbonamento chiuso. Le condizioni sono quelle dell’anno scorso. Chi manda alla nostra amministrazione Cor. 3 riceve il Trentino dal 1 dicembre 1913 fino al 1 marzo 1914. Ultimo termine per questo abbonamento è il giorno 8 dicembre. Chi non ha spedito i danari entro questa data non viene più accettato. Oltre a ciò l’amministrazione si riserva di respingere la domanda di chi, potendo pagare l’abbonamento ordinario, ricorre a quello di favore. Non abbiamo bisogno d’osservare che costui dimostrerebbe di voler danneggiare invece che sostenere la nostra stampa. Ed ora, amici, al lavoro. Siate apostoli ferventi ed instancabili della nostra stampa. È la preparazione migliore, il pegno più sicuro della vittoria. Il Trentino manterrà la parola. I colpi degli avversari non rimarranno mai senza risposta e farà rimbombare la sua voce per la verità e per la giustizia, finché venga il giorno in cui proclamerà una nuova vittoria del popolo trentino, raggiunta sotto le nostre bandiere. Abbonamento eccezionale di propaganda 1 dicembre-1 marzo 1914
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Per informazioni sicure, sapevamo già da qualche tempo che l’on. Pinalli, il cui nome fu tanto ripetuto nella questione di Fiemme, avrebbe parlato ai suoi consenzienti ed amici di Rovereto . Veramente si vocifera che quest’adunanza avrebbe avuto lo scopo precipuo di informare esattamente gli interessati circa la riforma elettorale della provincia, e si capisce facilmente il perché. La riforma non andò a fagiuolo all’Alto Adige che criticò aspramente i deputati liberali e li accusò di essersi lasciati gabbare dai popolari. Ricorderete, in proposito che due deputati liberali del mezzogiorno replicarono a quelle critiche e a quelle accuse, esponendo lo status rerum e dimostrando che i collegi e il partito da loro rappresentato avevano ottenuto ciò che ragionevolmente potevano chiedere ed aspettarsi. Gli accusati in appello Ma l’Alto Adige non menò buoni i loro argomenti. Pubblicando quegli articoli, la prima e la seconda volta vi fece eseguire delle chiose che avevano qualche sapore canzonatorio; la terza poi, perdute le staffe, intersecò le sue chiose piccanti e le sue staffilate fra un periodo e l’altro dell’onorevole prosa, facendola letteralmente in brani. Fu una fortuna per i deputati liberali alla Dieta che la riforma elettorale dovette esser subito votata giusta il compromesso faticosamente raggiunto fra i vari partiti. Se fosse stata sospesa e rimessa ad altra tornata dietale, avrebbero pigliata dai padroni dell’Alto Adige una lavata di cuffia come un ragazzo colto in flagrante dall’iracondo pedagogo e per salvarsi la pelle, avrebbero dovuto rimangiarsi le loro decisioni, precisamente come nella questione di Fiemme. Che edificante spettacolo sarebbe stato vederli un’altra volta dichiarare indiscutibili, dannose alla causa nazionale, esiziali al popolo e al paese le proposte da loro stessi fatte od accettate! Ma l’avverso fato non volle concedere al Trentino questo raro esempio di abnegazione e soggezione dei rappresentanti della coltura e del censo sotto la scuola dei novelli pascià; e quella parte del pubblico che, invece di ammirare ed apprendere, osserva e ride, dovette contentarsi dell’esilarante spettacolo dei deputati del mezzogiorno pigliati dall’Alto Adige per le orecchie e del biasimo inflitto abbastanza chiaramente da quel foglio alla deputazione liberale, dichiarata rea di non affiatarsi col partito, o, ciò che sarebbe stato più giusto, colla sublime porta di via Dordi. Era chiaro perciò che gli accusati cercassero di giustificarsi, non presso il giudice che ormai aveva pronunciato ex catedra la loro condanna, ma presso il tribunale degli elettori che non fossero disposti a riconoscere l’infallibilità dell’Alto Adige. Infatti sembra che anche nel campo liberale vi siano degli indisciplinati e dei ribelli che non riconoscono al giornale di Trento il diritto di ultima e inappellabile istanza con quell’altro, annesso e connesso, di rompere la verga addosso agli eletti del paese e di mandar loro in busta aperta il laccio d’oro per farsi quella tal funzione. L’eclissi di un deputato Ma la conferma dell’on. Pinalli, assumeva ai nostri occhi un’importanza maggiore per un altro motivo. Nell’adunanza dell’Associazione nazionale liberale, tenuta ai 16 novembre nella sala del Municipio di Trento , per prendere delle decisioni nella questione di Fiemme, aveva preso la parola anche lui, per rispondere a «certi attacchi». Quello però che riferì l’Alto Adige, fu cosa sì magra che ci acuì il desiderio di sentire un pochino di più, e, in attesa, ci fece sospendere gli apprezzamenti e la risposta, finché l’on. Pinalli avesse sciolta la voce nell’adunanza di Rovereto, dove avrebbe dominato esclusivamente il campo e avrebbe avuto maggior agio di spiegare il suo volo. Lo diciamo subito: restammo amaramente delusi. Benché l’on. Pinalli sia noto dalla Marmolada alle onde del Garda, come colui che mise sul tappeto la formale proposta della Egna-Predazzo e della Lavis-Cembra, né a Trento né a Rovereto disse verbo della sua persona, che anzi si eclissò modestamente e si nascose dietro i «deputati liberali» e i «deputati italiani». Buono per l’on. Pinalli che vi sono troppi testimoni del suo atto storico, e buono che lui stesso, durante l’ultima tornata dietale, chiamato ad limina dell’Alto Adige, riconobbe la paternità della celebre proposta, per quanto, anche allora, cercasse di diminuire la gloria, riducendola a una «mossa tattica». Se ci mancassero sì validi argomenti, vi sarebbe pericolo che di qui a mille anni gli storici del paese, incaricati di eternare e canonizzare gli uomini celebri, lo spogliassero di un’aureola che nessuno gli può contestare. Intanto, per il nostro rispetto alla verità e per la cura gelosa che abbiamo di tributare il suo onore a ciascuno, anche agli uomini di altro partito, eccoci costretti a mettere in luce tutto il valore della proposta Pinalli. È un’opera di riparazione – di riabilitazione, direbbesi con voce elegante – di cui sentiamo il dovere, anche se non avessimo a raccoglierne gratitudine. «La proposta Pinalli» E per cominciare assodiamo il fatto che la proposta Egna-Predazzo e Lavis-Cembra si può dire bensì una proposta dei «deputati italiani» e dei «deputati liberali», perché questi la accettarono; ma non cessa perciò di essere la «proposta Pinalli», perché fu lui che formalmente la presentò e come tale fu messa ai voti e approvata. Ma fu una «mossa tattica», soggiunge il proponente. Una «mossa tattica»? La modestia e l’umiltà stanno bene e sono due grandi virtù; ma per essere tali non devono contrastare colla verità né intaccare l’onore, sia pur quello di chi ama rimpicciolirsi e scomparire. Ora il Trentino espose già largamente durante la sessione dietale che la proposta Pinalli non era una «mossa tattica», ma una proposta molto seria e se fosse stata accettata nel modo voluto dagli italiani avrebbe avuto anche da essi il voto nella tornata dietale del 1912. Tanto vero che l’on. d.r Conci fu incaricato di estendere la formola della dichiarazione che, in proposito, i deputati italiani chiederanno al Governo centrale; e questa formola fu consegnata al Luogotenente bar. Spiegelfeld perché la trasmettesse al Ministero; e se il bar. Spiegelfeld, contrariamente all’impegno preso, non l’avesse modificata, sopprimendo la condizione che i tedeschi fossero esclusi dalla concessione della Egna-Predazzo, se il Governo centrale non avesse per di più ridotta a un enigma egiziano la parte riguardante la Lavis-Cembra, se infine i tedeschi – messi a cognizione dal Luogotenente stesso di questa sfavorevole risposta – non ne avessero preso coraggio a esagerare le loro pretese; se tutto questo non fosse avvenuto, gli italiani non potevano correttamente e onestamente far altro che votare ciò che essi stessi avevano domandato, e a nessuno di essi passò nemmeno per testa di avere semplicemente giocato o di mancare alla correttezza e all’onestà. La proposta della cosiddetta «mossa tattica» Del resto il gioco o la «mossa tattica» sarebbero stati in se stessi altamente riprovevoli per chiunque avesse ritenuto che la proposta Pinalli fosse intrinsecamente cattiva e dannosa agli interessi del paese. Ammettiamo per un momento che la Egna-Predazzo e la Lavis-Cembra siano quel mostro, quella sciagura, quel tradimento che da più di un anno va dicendo l’Alto Adige. Si può, sia pure per «mossa tattica», proporre ai colleghi di deputazione la macchia, la vergogna, la dedizione del proprio paese? Peggio ancora: si può manifestare e proporre tanta iniquità agli stessi avversari, ai tedeschi? Che nome meriterebbe tale azione? Non basta: si può incaricare un collega di mettere in carta l’obbrobriosa proposta, di consegnarla al governatore della provincia, di farla arrivare al Ministero, prolungando intanto le trattative con i partiti e tenendo aperta la Dieta, in attesa della risposta? Qual’è quella persona normale, seria, coscienziosa che si prenderebbe la libertà di fare tali cose per gioco, per una «mossa tattica»? Ma intanto i tedeschi, il Governatore, il Ministero pigliano le cose molto sul serio. E se tutti questi fattori avessero tosto accettata la proposta Pinalli, votata dagli italiani, raccomandata al Luogotenente se, tedeschi, Luogotenente e Ministero avessero accettata la proposta Pinalli, con che coraggio il proponente e gli altri deputati italiani avrebbero risposto: «Scusate; non fu che una commedia: volevamo soltanto vedere fin dove giunge la vostra intransigenza; ma giacchè vi dimostrate arrendevoli, dobbiamo dirvi che la proposta da noi presentata, sostenuta e caldeggiata è un disonore, un disastro, un tradimento del Trentino e vi rigettiamo in faccia la vostra accettazione!» Simili uomini potrebbero più trattare con altri partiti o col Governo? Sarebbero nemmeno più accettati, quando battessero alla porta? E avrebbero l’ardire di battervi? Si può essere pochi, deboli e bisognosi; ma ad una cosa ci tiene un rappresentante politico: alla sincerità e alla serietà, che sono il suo precipuo capitale. Per la verità e la sincerità politica Ci rincresce dover dire tali cose; ma è ora che cessi l’indegno spettacolo al quale il Trentino assiste da troppo tempo. È ora che cessi questa «tattica» di svisare o negare i fatti per liberarsi dalle responsabilità assunte, per riversarle esclusivamente su altri ed esporre questi come carne da macello ai morsi d’una banda idrofoba. Si dica la verità. I liberali si rimangiarono la proposta Pinalli, bollandola col marchio d’infamia. Con ciò bollarono se stessi, perché una proposta vituperosa ed esiziale non si può fare né per tattica né sul serio. Nessun deputato può offrire neanche in ischerzo la dedizione e prostituzione della patria: come nessun figlio può contrattare la prostituzione della madre e cavarsela dicendo che era una «mossa tattica». La mossa era vagliata, ponderata, positiva, impegnativa. Le ragioni determinanti furono queste: che i trentini non erano capaci di costruire con i propri danari l’avisiana; che governo e tedeschi liberali a nessun patto concedevano nemmeno la Lavis-Grumes; che i fiemmazzi volevano la Egna-Predazzo e che vi era pericolo di perderli politicamente e di esporli alle insidie dei germanizzatori, se si fosse impedita la ferrovia da loro voluta. Quest’ultime sono le «gravi conseguenze nazionali» cui alluse l’on. Pinalli a Trento e a Rovereto. Di fronte a tali ragioni, l’on. Pinalli propose e la deputazione italiana accettò la soluzione Egna-Predazzo e Lavis-Cembra. I radicali di Trento non ne furono contenti. Essi lavorarono finché la deputazione liberale humiliter se subiicit et opus reprobant. È affar loro. Ma diventa affar nostro, se i liberali tentano di negare o voltare in gioco quanto proposero, decisero e fecero; se, di ciò non contenti, i loro tirannelli e i loro adepti vogliono rigettare sui popolari anche le loro responsabilità; se, per combattere la proposta Pinalli, si attacca l’onestà dei nostri uomini e si perseguitano le nostre istituzioni in cui sono raccolti tanti interessi di agricoltori e famiglie trentine; se non si rifugge da alcun’arte per danneggiarle e, se fosse possibile, abbatterle; se si entra in lega con ogni filibustiere; se si combatte a sangue una lotta fratricida, degna delle sette più accanite e obbrobriose. Non si creda di intimidirci con tali sistemi. Dio non paga il sabato, ma paga. Già da molte persone, estranee al nostro partito, udimmo esprimere la nausea per sì triste campagna, e non è la prima volta che i liberali, con i loro sistemi, feriscono se stessi e si preparano il proprio danno. Intanto noi, per parte nostra, non ci stancheremo di mostrare al pubblico con che arti si attacca il nostro partito e si cerca d’impedire che i deputati dei comuni rurali corrispondano ai desideri, ai bisogni, alla volontà dei loro elettori e dei loro collegi. Al momento opportuno, anche questi faranno sentire la loro voce, e non sarà colpa nostra se, dopo la campagna spietata condotta pur contro di loro, daranno la meritata risposta a chi, sotto pretesto di difendere la patria, la dilania e la conduce alla rovina colla politica più partigiana e coll’eterno gioco delle false accuse, delle proscrizioni e del nullismo.
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Confrontando il contegno dell’onorevole deputato di Trento con quello di una nota scrittrice del Popolo la signora E.B.B. , dovremmo purtroppo assegnare al sesso debole la palma della sincerità, della franchezza e del coraggio. La signora E.B.B. non si peritò di dire il fatto loro ai liberali, anche a costo di mettersi in contradizione coll’on. deputato che pochi giorni prima, nello stesso giornale s’era genuflesso ai loro piedi, e, dopo averli accusati a Vienna di essere devoti del «Dio Prendi» e di essersi intruppati con una «banda guidata da vescovi e prelati», faceva ampia ritrattazione ed umile ammenda del suo temerario peccato. Si sarebbe potuto aspettarsi che dopo l’esempio virile della donna, l’onorevole deputato di Trento si fosse riscosso e avesse finalmente trovato l’animo di stampare almeno nel Popolo – dopo un mese e più di aspettativa – il tenore preciso del discorso da lui pronunziato al Parlamento, con quelle quattro staffilate da far levare le berze ai colendissimi rappresentanti della borghesia. Ma nemmeno i buoni esempi di casa propria valsero a riconfortarlo. Egli è che il vizio è di vecchia data. Fu già osservato che anche durante la riforma elettorale della provincia, il Popolo e il suo direttore tennero un contegno assai strano. Che bella occasione di tuonare contro i liberali che rifiutavano il limite di 5 corone voluto dai popolari, per concedere il voto agli elettori nella curia cittadina del censo! I liberali, invece di cinque corone, dapprincipio ne volevano addirittura 20, e infine, di buono o mal grado, si accontentarono di 10. Che bazza per un capoccia rosso, per un tribuno socialista! Eccola là la piovra borghese! Succhia il sangue dei proletari e poi li deruba del voto! E qui immaginatevi l’amplificazione, gli improperii, la perorazione, seguita dalle sassate ai fanali, mentre l’oratore, dopo essersi reso benemerito degli operai coll’energico appello contro i ladri in guanti gialli, guadagna la riconoscenza dei borghesi, sgridando i violenti e difendendo la calma, l’ordine, la proprietà contro lo sdegno della plebe che istintivamente si ribella. Vi sarebbe anche stato da discorrere sul modo di assegnare i mandati cittadini e di eleggere i deputati; e qui pure l’irruente parola avrebbe potuto spaziare per vasti campi e mietere fasci di vittime... Ma è inutile perdersi in fantasie. L’onorevole deputato di Trento, come fu rilevato più volte, aveva ben altro per testa, e si affannava per la riforma elettorale poco più che l’Eccellenza del Giusti per il «romanzetto» manzoniano. Che fa il nesci, Eccellenza? O non l’ha letto? Ah intendo, il suo cervel, Dio lo riposi, In tutt’altre faccende affacendato, A questa roba è morto e sotterrato . Così i liberali, senza tanti fracassi, poterono ottenere quasi interamente per Trento quell’assetto che accomodava ai loro interessi. Il leone si svegliò, quando i buoi erano fuori dalla stalla; e manco a dirlo, i buoi si comportarono da pari loro, facendo le viste di non accorgersi dei ruggiti e delle insolenze che, a rispettosa distanza, mandava lor dietro la terribile belva. Tanto e tanto dell’onore cale lor poco; e quanto al resto, conoscono troppo bene l’innocua ferocia del re della foresta, e sanno, come lo sa lui, che alla fin fine sarebbe in loro facoltà ridurlo all’impotenza o, per dirla con metafora dantesca, allontanare l’erba dal becco. Anzi, non occorrono nemmeno mezzi sì radicali. Per mettere l’eroe nell’impiccio, basta molto meno. Ponete caso che nella questione di Fiemme o in quella dell’autonomia, gli venisse il malconcio pensiero di far giudizio. Ma sarebbe egli capace di tollerare che qualche altro, dinanzi alla turba sovrana, acquistasse la nomea di essere, almeno a parole, più ardito, più temerario, più battagliero, più feroce di lui? Sarebbe un suicidio e nessuno è obbligato a farsi la pelle. Prova di ciò: la storia del 1902 . Anche questa fu toccata parecchie volte; ma oggi vogliamo esporla un po’ diffusamente e documentarla negli atti principali. PROLOGO La commissione dietale, nominata a tale scopo, elabora un progetto di autonomia. I deputati decidono di sottoporlo, prima della votazione, al voto del popolo sovrano. In preparazione ai comizii, la libera stampa dà i ben parsi consigli e ammonimenti a Sua Maestà. ATTO I. L’Alto Adige reca un’intervista con un deputato liberale di cui non fa il nome. L’onorevole è del parere di accettare, e dice «Se in passato non si fosse adottato il principio del «tutto o niente» (1), l’autonomia amministrativa sarebbe oggidì realizzata su più larga scala di quello che noi stessi chiediamo. Per poter camminare, conviene fare i primi passi». (Alto Adige dei 10-11 luglio 1902, n. 155). Il Popolo reca un articolo di fondo, intitolato «Verso la soluzione!» Porta la trasparente sigla c.b. Aprite dunque la bocca, trattenete il fiato e... ascoltate! Esso dice «C’è la questione dei confini che ai più non garberà. Essa però, per quanto possa esser ostica, non suona offesa ai diritti degli italiani, perché il Trentino nulla deve avere in contrario a lasciare al Tirolo i pochi paesi tedeschi di confine, mentre Fassa che è ladina, non viene staccata dal corpo del paese, e soltanto rimarrebbe nello status quo assieme ad Ampezzo e Livinallongo sotto la comune amministrazione» (Popolo dei 10 luglio 1902, n. 670). I «più» si stropiccieranno gli occhi al leggere questa prosa, e si chiederanno se è veramente del Popolo e se per giunta è segnata col c.b., sigla dell’onorevole deputato nazionale-socialista di Trento. Signori sì! Proprio così! Non avete niente affatto le traveggole; non vi siete per nulla ingannati: quelli erano i sentimenti del signor d.r. Cesare Battisti. ATTO II. Nel Popolo si apre una pubblica discussione. Si fa sentire, naturalmente anche il no! Ma Cesare è lì, sugli spaldi duro, fiero, reciso e intima: «Sì! «Che il paese cominci a gustare i vantaggi di una semiautonomia e vorrà certo l’autonomia completa. Per questo, sabato sera io (e molti compagni della città s’accordano con me) voterò: Si». Firmato: c. b. E qui, prima di progredire, ci si permetta di fare una breve chiosa. Il mestiere del profeta è un brutto mestiere, guai se non l’imbercia! Ma il signor Cesare, quando annunziava nel Popolo come avrebbe votato in un pubblico comizio sulla questione dell’autonomia, non faceva il profeta; egli annunziava un proposito fermo, basato su ragioni di convenienza e di utilità, chiaramente esposte. Che si ha da dire in questo caso, se i fatti smentiscono la predizione! Ne va di mezzo l’antiveggenza o qualche cosa di più grave! ATTO III. Il Popolo di sabato torna sulla questione di Fassa. La sua voce non è più tonante, è però sempre ferma. Udiamola. «Fassa è l’incudine su cui martellano i fautori del no e noi non diremo che sia l’ideale nostro la soluzione escogitata per Fassa. Ma non è una soluzione disonorante, e se per noi il ritenere zona neutra la ladina valle di Fassa su cui domina l’influenza italiana, è una diminutio capitis, potremo ben consolarci col dire che una eguale diminutio subiscono i tirolesi col mettere nelle identiche condizioni Livinallongo e Ampezzo, due distretti sui quali si è ormai è allargata l’influenza germanica». E sotto un «Votiamo sì» si legge ancora: «Con questo titolo ci manda un articolo l’amico Piscel di Rovereto. Ci manca lo spazio per pubblicarlo oggi. Sarà per lunedì» (2). ATTO IV. (L’azione si svolge nel foro Trentino, vale a dire nel cortile del municipio di Trento. I cittadini elettori, consci della loro inalienabile sovranità, sono chiamati a dettare ai deputati il verbo. Dal dì che la borghesia liberale infranse le catene dei popoli e li redense dai tiranni, conta fra gli elettori della Dieta ognuno che paghi la miseria di 20 corone d’imposta diretta. Si vede però che le «masse» borghesi sono infrollite. Il concorso è scarso. Segno dei tempi, affluiscono invece i giovanotti che sono stanchi del «connubio chierico-moderato», che vogliono «schiacciare i rospi» e fanno l’occhio di triglia ai seggi municipali e dietali. Con loro si riversano sullo storico terreno operai reduci dall’officina, garzoni con un paio di scarpe sotto il braccio – è giorno di sabato –: ragazzi che hanno disertato i viali del Fersina o piazza Dante, per partecipare al raro spettacolo di indettare gli onorevoli deputati e giocare al «paese»). N.B. Per brevità si riduce la scena a due soli personaggi. Bertolini : «Bisogna... studiare le condizioni dei partiti tedeschi. Non credo che sotto la pressione dell’ostruzionismo accorderanno in seguito più di quanto hanno accordato. Non bisogna dimenticare che i tedeschi nella loro grande maggioranza ci sono avversi. Se hanno ceduto ora, lo si deve più specialmente alla pressione del governo. Ne traggano gli elettori la morale che vogliono da questo dato di fatto; ma non lo dimentichino!... nel 1873 fu presentato un progetto d’autonomia migliore dell’attuale. Ma si volle di più e di meglio... E siamo nelle condizioni in cui ci troviamo». (Secondo la relazione dell’Alto Adige dei 14-15 luglio 1902). I «giovani liberali», i garzoni, i moretti, la «città»: No, no! Non vogliamo questo progetto d’autonomia! Battisti. Nel partito socialista v’erano due correnti, una per il no, l’altra per il sì. Ma dopo il grido di Fassa, dopo la manifestazione energica e battagliera del comizio, come non cambiare il sì per il no? Naturalmente a un patto: che il no sia impegno di iniziare nel paese un’agitazione, autonomistica più seria, più energica... (Vedi Popolo e Voce cattolica dei 14 luglio 1902). I «giovani liberali», gli apprendisti, i moretti ecc.: Sì, sì! Bene! Bravo! Un critico: Altro che votar de sì! Che schiramela! Un vicino: Te vorai dir: che tombola! Un terzo: Vardè come che fè a parlar: gh’è libertà per tutti, ma podè ciapar quatro clochi. Un quarto: Questo l’è n’omo! Se l’à magnà la foia! Vederè che ‘l deventa ancora podestà o deputato. Il critico: Sì, sì tel digo mi: en spetar en pez. Gh’è ben dei altri che ghe tende! Il quarto: No te dirai per altro che nol sa far. Se ‘l te li zuga e come el se la cava! Il critico: Sì, sì tel digo mi, en coraggio da leon! INTERMEZZO. Dura dal 12 luglio 1902 ai 6 novembre 1913. Il pubblico trentino aspetta che socialisti e liberali sviluppino quell’agitazione autonomistica più seria e più energica, la cui speranza arrestò Cesare al passaggio del Rubicone, gli fece fare il gran rifiuto e contentarsi del nulla. Ma il pubblico ha un bell’aspettare... «Lunga premessa con attender corto...». ATTO V. È il giorno 6 novembre 1913. Siamo alla Camera dei deputati a Vienna. Sala delle sedute. Nel centro, su all’estrema montagna siede l’on. d.r. Cesare Battisti. Ci ha messo parecchio, ma alla fine è giunto. Ma, ahimè! come mutato da quello che prometteva l’aurora! Ombre di Mameli, di Mazzini e Garibaldi, e voi ombre dei patrioti trentini, copritevi il volto! Egli siede accanto a Oliva e a Pittoni, a colui che la stampa nazionale ha così spesso designato come amico e manutengolo del famoso principe Hohenlohe. Anzi Pittoni è il capo immediato di Cesare! E non è ancor tutto. Battisti, Oliva e Pittoni sono ospiti del club socialista tedesco! Il loro capo supremo è il d.r. Adler, l’ispiratore dell’internazionale Arbeiterzeitung: Povero Cesare! Che cambiamenti devono essere successi! Nel 1902 la Arbeiter Zeitung lo bollava perché invece di seguire il programma autonomista di Brünn, aizzava le passioni nazionaliste della borghesia radicale. Poi fu perfino cacciato dal partito: ma ora è ritornato in grazia. Ed è quel partito che testè decise di votare contro l’apertura della discussione sulla risposta data dal presidente dei ministri circa i decreti del principe rosso, il governatore di Trieste! Povero Cesare! Ma ecco che è venuta la volta di parlare. Egli si alza e comincia a leggere non senza fatica un plico di cartelle, scritte nella dolce lingua dell’«ja». Pochi compagni ascoltano le invettive che lancia contro clericali e liberali trentini. A prendere le sue parole sul serio, sono tutti gente losca e disonesta. Non si capisce com’egli a Trento possa stringere la mano ai borghesi dell’Alto Adige. Niente paura! Farà perfino stampare da questo valoroso giornale il suo discorso. S’intende senza gli epiteti per i liberali. «No te dirai che nol sa far» ripeterebbe malignamente quella linguaccia che udimmo di sopra ai 12 luglio 1902 nel cortile del municipio di Trento. Ma ecco che Cesare viene a parlare dell’autonomia. Forse che egli narra le gloriose gesta compiute da lui e dai radicali negli undici anni trascorsi da quel comizio al giorno d’oggi? Forse che rileva i grandiosi successi ottenuti col metodo del «tutto o nulla»? E addita al mondo stupefatto la provincia autonoma del Trentino? Nemmeno per sogno! Egli piange sull’arenamento della questione autonomistica. E di chi la colpa? Ah, non sua e non dei radicali! Dopo aver pronunziato quel no ai 12 luglio del 1902, essi erano pronti a logorarsi giorno e notte i garetti e i polmoni per predicare in tutto il mondo la buona novella; ma quei perversi di «clericali» ne impedirono l’opera col «triste sistema di una colossale generosità nelle elargizioni dietali» e colla soggezione «a ogni cenno del governo». Canaglie di «clericali»! Cosa volete che facciano Cesare e i suoi amici, se i clericali per soggezione al governo stanno zitti e, peggio ancora, fanno piovere danari su Trentino? Altro non resta a quei zelanti apostoli, se non denunziare al Parlamento chi sono gli iniqui per cui colpa radicali e socialisti sono messi nell’impossibilità di svolgere la propaganda autonomistica giurata nel cortile municipale di Trento, colla triste conseguenza che dal «nulla» non si vede mai uscire il «tutto». I pochi compagni che ascoltano il desolato Cesare, tacciono compunti al sentire tanta sciagura. Le cariatidi della sala, che per trent’anni di paziente, ininterrotta attenzione, la sanno molto lunga, in un assalto d’ilarità, perdono l’abituale serio contegno e fanno risuonare di risa incomposte l’aria monotona e deserta. EPILOGO. Mentre le cartelle tedesche pigliano il viaggio per l’ufficio del protocollo stenografico, le cartelle italiane mettono in moto le macchine compositrici del Popolo e dell’Alto Adige. Il resto è noto al pubblico. Se a Vienna risero le cariatidi, a Trento e nel Trentino ridono le galline. Ma l’Alto Adige sta zitto, e anche Cesare si ostina nel silenzio. No, egli non passerà il Rubicone. Non lo passò nel luglio del 1902, non lo passò nell’autunno del 1913; neanche quest’inverno lo passerà. 1) Purtroppo in quei giorni l’odierno articolista dell’Alto Adige che mette fra le «leggende» e le «favole» la «politica del tutto o niente», era affaccendato nel preparare col «niente» il fecondo germe del «tutto»; altrimenti non avrebbe tralasciato di brandire la penna e dare del vile mentitore al deputato liberale o del scervellato all’Alto Adige che ne riferiva, senza ribattere verbo, le calunniose invenzioni! 2) Quel lunedì non è ancor venuto. Forse verrà, quando il Popolo si deciderà a stampare nel testo completo il discorso tenuto al Parlamento dal dr. Battisti in data 6 novembre 1913.
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Un altro anno è passato: anno di lavoro e di lotte, come facilmente ricordano i lettori e come possono ancor più persuadersi scorrendo la rivista della vita pubblica trentina nel 1913, che pubblichiamo in questo numero. Forse mai l’accanimento degli avversari contro il nostro indirizzo, le nostre opere, il nostro partito raggiunse tanta acutezza, che troppo spesso parve e fu un vero parossismo. Noi abbiamo la coscienza di avere compiuto anche in momenti sì difficili e turbolenti il nostro dovere. D’accordo con le nostre organizzazioni e coi nostri rappresentanti, noi sentiamo di avere mirato in faccia la realtà delle cose, di avere scrupolosamente vagliato che cosa richieda il bene del nostro paese, di avere con tutta l’energia, ma nello stesso tempo con onestà e senza trascendere i limiti della discussione oggettiva, senza abbassarci alla viltà della lotta personale, sostenuto ciò che la convinzione più profonda ci dettava. È ora che anche nel Trentino si abbandonino definitivamente le vuote parole, e si faccia una politica seria che tenga conto dei desideri del popolo, dei veri bisogni dei possibili successi; anziché ubbriacarsi di vani fantasmi e correre alla rovina economica e nazionale colla disastrosa tattica del nullismo. Nell’adempimento del nostro dovere – lo ricordiamo con orgoglio e con gratitudine – ci sorresse il consenso e l’incoraggiamento delle nostre valli e dell’immensa maggioranza del paese. Se i nostri consenzienti non amano le continue, rumorose dimostrazioni, con cui gruppi ristretti tentano di apparire legione, non sono però meno saldi e meno forti nei propositi seriamente pensati ed abbracciati, né cessano di essere e rappresentare il vero, il numeroso, il laborioso popolo trentino, che respinge le dittature di infauste fazioni, nella ferma volontà di serbarsi libero e di provvedere sanamente ai propri destini. Forti di questo valido appoggio, profondamente convinti della bontà della nostra causa, continueremo anche nell’anno nuovo l’opera cominciata, qualunque siano le difficoltà che ci traversassero la via. Sarà primo nostro pensiero propugnare costantemente i supremi principi religiosi dai quali il nostro popolo trasse per tanti secoli e trae pur ora la sua forza vitale. La purezza e la saldezza di questi principi sarà il vanto al quale sopra tutto aspireremo e saremo lieti di difendere e appoggiare ogni azione che tenga a conservarli e invigorirli. Insieme cogli uomini nostri e colle nostre associazioni, cercheremo altresì di promuovere la coltura e tutti gli interessi economici di questa terra, piccola e bisognosa, ma che è ricca di tante energie ed è oggetto di vivo, indomito amore. I lettori, i collaboratori, gli amici, ai quali tutti inviamo grazie cordiali e i più fervidi auguri, ci siano sempre fedeli. Sempre avanti! Al lavoro arriderà il successo e la vittoria!
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[...] «Se questa sera fossimo radunati a celebrare un giubileo segnato dal tempo, nelle parole di un brindisi vibrerebbe sotto gli accenti festivi anche la nota malinconica e forse, oratore mal pratico come sono io, non saprei evitare la resonanza dell’elogio funebre. Ma oggi festeggiamo non l’estensione ma l’intensità di una vita e se vogliamo rallegrarci, ricordando, del molto cammino percorso, lo facciamo sostando in mezzo alla via in atto di procedere, perché sappiamo di celebrare un’energia non infiacchita, una visione non turbata, una volontà decisa di andare avanti. Così questa sera brindando al passato, brindiamo ad un tempo all’avvenire. Ricordando i tempi in cui Don Gentili all’alba appena della nostra giornata cattolico-sociale fu giornalista e conferenziere, propagandista e organizzatore, noi auspichiamo il pieno meriggio in cui mons. Gentili veda per l’opera sua e dei suoi amici i progressi e la diffusione della stampa nostra quale egli, nell’impeto del giovanile desiderio del bene, deve avere sognato, veda il trionfo delle associazioni, a cui ha dato impulso od opera, e su questo paese al cui risorgimento ha dedicato tutta la bellezza della sua intelligenza e tutta la meravigliosa fibra di lavoratore, veda splendere in un dominio glorioso il sole della democrazia cristiana. Ben sappiamo, o amici, che questo è l’augurio migliore che gli possiamo fare, e che è l’unico premio, che la sua anima generosa poté ambire quaggiù. La sua fatica dura da quasi vent’anni, e furono l’una dopo l’altra giornate piene di sforzo, di sacrifizio, di prove, alternate da conforti, e noi che gli siamo cresciuti d’attorno ci siamo dovuti dire spesso la nostra meraviglia nel vedere questa gagliarda fibra rinvigorirsi innanzi alle difficoltà, questa mente divenir sempre più lucida in mezzo alle complicazioni e questa volontà ingigantire nella lotta più fiera. Ma più grande fu ancora la nostra ammirazione quando abbiamo visto che mano mano che cresceva le sua personalità scompariva la sua individualità e più si teneva nell’ombra l’individuo, perché sovratutto rifulgesse il principio e dominasse sola la causa, cui egli e noi siamo chiamati a servire. Ed ecco la ragione del nostro ossequio, ecco perché sentiamo ch’egli non solo nella carica, ma nello spirito, è il capo delle nostre associazioni cattoliche. Gli avversari hanno scritto come per ischerno che Don Gentili ci ha imposta la dittatura, tanto forse per confermare col Manzoni che il povero senno umano cozza spesso coi fantasmi creati da sé. Ma del resto comprendiamo la dispettosa meraviglia degli avversari nel vedere che noi benché siamo parchi per i nostri capi di aggettivi laudativi, di epiteta ornantia e di maiuscole, di elogi, epitaffi e mausolei, altrettanto siamo ricchi di disposizioni e di raccomandazioni per la disciplina, per la concordia. Signori, un dittatore non ha seguaci, ma servi, non collaboratori, ma meccanici esecutori. E noi tutti invece, quanti lavoriamo nel campo cattolico, siamo qui uomini liberi che oggi come altre volte nel nostro passato, nei momenti di debolezza o di differenza chiediamo al presidente del Comitato Diocesano la parola dell’incoraggiamento e della concordia; e l’abbiamo chiesta e la chiederemo a lui, non solo perché lo crediamo migliore di noi, ma perché l’insegnamento ch’egli ci dà lo fa risalire alla Chiesa, al nostro Vescovo, al Papa, nei quali egli ci addita di trovare le ragioni del nostro lavoro e della nostra disciplina. Sì che oggi noi possiamo esser lieti che l’onorificenza pontificia venga a dare espressione esteriore a quell’autorità di mons. Gentili, si basi sulla stima della sua persona e sul consenso al suo indirizzo. Amici! La vita militante dell’azione cattolica è un po’ vita di campo, lontana dal focolare domestico e dagli affetti familiari e oramai dall’uomo di vita pubblica il pubblico pretende che non viva se non per lui. Ma questa sera, poiché oltre che al capo vogliamo pur esprimere i nostri auguri, anche all’amico, a me pare di non poterlo far meglio che congiungendo alla sua persona che sta sul proscenio della vita pubblica il nome venerato di un’altra che sta nell’ombra ma alla quale egli è congiunto da tenerissimo affetto. Penso alla sua mamma ottuagenaria e mandando il pensiero riverente a Lei, nell’occasione che festeggiamo il figlio, mi pare d’includere nell’augurio l’uomo intiero, come venne alla ribalta per una umile vita di lavoro, come vive nella modestia della sua distinta posizione sociale, come auguriamo sia felice nei lunghi anni che rimarrà l’orgoglio di Lei e l’orgoglio nostro».
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II. Mozione delle Istituzioni cittadine per la tramvia di Fiemme […] Il Cons. D.r Alcide Degasperi non crede necessario entrare nel merito della questione, tanto più che la discussione si limitò a criteri del tutto generali. Crede che nel proprio interesse la città di Trento possa insistere per la sua congiunzione con la Valle di Fiemme e per una soluzione migliorata del progetto governativo, ma per parlare di tattica non è d’accordo nell’uso di certe frasi o nella pronuncia di certe condanne, le quali possono provocare reazioni dannose, trovandoci in un campo di conflitto d’interessi . Per proprio conto egli non assumerebbe le responsabilità di una tattica dimostrativa. […]
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III. Deliberazioni sulle dimissioni del Podestà e della Giunta municipale […] Il Cons. D.r Alcide Degasperi osserva che la dichiarazione presentata dai popolari, appunto essendo tale, non ha bisogno di votazione, ma chiede che venga messa a verbale . […]
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V. Cessione di suolo comunale in piazza Garzetti all’Unione Ginnastica […] Il Cons. D.r Alcide Degasperi dichiara che dalla discussione finora fatta egli deve dedurre che la questione merita ancora qualche studio e presenta perciò formale proposta di sospensiva. […] XV. Contributo per gli incendiati di Pinzolo […] Il Cons. Dr. Alcide Degasperi propone di raddoppiare il contributo nella presente gravissima disgrazia . […]
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Oggetto unico: nomina del podestà […] Il D.r Degasperi a nome della minoranza popolare si associa al ringraziamento rivolto all’uscente podestà per la sua opera nell’amministrazione cittadina e ricorda in modo particolare la sua benefica collaborazione per la riforma elettorale. La minoranza popolare si è oggi astenuta dalla votazione, non con riguardo alla persona del Conte Manci ma per il fatto che egli viene presentato e proposto come candidato di partito della maggioranza. […]
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I. Comunicazione della mancata conferma del conte Massimiliano Manci a Podestà . […] Il D.r Degasperi dichiara che per le preoccupazioni esposte dalla Giunta, la minoranza popolare voterà la proposta dalla stessa avanzata. […] Il D.r Degasperi dichiara che non venendo in votazione la proposta della Giunta la minoranza popolare si asterrà dal voto .
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Presso la Società privata della Ferrovia meridionale si è instaurata, negli ultimi tempi, la prassi di usare costantemente e in modo conseguente, nel traffico di beni e di merci per la stazione di Trento la denominazione, in precedenza solo occasionalmente usata, di Trient. Tale mutamento di nome ha spesso comportato confusioni con la stazione di Triest, tanto che i circoli commerciali e d’affari trentini da ciò danneggiati hanno dovuto ripetutamente e di comune accordo protestare contro la nuova prassi. La stessa tendenza si è manifestata in altre stazioni, come ad esempio a Neumarkt, dove il secondo nome «Egna» è scomparso, nonostante la circostanza che Egna sia la stazione di collegamento per la strada principale della Val di Fiemme e di Fassa e, più in generale, per l’intero territorio italiano delle Dolomiti. Al mutamento delle indicazioni sui cartelli ferroviari corrisponde naturalmente anche la segnalazione orale dei capotreni, i quali nell’annunciare le località bilingui citano solo il nome tedesco e, nelle stazioni italiane, annunciano il nome italiano solo in seconda istanza. Poiché questa prassi da una parte lede il sentimento nazionale degli Italiani e il loro diritto innato, ma d’altra parte porta anche inconvenienti nel traffico di persone e di beni, i sottoscritti rivolgono a Sua Eccellenza il signor ministro delle Ferrovie e a Sua Eccellenza il ministro del Commercio la domanda: «Sono i signori ministri delle Ferrovie e del Commercio disposti ad intervenire presso la Società privata della Ferrovia meridionale, affinché non vengano violati i diritti linguistici ed economici degli italiani ?»
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Grazie al ripetuto ed energico intervento dell’associazione operaia Unione segantina Fiemme (con sede nel Comune di Tesero) e in adesione alle relative disposizioni dell’ispettorato del lavoro di Trento, il capitanato distrettuale di Cavalese, in quanto autorità del lavoro di prima istanza nelle valli di Fiemme e di Fassa, ha già da sei anni introdotto alcune misure a favore dei segantini. Si è trattato, in primo luogo, dell’ampliamento e dell’adattamento degli alloggi degli operai che si trovavano per lo più in condizioni miserevoli e nocive per la salute. L’associazione ha ora ottenuto dal capitanato distrettuale di Bolzano le stesse misure anche per il suo territorio di competenza di Eggental, Welschnofen e Villnöß, potendo dimostrare che in 36 segherie di questo territorio non vengono tenute in alcun conto le disposizioni normative e le benché minime esigenze della protezione sul lavoro. Nonostante le proteste non si è però finora ottenuto in questo distretto nessun risultato e anzi notizie dal territorio confermano che gli imprenditori e i proprietari delle segherie semplicemente ignorano le prescrizioni ufficiali. I sottoscritti pongono perciò a Sua Eccellenza la domanda: «Se egli è disposto a operare sulle autorità politiche e del lavoro del distretto di Bolzano, affinché agli operai delle segherie sia assicurata la protezione che loro spetta per legge»
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21911-1915
La commissione politico-sociale s’è fatta già eco delle numerose lagnanze venute dall’applicazione della legge sulle pensioni degli impiegati privati in seguito agli aggravi sproporzionati che risultarono per gli iscritti ed alle deficienze veramente notevoli che si rivelarono nella pratica. In un loro recente congresso gl’impiegati privati del Trentino hanno formulato i criteri secondo i quali dal loro punto di vista desiderano venga fatta la novella legge nei termini seguenti: 1. Ribasso del 25 per cento sui premi di assicurazione. 2. Aumento dal 60 all’80 per cento del soldo di pensione. 3. Pensione a 35 anni di servizio. 4. Riduzione del termine d’attesa da 10 a 5 anni. 5. L’assicurato possa godere la pensione anche se si porta all’estero. 6. In caso di cessazione dell’obbligo d’assicurazione retrodatazione di tutti i premi pagati, detratto il 20 per cento dell’importo versato. 7. Aumento del contributo governativo fino al 2 per cento dei premi complessivi per ogni assicurato. 8. Concessione della pensione col giorno della dichiarata invalidità. 9. Libertà per l’impiegato in pensione di darsi a qualche occupazione con un guadagno anche superiore alle 600 Corone. Gli impiegati desiderano inoltre mutata in loro favore la ripartizione dei premi fra padroni ed addetti. Ora alcune di queste modificazioni vennero già discusse e deliberate dall’apposito sottocomitato della commissione politico-sociale, altre s’impongono di per sé perché significano l’abolizione di misure eccezionali che non esistono per gli impiegati, rispettivamente i pensionati governativi. Ma una è soprattutto di carattere urgente, quella espressa al punto 4 cioè la riduzione del termine d’attesa da 10 a 5 anni, perché al I gennaio 1914 sono già trascorsi i 5 anni per i moltissimi che sono iscritti al fondo pensioni dall’epoca della promulgazione della legge. E siccome il sottocomitato della commissione politico-sociale ha accolto appunto fra le modificazioni da introdursi subito – la riduzione del termine d’attesa a 5 anni, s’impone la necessità di sollecitare la trattazione della novella di legge. I sottoscritti si rivolgono quindi a Sua Eccellenza il ministro degli Interni per chiedere: «È disposto il governo a promuovere con sollecitudine la messa all’ordine del giorno della relazione del sottocomitato per la novella legge sulle pensioni degli impiegati privati, rispettivamente la trattazione nel pleno di tale riforma? Quale atteggiamento prende il governo di fronte ai postulati degli impiegati ed addetti, qui dentro accennati? »
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1,914
3Habsburg years
21911-1915
Stamane un signor capocomune di uno dei più piccoli e più alpestri comuni del mio collegio ha voluto assolutamente visitare il Parlamento. Ho tentato invano di dissuaderlo dal malsano proposito, ricordandogli, secondo il detto comune del saggio, che la curiosità è madre delle delusioni. Ma poi, giacchè lo sciagurato insisteva, mi sono risolto ad accompagnarlo. Il sole rompeva finalmente la lunga nebbia del mattino, quando mi sono avviato per il Franzenring col mio signor capocomune accanto. È un brav’uomo come ne abbiamo tanti: nessun studio, ma grande criterio, prontezza d’ingegno negli affari del giorno, ma nessuna coltura storica; cosicché la sua prima domanda mi ha posto subito in imbarazzo. Che cos’erano tutti quei carri a due ruote che sembrava prendessero la rincorsa sulla grande attica del Parlamento? e segnava le bighe di bronzo coi cavalli scalpitanti e le Vittorie che fendevano l’aria. Spiegai alla meglio, ed aggiunsi che tutto l’edifizio era un’imitazione di un monumentale palazzo dell’antica Grecia. Ed allora il signor capo a chiedermi perché si fosse costruita la sede del moderno Parlamento come il Partenone, perché gli ideatori di una cosa tanto nuova avessero riesumato un modello così vecchio e per quali ragioni si avesse creato un tale riavvicinamento fra Vienna e Atene? I viennesi e gli ateniesi – L’Austria e l’Ellade Ora ditemi voi, come avreste risposto ad una questione così indiscreta? Se non avessi saputo che un deputato non può mai esimersi dal rispondere ad un «grande elettore», avrei semplicemente taciuto. Ho dovuto invece, in omaggio alla prelodata massima, cercare una spiegazione. Sono salito così sulla rampa, cogli occhi a terra e la fronte corrugata, senza badare alle espressioni di ammirazione che sfuggivano al signor capo per la statua di Pallade Minerva coll’elmo dorato e la fontana monumentale colle personificazioni dei fiumi. Dall’alto, guardando verso la city, al di là del parco popolare spoglio e disseccato, al di là della Cupola nera della Corte, si vedeva spuntare il campanile di S. Stefano. Quella punta fu la mia salvezza. Essa mi ricordava un poeta viennese, il Denis, il quale in tempi procellosi aveva cantato l’eroismo e la grandezza dei suoi, paragonandoli ai Greci ed ai Romani, giurando anzi che i viennesi e l’Austria ne potevano ben sopportare il paragone. Scriveva dopo la pace di Campoformio ed esaltava la difesa nazionale contro le armi napoleoniche. Ma l’argomento più persuasivo, il punto d’attacco fra il mondo viennese e il mondo greco il poeta lo trovava in quella cima di campanile... Il viennese ambisce di rivedere la torre di S. Stefano come Ulisse il fumo di Itaca, cantava l’aulico cantore. – Ed ecco, caro signor capo – dissi anch’io a mo’ di conclusione – che i viennesi, sentendosi per la questione del campanile, pari agli abitanti dell’Ellade, ne hanno risuscitato i monumenti. Il mio grande elettore mi guardò stupefatto ed incredulo. – Non la soddisfa questa spiegazione? Crede che ci debbano essere delle ragioni più profonde? Può essere – soggiunsi per tagliar corto – ma io ho studiato la storia e la vita di questo popolo e, creda, non ne ho trovate altre. E senza lasciargli il tempo per ulteriori obiezioni, mi mossi per salire la maestosa gradinata che conduce sotto il Porticus dalle dodici colonne. Ma quando fui a metà sentii la voce del signor capo, che voleva sapere che ci stessero a fare quelle statue lungo la rampa, e segnava col dito i due romani a sinistra che ci voltavano la schiena. G. Cesare, Tacito e Sallustio al Parlamento Ah, quelli là sono due grand’uomini dell’antichità romana, caro capocomune, due storici, che fanno compagnia agli altri sei che vede lungo la rampata. Il primo è Giulio Cesare. Il pubblico moderno ricorda che mandò una volta un express al senato annunciandogli una grande vittoria colle parole: «veni, vidi, vici» e sono appunto le parole che il deputato giovane telegrafa al suo elettore, quando dopo una lunga battaglia col ministro, gli ha ottenuto una sovvenzione di cor. 100 per un orto esperimentale. Si ricorda poi anche a proposito di lui il detto: Cesar ad Rubiconem, perché, quando faceva il generale, si trovò innanzi alla grave risoluzione parlamentare di passare o non passare il confine oppostogli dal governo: ed è proprio lo stesso dubbio innanzi al quale si trovano spesso i deputati, quando si tratta di votare pro o contro il Ministero. Quanto a quest’altro che abbiamo qui vicino, e che guarda chi viene in su con l’aspetto così truce, si chiama Tacito ed è corrucciato perché l’umanità e sovratutto gli statisti austriaci dalla storia, proclamata da un suo illustre antecessore maestra della vita, non hanno imparato niente. – Grazie. Ma scusi, ancora una domanda. Quell’altro galantuomo che siede di fronte a Cesare perché ha invece quella faccia di cuor contento? – Domanda difficile, signor capo, né so risponderle che con supposizioni. Bisogna che sappia che si chiama Sallustio e credo che l’abbiano voluto metter lì i ministri nazionali della Galizia, forse perché, governando la Numidia, ne ricavò qualche milioncino per l’impianto dei famosi giardini sallustiani, o forse per una sua certa introduzione della storia di Giugurta, il quale pare fosse l’inventore del «fondo disposizioni». Ma venga, venga, signor capo, gli gridai questa volta risolutamente. Se Lei vuol fare la conoscenza delle settantasei statue che si vedono qui fuori, finiremo col non andar più dentro. E dopo una rapida spiegazione del grande mosaico policromo che sulla fronte del Porticus rappresenta la concessione della costituzione, salutati colla massima riverenza da un portiere stile Metternich e attraverso il portone di bronzo stile Erecteion, entrammo nel vestibolo. Gli uomini senza pregiudizi Il mio compagno rimase un momento stupefatto della ricchezza e della varietà dei marmi, dello splendore del soffitto a cassetta, della bellezza delle colonne ioniche, e già mi lusingavo di distrarre la sua attenzione dai mosaici e dalle statue, facendogli far la conoscenza coi monoliti trentini (unico sasso che ricordi la patria), e il brav’uomo mi ascoltò attentamente; ma poi indicando con un largo gesto della mano le dieci nicchie colle statue di Giove, Apollo, Marte, Mercurio, Minerva, Diana e gli altri dei dell’Olimpo, mi domandò come chi vuole risolutamente sapere: Chi sono e che fanno qui? – Ah, dissi io, sono dei morti! Non vede com’hanno la faccia gialla e gli occhi chiusi? Sono i cadaveri degli dei antichi. Il pubblico, passando di qui ha da vedere che i vecchi idoli li abbiamo sepolti. Che importa a noi delle assemblee, dei consigli e delle decisioni dell’Olimpo? I moderni rappresentanti del popolo non citano sul terreno né Giove né i suoi consiglieri di governo, come facevano gli eroi d’Omero e di Virgilio. Guardi un po’ questo deputato dall’ampia zazzera, aggiunsi sottovoce al capocomune mettendogli la mano sulla spalla e indicandogli l’on. Zenker che ci passava d’accanto per entrare nel peristilio; egli è il prototipo dell’uomo moderno senza pregiudizi, che ha spento le stelle in cielo e passa via, scuotendo l’abbondante crine, lasciando dietro a sé le ombre del passato e marciando verso la vita, colla coscienza di chi è chiamato a determinare i destini dei popoli. Andiamo anche noi verso la vita. E attraversammo l’atrio. Nel peristilio Il peristilio è veramente una sala magnifica. Quando sbucate dai corridoi degli intrighi parlamentari o dal teatro delle discussioni in quest’ampio salone, pieno d’aria, di luce e di colori, vi pare per un momento di sfuggire alle angustie della realtà. Ventiquattro colonne coi capitelli corinzi dorati sostengono il soffitto che è ai lati a cassettoni dipinti in oro ed azzurro ed in mezzo si eleva una vetrata, adorna di bronzee ramificazioni di edera. Le pareti sono ricche in basso di marmo nero del Belgio, più in su di una larga fascia di pavonazzo, più in su ancora e intorno intorno per tutta la sala si vedono da poco i dipinti di Lebiedzki che ricordano nella figurazione classica l’agricoltura, la caccia, la pesca, la pastorizia, l’industria, il commercio, tutti gli interessi economici insomma di cui dovrebbe occuparsi la legislazione parlamentare. Ci sono certe ore del giorno però in cui il peristilio non è proprio luogo per la quiete o le considerazioni ideali. E stamane, quando siamo entrati noi era appunto l’ora critica! In un canto alcuni deputati discutevano sulle sorti della prammatica coi rappresentanti d’una società d’impiegati, in un altro un deputato influente arringava una deputazione di provinciali in tuba lustra e guanti neri, ch’evidentemente si preparava ad un’udienza ministeriale, più giù tre contadini presentavano un memoriale ad un deputato agrario, due bisunti operai polacchi si stringevano attorno all’on. Daszinki che pareva tentasse invano di liberarsi dalla stretta, più in là un rabbino passeggiava gravemente con l’on. Kuranda, più in là ancora altri gruppi che discutevano animatamente aspettando, pronti all’attacco, quando il ricercato sbucasse da una delle dieci porte, che s’aprono sul salone centrale. Una sola specie di persone passava e ripassava accanto, e attraverso questi raggruppamenti in continua trasformazione, con una cert’aria di ironica superiorità. Il mio capocomune, uomo che in occasioni consimili, cioè sui mercati mensili del suo paese ed alla fiera di S. Giuseppe a Trento aveva imparato a leggere le fisionomie degli uomini, notò subito la differenza e me ne chiese la spiegazione. Le figure ironiche – Ah!, quelle figure ironiche? Sono i nostri padroni. Vanno e vengono come vogliono e quando vogliono. Gli ambiziosi o i furbacchioni li cercano, gli altri non possono scansarli. Danno e strappano strette di mano ai ministri, alle eccellenze. Un capopartito che attraversa la sala di corsa e in ritardo per andare a presiedere una riunione importante si lascia accantonare da una di quelle figure che, saggiando coi denti il mozzicone del suo sigaro, lo fa parlare a suo piacimento, magari per venti minuti ancora. Quelli là insomma, caro signor capo, sono i rappresentanti, anzi gli artefici dell’opinione pubblica, sono i giornalisti! Ella si meraviglia! Capisco, ella che nel suo comune tratta gli affari come affari e basta, non può comprendere l’importanza del giornalismo, ma qui ove la maggior parte dei discorsi vengono fatti, non perché vengano sentiti, ma stampati, la cosa cambia aspetto. Un giornalista può mettervi in luce o farvi scomparire nell’ombra, dirò di più, può crearvi, modificarvi o sopprimervi a suo piacimento. Il deputato furbo perciò bada sovrattutto a quello che stamperanno e poi a quello che dirà... – Ah, interruppe il mio capocomune, proprio come successe col caso dell’onorevole... – Precisamente, soggiunsi in fretta, soddisfatto che l’esempio fresco fresco mi dispensasse dal cercarne di altri. Ma vuole persuadersi ancora di più della potenza della stampa? Venga nella sala di lettura. Ecco qui spiegati sui tavoli i giornali di provincia, d’ogni lingua, d’ogni partito, e i deputati attorno a studiarvi l’indirizzo che dà il partito, la virata di bordo che consiglia la situazione, a controllarvi le mosse degli avversari, a spiarvi i desideri o le mutabili voglie del collegio elettorale, e qualcuno – rari nantes – a cercarvi la soddisfazione che i progressi della democrazia fanno sempre più rara, o il plauso ad un discorso fatto, ad un successo ottenuto. A questo punto le sonerie elettriche di tutta l’acropoli, fendettero la greve atmosfera in tutte le direzioni, in tutti gli anditi, in tutti i 107000 metri cubi della parte abitabile dell’edifizio. La seduta incomincia La volontà del presidente impressa su di un bottone veniva comunicata colla velocità della scintilla elettrica su tutti i 90 km del filo conduttore. Per le 25 scale che congiungono il piano terra al secondo, per gli ascensori, per i corridoi i 500 deputati accorrevano. «Oggi c’è grande votazione; sarà un pienone, caro capocomune. Venga, la seduta incomincia». Cinque minuti dopo il signor capocomune sedeva in galleria ed io, disposto oramai a dedicarmi sul serio all’educazione politica del mio grande elettore gli sedevo accanto e m’accingevo a fare le presentazioni dei deputati che lentamente venivano a prendere il posto nei rispettivi settori. Ma il mio uomo aveva una strana tendenza di pregustare cose ed approfondire tutte le armoniche relazioni dell’ambiente. Dica un po’ onorevole, com’è che tornano qui i vecchi dei, che abbiamo visto di fuori? E indicava le 10 statue bianche che s’allineavano 5 a sinistra e 5 a destra della tribuna presidenziale sotto la colonnata che, disposta a guisa di un antico scenarium, occupa la parete centrale di fronte alla nostra galleria. L’esempio di Cicerone e la dottrina di Seneca – Ma non sono gli dei, egregio signor capocomune, gliel’ho pur detto che gli idoli antichi sono rimasti di fuori per sempre, morti e sepolti. Gli dei moderni di qui dentro sono vestiti in nero e li vedrà presto assidersi nelle poltrone ministeriali, che stanno più sotto. Quei personaggi bianchi invece sono gli antichi maestri della politica, messi là a modello. Le darò qualche esempio. Il primo a sinistra del presidente è Cicerone, che fu un avvocato ed un deputato famoso, il fondatore di discorsi lunghi e delle frasi fatte. Prima di morire raccolse in due libri detti orator e de oratore tutte le sue esperienze in materia ed ora l’hanno messo qui a far da maestro e duce; perché ha da sapere che ne ha per tutti; i polacchi studiano il pro domo, i socialisti in Verrem, ch’era una specie di ministro nazionale siciliano, i cristiano sociali le catilinarie che adoperano contro i rivoluzionari rossi e i ruteni, gli czechi rad., gli ostruzionisti in genere studiano l’arte oratoria nei tre volumi nominati prima. Il suo collega che gli segue quarto dalla stessa parte fa invece il precettore dei ministri e si chiama Seneca: costui ha scritto dei catechismi o dei trattati, intitolati De vita beata, De tranquillitate animi e De ira in cui insegna loro di non perdere la calma quando i deputati li importunano, di non reagire quando l’insolentiscono e soprattutto di fare stoicamente il proprio mestiere, senza badare alle pretese del pubblico o alle domande dei cittadini. I quadri più significativi In tal riguardo vede, caro capocomune, c’è un armonico e provvidenziale disegno in tutta la parte decorativa. Anche i dipinti che stanno sopra, s’ispirano allo stesso fine simbolico ed educativo, sopra Seneca, per dirgliene una, vede Solone, il legislatore degli ateniesi il quale nel governare ebbe per motto «niente di troppo», e riuscì in tal maniera a scontentare, dice la storia, tanto gli ottimati che i plebei. Divenne così l’inventore del sistema austriaco e per questo l’hanno risuscitato qui dipinto. Noti ancora che Solone, fatte le leggi, le fece giurare e poi se ne andò a discutere con Creso sulla vanità delle cose umane ed è ciò appunto che fanno i nostri ministri, colla differenza che tirano anche la pensione. Ma il quadro più significativo è quello più grande che vede in alto, a destra del presidente. Distingue una grande figura che assisa sul trono sentenzia e decide sulla turba che gli passa dinanzi! Quello è Minosse. – Minosse, quell’omaccione con la coda, del monumento a Dante ? – Quello stesso. Ed anche qui esercita la stessa funzione. Giudica e manda secondo che avvinghia. Il titolo del quadro è appunto: Minosse giudica secondo il suo arbitrio; non è una metafora od in realtà si deve leggere: Minosse inventa il § 14 . Poiché è come tale che qui viene venerato. Una scampanellata del presidente interruppe ancora una volta la nostra considerazione. Ha la parola il relatore, grida il presidente, cercando di dominare il cicaleccio generale. E l’on. Licht, colla grande testa ricciuta come un tenore di cartello s’alza per parlare... – Ma che diavolo, disse il mio capocomune, quello lì ha la parola, ma parlare parlano tutti; e, vedendo che il relatore continuava a muovere le mani verso un gruppetto di persone, le sole che pareva lo seguissero: Ah, ah! soggiunse il signor capo: quelli là sono i suoi amici fidati. – No, sono degli stenografi. – Ma e allora a chi parla, se nessuno lo ascolta? – Caro signor capo. Lei ragiona in base ai principi vecchi. Una volta si scriveva per poi ripetere a voce, adesso invece si dice a voce perché si stampi. Domattina tutti i deputati avranno sul banco la relazione bell’e stampata. Perché dovrebbero ascoltare? Del resto chi se ne interessa conosce già la cosa per filo e per segno, perché se n’è discusso per mesi e mesi nella commissione e nei singoli clubs. Questa è solo una formalità conclusiva. Intanto dopo una scampanellata del presidente, a cui erano seguite delle parole che per noi andarono perse nel chiacchierio universale, dal settore di mezzo, vicino all’emiciclo si era alzato un altro deputato, con un fascicolo di carte in mano. L’ostruzione della noia Il signor capo si mise sull’attenti. Tre persone vennero a sedersi innanzi al deputato che stava in piedi, cinque altri gli si misero d’attorno in crocchio, sdraiati sui banchi o colla testa nelle mani e le braccia sulle ginocchia come in grande meditazione. Gli altri onorevoli discendevano dai loro settori nell’emiciclo, davano un’occhiata al deputato che stava in piedi, poi alzando le spalle lentamente se ne andavano, oppure si fermavano e trasformavano dei crocchi di commentatori. – Cosa fa quel deputato in piedi? domandò il capocomune. – Fa un discorso. – E gli altri gli sono sdraiati attorno? – Fanno il pubblico. – Su che cosa parla? – Nessuno lo sa, perché parla ruteno. – Nemmeno il presidente? – No, nemmeno lui. – Ma che cosa fa allora? – Presiede. – E gli altri deputati? – Vanno a pranzo o nei loro clubs o in giro per i Ministeri. – Ma questa è una commedia! esclamò a mezza voce il mio grande elettore. – Può chiamarla come crede. In gergo parlamentare si chiama ostruzione. E mi accinsi a spiegargli il regolamento interno della Camera, la questione galiziana, la tecnica del parlamento e la posizione dei partiti. Il signor capo m’ascoltò per un pezzo, ma quando ebbi finito, scosse la testa e disse: Scusi, onorevole, noi nel nostro paese siamo povera gente, ma se un rappresentante comunale gli saltasse in mente di farci ammazzare il tempo a questo modo, lo facciamo saltare dalla finestra lui noi, ce lo garantisco, e non aspettiamo nemmeno tanto! Compresi ch’egli, in regresso ancora nei costumi parlamentari, ragionava secondo le vecchie regole del senso comune e quindi non insistetti più oltre. Intanto nel cielo della gran sala si era accesa la luce elettrica. Assieme ai candelabri di bronzo delle pareti e ai lampadari delle gallerie ardevano in questo momento 22.538 candele. Il teatro parlamentare era illuminato a giorno, ma pareva che dai lampadari stessi piovesse la noia. Le dame eleganti che erano salite in galleria per godersi lo spettacolo sbadigliavano senza riguardi ed ai loro sbadigli rispondevano gli sbadigli degli uscieri, dei segretari, del presidente. La Camera moriva nello sbadiglio. L’ostruzione del baccano Andiamo, capocomune, dissi forte riscuotendolo, quando mi pareva che s’addormentasse. Il buon uomo si alzò e uscì dietro la sedia barcollando; ma in quel momento un sibilo straziante fendette l’aria, poi un altro, tre, quattro, cinque, dieci, eccheggiarono sotto la volta vitrea del paralmento e ai fischi si frammischiarono suoni di trombe, di campanelli, e seguì un fracasso di nacchere e di tamburi. Il capocomune si precipitò al parapetto. – Misericordia, onorevole, diventano matti? E mi segnava col dito il gruppetto dei ruteni ch’era andato ingrossandosi in un baleno. Al tumulto da tutte le porte rientrarono di corsa i deputati che circondavano i tumultuanti, lanciando loro invettive e facendo gesti di minaccia. Ma i ruteni soffiavano a perdifiato, e tempestavano di pugni i banchi, sui quali sbattevano le loro tavolette furiosamente. La reazione del senso comune Misericordia che pandemonio, esclamava il mio uomo; ma che non li fanno smettere, che non li buttano fuori, che non li fanno arrestare! Che cosa fa quella mummia di presidente? E in ciò dire il signor capocomune stringeva nervosamente un lampadario che gli stava vicino e gli dava degli scossoni tali ch’ebbi paura lo strappasse. Andiamo, andiamo, signor capo, dissi io e questa volta accompagnai all’esortazione l’atto e lo trassi fuori davvero. Ma il buon uomo, seguendomi per la scala a chiocciola che ci riconduceva negli ambulacri parlamentari, continuava ad imprecare: oh! che pazzi, che vergogna, che scandalo... – Uomo di poca fede, gli gridai io, quando arrivammo in fondo. E non glielo diceva io stamane che avrebbe patito scandalo? Ed ora, perché ha visto quello che ha visto ed ha sentito quello che ha sentito ritorni a casa a dire che qui si ammazza il tempo, che il parlamento è un teatro varietà, che è un manicomio, e che i primi matti sono gli elettori che ci mandano fuori... – Piano, piano, onorevole, m’interruppe allora il bravo capocomune, io non ho detto questo, io non ho detto questo... Ma l’ha pensato. Sicuro, deve averlo pensato, come lo pensano tutti i lettori superficiali dei quotidiani politici, perché anche i giornalisti si divertono a propalare lo scandalo più che a illustrare e commentare il lavoro serio. Come e dove si lavora Eppure si lavora sa, si lavora anche qui e si lavora sul serio; e tenendolo sempre per il braccio quasi temessi che mi sfuggisse lo condussi da una sala all’altra, fino a sette, e gli spiegai che nell’una la tal commissione aveva lavorato sei mesi per discutere paragrafo per paragrafo un progetto di legge governativo, nell’altra s’era discusso articolo per articolo una voluminosa legge sociale, nella terza s’era discusso capitolo per capitolo il bilancio dello stato, nella quarta si erano elaborate le riforme tributarie, nella quinta s’era preparato l’organico degli impiegati e così via. Poi, attraversando l’atrio, lo ricondussi sul fronte a vedere le camere dei ministri, ove i deputati trattano gli affari più importanti del loro collegio, a visitare le cancellerie ove si accumulano i progetti, le relazioni, le statistiche, i memoriali che vengono distribuiti ai deputati ed infine lo feci salire alla sala dell’«Unione latina» . Qui regnava il divino del pian silenzio verde. Nessun rumore vi giungeva dal teatro principale della guerra. Lungo un enorme tavolo verde sedevano degli uomini pensierosi, colle spalle e colla testa incurvate in mezzo a due pile di fogli bianchi, ed erano così concentrati nel loro lavoro, che nessuno si mosse per la nostra venuta. 764! disse uno, interrompendo il suo silenzio, mentre metteva da parte uno dei fogli calcati in pila. Beato lei, gridò un altro in fondo alla tavola, io sono all’850! Ed io al 900, soggiunse un altro, tirando un lungo sospiro. E poi ripiombarono nel silenzio. L’ordine mendicante del sec. XIX Che diavolo fanno? chiese sottovoce il capocomune, a che giuoco giuocano? – Non giuocano, evadono pezzi. – ? – Sono le domande, i memoriali, le lettere, le petizioni, le suppliche, gli ursori dei comuni, dei consorzi, degli elettori del collegio. Vede là tutti quei cassetti l’uno sotto l’altro, come in drogheria? Ogni deputato ne ha tre sotto chiave. Nel primo stanno i pezzi da evadere, nel secondo quelli evasi, nel terzo i sospesi. La mattina ogni deputato affonda la mano nel cassetto numero uno, prende un pacco di atti, li elenca, li enumera, ne fa lo spoglio e poi li caccia nella sua tasca e fa il cosiddetto giro dei ministeri, cioè esercita il suo mestiere di commesso viaggiatore della politica. Parecchi tengono nota dei pezzi evasi in un anno e questo è il numero appunto che ha sentito prima. Vede, caro capocomune, questo è un lato della nostra attività che può sfuggire a molti; ma che pure è grave assai. In tutti i parlamenti è così. Per nulla in Francia i deputati non vennero definiti «l’ordine mendicante del secolo XIX». ...Quando dopo quest’ultima rivista accompagnai il mio grande elettore all’uscita, mi parve calmato e persuaso. Ma cosa avresti detto, egregio capocomune, se ti fossi ritrovato in galleria tre ore dopo? La scena era completamente mutata ed i ventilatori e gli aspiratori messi in funzione verso sera avevano assorbiti tutti i miasmi. Cinquecento deputati sedevano tranquillamente ai loro posti e rispondevano in tutte le lingue all’appello nominale, con una calma meravigliosa. Vedendo quella fratellanza di popoli dopo tanto odio, sarei stato tentato di spiegarti perché fra grandi uomini del Scenarium, abbiano dipinto anche Platone, l’autore dello stato ideale. Ma tu, egregio capocomune, per avventura te n’eri andato! Ché non ti sarebbe mancata che questa sorpresa ancora per dover dichiarare il problema austriaco incomprensibile e indefinibile. Vienna, fine d’anno.
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Ci siamo, amici. Quando un mese fa scrivevamo che bisognava prepararci ad una lotta aspra e senza quartiere nella quale i nostri avversari sarebbero ricorsi a tutte le armi, senza scrupoli e senza riguardi a quel diritto delle genti, che pur esiste anche nella vita pubblica, eravamo troppo facili profeti. Leggete uno degli ultimi articoli dell’Alto Adige (3-4 gennaio) e diteci se si può scrivere più slealmente e con più nera perfidia. La Dieta è in vista e con essa la trattazione del problema fiemmese, di qui lo scrittore prende motivo per un nuovo attacco alle nostre istituzioni economiche. Ma attacco non è ancora la parola giusta ed è termine troppo cavalleresco per un articolo, in cui dietro affermazioni generiche è seminata tanta insidia ed il veleno non si presenta concentrato in un’accusa o in un’ingiuria specifica, ma è travasato in ogni parola e nella stessa composizione dell’articolo. Qui non si tratta di discutere e di persuadere, ma si tenta semplicemente e cinicamente di fare del male. E poiché l’odio fazioso e lo spirito di vendetta non ha soffocato del tutto un certo senso di responsabilità per i danni che potrebbero venire al paese, e conviene in ogni caso tener pur conto dei rimproveri che per una simile pratica vennero mossi all’Alto Adige dai suoi stessi amici politici, l’autore cerca sgravare la sua coscienza affermando di non farsi che il portavoce di una presunta opinione comune. Ma il tentativo di nascondere la propria perfidia dietro la figura irriconoscibile d’una folla anonima non riesce, semplicemente perché codesta folla nonostante tutti gli sforzi, non si è arrivati a crearla. Sappiamo invero che da tempo si è tentato ogni via per creare attorno alle nostre istituzioni un ambiente di sfiducia e che per così lodevole fine si è ricorsi perfino alla provata maldicenza di qualche buona signora; ma, nonostante tutta la bufera pubblica ed il privato vaticinio della calunnia personale, le nostre istituzioni, entrando nell’anno nuovo e uscendo rafforzate dalla crisi generale passata, sono circondate dalla falange degli amici vecchi e fedeli divenuta più numerosa per l’aggiungersi spontaneo di moltissimi nuovi. Siffatta è la folla che circonda di fiducia, di credito e di attaccamento i direttori delle nostre istituzioni; ed è così, perché sia mediante i propri fiduciari sparsi in tutto il paese, sia direttamente nelle assemblee generali, ha potuto sempre ottenere ogni schiarimento desiderato e raggiungere il più rassicurante controllo. I nostri amici, che sono chiamati a formarsi un giudizio e a deliberare, sanno quindi di scienza propria che il mistero attorno al quale da tempo si rompe invano la testa l’uomo dell’Alto Adige non esiste che nella sua malafede e che le sue insinuazioni non hanno ombra di fondamento, ma sgorgano solo dallo spirito di rappresaglia che oramai ha invaso tutta la sua anima. I popolari hanno creduto, nell’interesse del paese, dopo aver tentato ogni mezzo per una soluzione migliore di adattarsi all’Egna-Predazzo (Moena) e Lavis-Cembra, attuando così un conchiuso quasi unanime della deputazione trentina alla Dieta. Ora, per dissuaderli da questo atteggiamento, secondo il nostro uomo, ogni mezzo è buono. Intimidazioni, attacchi personali, campagne giornalistiche, dimostrazioni... e minacce, tutto è stato messo in opera. E fino qui ancora si rimaneva sul terreno, per quanto sassoso, del rude ius gentium della politica moderna. Ma si andò più in là e si trasportò la lotta nel campo così delicato del credito e della fiducia amministrativa, ove l’offesa può riuscire tanto più facile quanto è più vile e la difesa pubblica è in ogni caso e per molte ragioni altrettanto più difficile! Confessiamo che, al primo attacco, siamo rimasti sorpresi. Noi che, pur avendo di frequente l’occasione di fare il contrario, abbiamo sempre arrestato il nostro attacco o contrattacco politico innanzi alle istituzioni di credito, amministrate da avversari politici, sentendoci innanzi ad una parte notevole della piccola ricchezza nazionale del Trentino, non avevamo mai supposto che degli avversari che conoscono l’economia del nostro paese, potessero avere un sentimento diverso innanzi ad istituzioni, amministrate da cattolici, in cui è accumulata buona parte del risparmio e dei frutti del lavoro del popolo nostro. Ma poi tentammo ancora una spiegazione, che non fosse del tutto ancora la perfidia. Si tratta di cieco fanatismo, abbiamo detto: Costoro credono che la soluzione ferroviaria fiemmese sia la rovina del paese e pensano di scongiurarla tentando di premere sull’atteggiamento politico del partito popolare, colle intimidazioni sul terreno del credito pubblico. Fu allora che con tutta calma ma con tutta l’energia della coscienza sicura di sé e della propria causa abbiamo scritto che una simile tattica, se riuscisse al suo ignobile intento, potrebbe danneggiare il paese, ma non smuoverci dalle nostre convinzioni. Se la rabbia avversaria potesse far crollare tutto intorno a noi e mandare in frantumi tanta opera, cementata di lavoro e di sacrifizio, noi non potremmo cambiare la nostra convinzione che il respingere oggi i quattro milioni della Lavis-Cembra, il gettare due vallate nella solidarietà economico-industriale con Bolzano, il ripiombare il nostro paese nel nullismo al quale dobbiamo tanti disastri, sarebbe un gravissimo errore politico ed amministrativo del quale la nostra coscienza non assumerà mai la responsabilità. Questo non possumus irremovibile, opposto da tempo agli attacchi avversari li dovrebbe aver persuasi che per questa via non giungerebbero alla meta. Ma che meta? Che fanatismo? Oggi è chiaro, terribilmente chiaro. Quest’uomo ci vorrebbe danneggiare a qualunque costo, prima o dopo la soluzione di Fiemme, indipendentemente dall’esito, ma punirci in ogni caso perché non abbiamo piegato il groppone sotto la sua sferza, perché non abbiamo tradito i nostri elettori in braccio al suo nullismo. Tutti si sono piegati, presto o tardi, quei liberali di Fiemme che per la Egna-Predazzo hanno tenuto convegno perfino coll’on. Sternbach, quei del comune che avevano dichiarata la S. Lugano la sola linea realizzabile, quei deputati liberali che avevano fatta la proposta Egna-Predazzo, Lavis-Cembra, ed ora si sono indotti ad ostruirla; tutti, non noi. E noi dobbiamo venir castigati, perché abbiamo il coraggio della coerenza, perché al frasaiolismo di una politica nullista opponiamo la visione lucida e imperturbata degli interessi del paese. Guerra perciò alle istituzioni, seminiamovi attorno il sospetto, la diffidenza, il discredito; e, perché questi uomini hanno tenuto fede al loro popolo, puniamo eletti ed elettori, disgregando quella base comune lavoro cui sperano di edificare un Trentino migliore. Che importa se codesta guerra sarà fratricida, ha scritto recentemente l’Alto Adige! Che importa se andassero perduti alcuni milioni della povera gente, purché venga sgominato il partito popolare? Ha scritto più chiaro il suo ultimo rampollo, il Contadino. Ah codesto non è semplicemente fanatismo, signori, codesta è perfidia della più nera. Ebbene, vi abbiamo lasciato dire e scrivere per un pezzo, senza reagire, finché la reazione avesse potuto avere anche la più lontana parvenza di timore; oggi che abbiamo viste le vostre frecce avvelenate spezzarsi contro il macigno, ci fermiamo, vi guardiamo in faccia per fissar bene la vostra fisionomia e diciamo ai galantuomini e ai nostri amici di guardarvi bene anch’essi perché non vada perduta l’immagine vera dei vostri lineamenti. Gli avversari onesti! Dicendo così noi pensiamo a quei moltissimi fra i liberali, fra gli anticlericali anche che, incontrandoci, ci dicono francamente: Badi, noi non siamo d’accordo coi sistemi dell’Alto Adige Non possiamo approvare codeste campagne contro le poche industrie, contro gl’istituti del nostro paese. E altri di loro ci dicono: Ma lasciate andare! Non sapete chi li scrive? Quell’uomo ha fatto una campagna di ostinazioni e di veleno anche contro la centrale sul Sarca, che tuttoggi dichiara impresa fallita. Quell’uomo, messosi una volta in testa che il paese è il suo cervello, è ricorso perfino ad Innsbruck contro l’autonomia di Trento, e ha tentato valersi di coloro che oggi chiama «corruttori della vita pubblica» per combattere i liberali che non gli davano retta. E qualche altro, fra i più autorevoli, ci dice ancora: Le 200.000 cor. di contributo per la Dermulo-Mendola? Ma ben fatto, se le pretendete. Si tratta del diritto comune che deve venir applicato a tutti. E se le altre imprese ferroviarie ricevono il 10% del costo dalla Provincia, perché non dovrà richiederlo una società ferroviaria trentina? E se i tedeschi pretendono tal contributo per la ferrovia dello Ziller già costruita, fu ottima cosa il cogliere l’occasione per domandare altrettanto per la Dermulo-Mendola, e il deputato liberale Raile che ha votato in favore nella commissione ha agito come avrebbe agito ogni galantuomo che vuol bene al suo paese. Così, di fronte a noi ed ai nostri amici, si esprimono spesso uomini liberali e, badate, i liberali più in vista e più rappresentativi. Ma cosa conta tutta codesta folla che bisbiglia la verità, di fronte al loro organo che grida la menzogna? Cosa valgono questi sfoghi privati delle coscienze oneste quando la coscienza pubblica del partito liberale è sorda alle loro resipiscenze! Noi non vorremmo che i nostri amici si cullassero in vane illusioni dando troppo valore ai numerosi nicodemi della politica trentina. Per noi la voce del partito liberale, comunque stiano le cose dietro quella bandiera di carta, ci viene dall’Alto Adige. Il partito liberale ha preso quindi un atteggiamento di attacco, di rappresaglia, di demolizione contro noi e contro tutte le cose nostre. La parola d’ordine, il loro ceterum censeo è: nasca quel che vuol nascere, bisogna tentare ogni sforzo per buttare giù i popolari. A tal fine ogni mezzo è lecito e benedetto. Ecco la verità, alla quale noi vorremmo che tutti i nostri amici guardassero in faccia. Sarà la verità che ci farà liberi. Poiché, amici, in questi giorni in cui si preparano battaglie decisive noi vi abbiamo contati ad uno ad uno e vi abbiamo trovati così numerosi, che la vittoria non ci potrà mancare. Ma qui e là però ci è parso di incontrare un certo senso di rilassamento, un certo conciliatorismo di fronte ad ammissioni e concessioni di liberali onesti, che può indurre lo sfibramento. Ebbene contro questa servitù ambientale noi vi richiamiamo alla verità, perch’essa liberi il vostro spirito e snodi le vostre energie combattive. Tenetelo a mente: nei momenti decisivi codesti solisti della deplorazione scompariranno nel coro che dirigerà il giornale deplorato. Lo sentite questo coro, non nuovo ai nostri orecchi? È sempre l’inno di guerra contro i «clericali», il canto molteplice, rauco e confuso che ci ha circondato nelle battaglie passate, ma oggi è più forte e più scomposto e domani sarà più infernale ancora per uno sforzo ultimo e generale. Ebbene che quest’urlo d’odio vi riscuota tutti e vi richiami ai posti. Che le nostre società facciano il loro dovere e si preparino. Bisogna questa volta che il paese si levi tutto a dire la sua parola.